Architetti d’Italia. Fratelli Castiglioni, i “giusti”

Minimalismo senza snobismo e ironia senza retorica hanno accompagnato il lavoro dei fratelli Castiglioni. Facendoli emergere dal loro tempo.

Per affrontare la poetica dei fratelli Castiglioni occorre partire dalla parola “giusto”. La adoperavano architetti e designer della vecchia generazione quando erano soddisfatti di un risultato. Allude a un effetto estetico ottenuto da un prodotto, in genere meccanico, che funziona come un organismo ben articolato. Probabilmente perché si è raggiunta quella bellezza in cui, come suggerivano gli autori dell’Umanesimo e poi del Rinascimento, non c’è nulla da aggiungere o da togliere.
Ovviamente, una espressione del genere urta la suscettibilità di coloro che credono che la progettazione possa essere ridotta a teoria. Si tratta, infatti, di un termine generico che dovrebbe essere meglio esplicitato. Che significato ha affermare che una cosa è giusta? Rispetto a cosa? Eppure anche Ludwig Wittgenstein, che praticava il ragionamento teorico in forma non episodica, al momento di costruire la casa per la sorella non riusciva ad andare oltre questa espressione. Per decidere l’altezza o lo spessore di ogni componente il filosofo costringeva i fornitori e i muratori a snervanti prove empiriche sino a che non riteneva che la forma funzionasse.
Chi pratica la strada della giustezza affronta come Wittgenstein una disciplina rigorosa e ascetica, anche se, a differenza del filosofo, non necessariamente priva di ironia. Si sente simile a un ginnasta, a un danzatore o a un nuotatore. Cioè a coloro impegnati in discipline dove si vede a occhio se il movimento è, appunto, giusto o produce solo un inutile spreco di energia. Chi si agita troppo, lo sanno bene i nuotatori, fa solo acqua.
Il concetto di giusto, per quanto possa sembrare arbitrario, ha sempre un riferimento a una prestazione da ottenere con la massima economia dei mezzi. Anche se non è necessariamente quantificabile in un risparmio economico. Mies van der Rohe sicuramente la perseguiva più di Le Corbusier, ma non è affatto detto che le sue realizzazioni fossero meno care per i committenti. Anzi, quando supera certi limiti, diventando minimalismo, la ricerca del giusto mette in gioco meccanismi sempre più ossessivi e sofisticati, con un paradossale dispendio crescente di risorse. Difficilmente definiremmo giusto l’ultraminimalismo di Kazuyo Sejima o di John Pawson.

Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Relemme, 1960-19. Prod. Flos. Photo credit Francesco Biganzoli. Courtesy Fondazione Achille Castiglioni

Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Relemme, 1960-19. Prod. Flos. Photo credit Francesco Biganzoli. Courtesy Fondazione Achille Castiglioni

GLI INGRANAGGI GIUSTI

Se smontate una qualsiasi lampada dei fratelli Castiglioni rimarrete, invece, stupiti da un disegno essenziale e curato sino alla vite. Tutto è ridotto al minimo, ma senza travalicare il buonsenso e l’intelligenza. L’oggetto non deve dimostrare alcun teorema estetico. Né svelare che il Padreterno si nasconde tra i dettagli: dimostrazione questa che costringe i particolari costruttivi ad assumersi responsabilità teologiche particolarmente gravose. Cioè spostare il focus dal funzionamento alla rappresentazione, e quindi al Giusto, che giusto non è mai…quasi mai.
Per capire la rivoluzione dei fratelli Castiglioni bisogna anche capire quella di una certa Italia del dopoguerra, che loro rappresentarono al meglio: quella del miracolo industriale. Con i suoi capitani d’azienda e i suoi poeti, due figure che spesso coincidevano. Penso per esempio a personaggi come Adriano Olivetti o Enzo Ferrari. E vi erano anche designer come Marcello Nizzoli i quali produssero oggetti che, al pari delle lampade dei Castiglioni, ci meravigliano ancora oggi per il loro essere perfettamente giusti, esattamente come gli ingranaggi del motore di un’automobile il cui buon funzionamento si percepisce con l’occhio ma anche con il tatto e con l’orecchio. Penso per esempio alle magnifiche macchine da scrivere della Olivetti, quali la Lettera 22. Insuperate.
Dei tre fratelli Castiglioni il più noto oggi è Achille, il più giovane e il più longevo. Morì nel 2002 mentre Livio, il più anziano, è scomparso nel 1979 e Pier Giacomo nel 1968.
Che Achille fosse un fuoriclasse è fuor di discussione, ma la sua bravura, esaltata anche in una recente mostra alla Triennale di Milano a lui dedicata e che proprio per questo ha suscitato non poche polemiche, ha messo in ombra quella degli altri due e in particolare di Pier Giacomo che, invece, occorrerà rivalutare. È nel periodo in cui i due fratelli lavorano gomito a gomito che sono prodotte le opere migliori, che infatti sono a firma congiunta. E l’Achille che lavora da solo dopo la scomparsa del fratello, se pur realizza dei pezzi memorabili, non ha più quella fresca capacità di innovazione che aveva contraddistinto l’opera precedente. Segno probabilmente di quanto il fratello pesasse nella ricerca progettuale.
Le lampade Arco, Splüghen Brau, Snoopy, Viscontea, Taccia, la poltrona Sanluca, le sedie Lierna e Tric e i sedili Sella e Mezzadro, per citare solo alcuni dei prodotti più celebri e innovativi, sono frutto del lavoro comune.

Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Sedile Allunaggio, 1966. Committente A P (prototipo), prod. Zanotta 1980. Courtesy Fondazione Achille Castiglioni

Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Sedile Allunaggio, 1966. Committente A P (prototipo), prod. Zanotta 1980. Courtesy Fondazione Achille Castiglioni

IRONIA E RIVOLUZIONE

Ritorniamo al termine minimalismo, che in parte esprime e in parte travisa la filosofia progettuale dei Castiglioni. A salvarlo dal precipitare nel baratro del formalismo è l’atteggiamento brutalista, che porta soprattutto Achille e Pier Giacomo a fare i conti con una realtà semplice, essenziale sino a essere spoglia, se non sporca. Un atteggiamento che prefigura il pop, cioè l’avanguardia che cambierà radicalmente il modo di vedere il rapporto con la banalità del quotidiano.
Tuttavia, a differenza di altri protagonisti della corrente, l’atteggiamento non scadrà mai nello snobismo di chi recupera il mondo delle cose di tutti i giorni per rispondere a una moda. Nella loro opera vi è un atteggiamento più creativo che riproduttivo. Il sedile del trattore che diventa una seduta per il soggiorno, il sellino da ciclista che si trasforma in una specie di micro sedia a dondolo, la resina cocoon filata come se si dipanasse il gomitolo della lana, il buco della base della lampada Arco pensato per inserirci un manico di scopa per poter così spostare agevolmente una lampada altrimenti pesante. E quando, come nella lampada Taccia, si percepisce la citazione classicista delle scanalature di una colonna, siamo avvertiti che è solo un accorgimento per ampliare la superficie del fusto e favorire il raffreddamento dell’oggetto. Se parlare di gioco è eccessivo, vi è sempre una componente ludica e ironica che secolarizza gli oggetti sottraendoli alla retorica. Mai ‒ penso per esempio alle lampade ‒ nella storia del design è avvenuto un processo di così radicale riscrittura della poesia dello spazio.
Una rivoluzione che oggi percepiamo solo in parte ma che ha portato le case italiane dalla schiavitù del lampadario posto al centro della stanza e di qualche lume poggiato sui mobili, a essere organizzate secondo un continuum spaziale scandito da una successione di esperienze luminose differenziate in funzione della molteplicità delle attività domestiche.
Famosi come designer, i Castiglioni sono stati architetti non meno impegnati, rifiutando quella parcellizzazione dei ruoli che in quegli anni veniva a delinearsi soprattutto nei Paesi anglosassoni. Credo che sia proprio questa unità, oggi messa in discussione anche in Italia, che bisogna salvaguardare. È la metrica dello spazio che scandisce quella degli oggetti e viceversa. Senza, si rischia di precipitare nella banalità dell’oggetto, nella sua trasformazione a icona di sé stesso. Un prodotto che quindi non potrà mai essere giusto, perché, se lo è, lo può essere solo rispetto a un sistema di riferimento. Il nostro mondo, appunto.

‒ Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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