Architetti d’Italia. Paolo Portoghesi, l’affabulatore

Undicesimo appuntamento con il ciclo di Luigi Prestinenza Puglisi dedicato agli architetti italiani. Questa volta tocca a Paolo Portoghesi, affascinato dal potere e autore di progetti non certo straordinari, ma capace di una evidente generosità culturale.

È facile parlar male di Paolo Portoghesi. Manfredo Tafuri gli riservò parole di fuoco. Nella sua Storia dell’architettura italiana lo bolla per il “gusto per l’eccesso privo di tensioni”; come a dire: per una maniera di progettare pomposa e sciocca. Mentre aveva taciuto di lui – probabilmente perché lo reputava insignificante – nella sua storia dell’architettura contemporanea scritta a quattro mani con Francesco Dal Co, nella quale non aveva lesinato parole di apprezzamento per architetti certo non più dotati.
Eppure gli anni in cui Tafuri scriveva sono stati per l’opera di Paolo Portoghesi i migliori. Collaborava con lui Vittorio Gigliotti, un ingegnere salernitano di talento, cresciuto alla scuola di Zevi, che riusciva a contemperare il kitsch stilistico con la migliore dialettica del cosiddetto neo liberty, giocando tra spazialità contemporanea e riferimenti barocchi.
In seguito, esauritasi la verve kitsch e neoliberty, anche le sue opere più riuscite, come la Moschea di Roma, sono diventate penosi ammiccamenti al gusto comune, cioè quello che crede che basti copiare gli stereotipi formali del passato per richiamare in vita storia e tradizioni.
Da quel momento in poi, alcuni dei peggiori interventi edilizi realizzati in Italia portano la firma di Paolo Portoghesi: da piazza Elimo a Poggioreale al Teatro Politeama a Catanzaro.
Dico peggiori perché la riconoscibilità dell’opera, e cioè il disegno per stereotipi ripresi da facili suggestioni baroccheggianti, ha prevalso sulla invenzione dello spazio e del dettaglio e anche sulla bontà dell’esecuzione, lasciata a imprese sciatte e trascurate.

Paolo Portoghesi, Casa Baldi, Roma 1959-61

Paolo Portoghesi, Casa Baldi, Roma 1959-61

IL RAPPORTO CON BRUNO ZEVI

Se il rapporto con Tafuri non fu felice, quello con Zevi fu disastroso. Erano legati da un intenso legame da allievo a maestro: Zevi era del 1918, Portoghesi è del 1931. Racconta Portoghesi che trascorrevano lungo tempo a parlare di architettura. E si era instaurata una comunanza spirituale tanto forte da spingere Bruno Zevi, accentratore e individualista, a condividere la realizzazione di un’opera alla quale doveva tenere particolarmente, il volume dedicato a Michelangelo architetto. Dopo Michelangelo i due avrebbero dovuto affrontare insieme l’altro sommo eroe della mitologia zeviana: Francesco Borromini. Il testo, pare già pronto per la stampa, non fu mai pubblicato. Così come non fu mai ripubblicato il Michelangelo architetto che, presto esaurito, è diventato una rarità editoriale. Non sapremo mai perché. Se per uno scontro tra personalità, aggravato dal fatto che Zevi, che non era certo facile, vedeva l’allievo trasformarsi in antagonista; se per incompatibilità di tesi, e Zevi era khomeinista nella sua religione della libertà; se per ragioni del tutto estranee al libro. Fatto sta che Zevi divenne il peggior nemico di Portoghesi e non perse occasione per criticarlo con insulti che solo un incassatore eccezionale ha potuto subire senza reagire con una querela per diffamazione.
Portoghesi, dal canto suo, sembrava fare di tutto per meritare le critiche. Flirtava con il potere, diventando in poco tempo l’architetto ufficiale del PSI di Bettino Craxi. Acquisiva, uno dopo l’altro, gli incarichi più importanti. Diventava il riferimento per l’architettura di quell’Italia da bere, che la Storia, dopo qualche anno e in pochi sorsi, si è bevuta con Tangentopoli; anche se della sua onestà non si è potuto dire nulla di penalmente rilevante.
Per noi giovani che parteggiavamo per Zevi non poteva esserci personaggio più detestabile, e di motivi ce ne erano abbastanza per trasformarlo nel principe del male. Volutamente ignorando due o tre passaggi che, se non a scagionarlo, sicuramento sarebbero serviti a presentato in una luce diversa.

Paolo Portoghesi, Chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, Calcata 2002-2009

Paolo Portoghesi, Chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, Calcata 2002-2009

COSTRUIRE UNA RETE

Prima di tutti il ruolo chiave che Portoghesi ha avuto nella costruzione della cultura architettonica italiana.
Non mi riferisco solo ai suoi testi fondamentali sul barocco, godibili e leggibili come pochi perché Portoghesi ha una ottima prosa ed è un affabulatore nato: basta sentirlo una volta per rimanerne affascinati. Ma al suo incessante ruolo di animatore di imprese culturali. Basta ricordare il Dizionario di Architettura e Urbanistica a cui collaborarono, numerosi giovani promettenti, tra i quali Renato Nicolini, insieme a studiosi quali Giulio Carlo Argan, Manfredo Tafuri, Christian Norberg-Schulz, Umberto Eco.
E aggiungere la rivista Controspazio, di cui è stato nel 1966 fondatore e direttore.  Controspazio, nonostante le pesanti derive reazionarie, ha avuto il merito di rivedere, attraverso splendidi numeri monografici, intere pagine di una storia ridicolmente semplificata dell’avanguardia e del Movimento Moderno in Italia, arruolando come redattori o collaboratori alcune delle più brillanti intelligenze critiche.
Portoghesi, infatti, diversamente da altri maestri, che hanno creato il vuoto intorno a se stessi, è stato uno dei rari che ha incessabilmente cercato di costruire una rete.
La sua impresa più brillante è la Biennale di architettura del 1980. Per due motivi. Il primo è che è riuscito, grazie alla sua influenza politica, a far nascere in forma sistematica l’unico appuntamento di architettura in Italia che ha rilevanza internazionale (dal 1975 al 1979 a Venezia c’erano solo mostre tematiche all’interno della rassegna di Arti Visive).
Il secondo motivo è che, nonostante i crescenti successi delle successive 14 edizioni – siamo arrivati a 15 e il prossimo anno, con la direzione di Grafton, saremo a 16 –, è riuscito a organizzare la più importante: La presenza del passato con la mostra della Strada Novissima. Un’edizione indimenticabile, alla quale contribuì in esterno anche il teatro galleggiante di Aldo Rossi. Fu la sintesi magistrale di un’operazione che solo a Portoghesi è riuscita: unificare un fenomeno caratterizzato da mille sfaccettature, il Post Modern, trovando al suo interno ampio spazio per promuovere l’architettura italiana. È a lui che dobbiamo il momento di massima visibilità internazionale della nostra architettura, dopo il quale c’è stato un sempre più preoccupante declino.
Quando di questa serie ho scritto la puntata precedente, dedicata a Vittorio Gregotti, alcuni lettori mi hanno fatto notare che uno dei meriti principali del progettista novarese è stata la gestione di Casabella. Se però esaminiamo i frutti di una direzione durata ben quattordici anni, dal marzo 1982 al febbraio 1996, ci accorgiamo che i risultati in termini di visibilità dell’architettura italiana – escludendo la Gregotti Associati e pochi altri – sono stati trascurabili. Certo una rivista colta, con interventi di critici e di filosofi, spesso quel tanto fuori tema da far pensare a un approccio vasto e multidisciplinare, ma era il contrario di quella strategia a rete che Portoghesi ha, invece, perseguito con la sua incessante opera di tessitore e di promotore.

Paolo Portoghesi, Moschea, Roma 1974-1995

Paolo Portoghesi, Moschea, Roma 1974-1995

CULTURA E GENEROSITÀ

Ecco perché oggi, che sono passati i tempi dell’ideologia, bisogna provare a essere giusti con Portoghesi. Non certo per recuperarne l’architettura, anno dopo anno sempre più deprimente.  Né per vantarne i trascorsi politici: Portoghesi è sempre stato attratto dal potere tanto da cinguettare in tempi recenti anche con l’ex missino Alemanno al quale ha donato un suo progetto, purtroppo realizzato, per Piazza San Silvestro. E nemmeno per le sue posizioni culturali che non disdegnano il nuovo ma che sono sempre più rivolte al passato. Il tratto caratterizzante di Portoghesi è la sua generosità culturale, l’aver capito che per prendere – e lui ha preso – bisogna dare, costruendo un sistema e producendo cultura. Da qui la costante opera di valorizzazione e di riconoscimento del talento, di quel talento che senza un realistico e opportunistico rapporto con il potere rimarrebbe solo sulla carta. Ecco forse perché uno dei suoi architetti favoriti è Marcello Piacentini. Non dubito che, se fosse vissuto nel ventennio, Portoghesi non si sarebbe posto per un attimo il problema di abbattere la Spina di Borgo e disegnare Via della Conciliazione, magari con una curva che si sarebbe (malamente) confrontata con quella del Bernini. Ma bisogna essere giusti e riconoscere ai suoi patti con il diavolo qualcosa oltre le semplici attenuanti generiche. In fondo, dei temibili squali che hanno pattugliato lo stagnante mare della nostra architettura non è stato il più famelico ed è stato il più colto e generoso.

P.S. Mi sono sempre chiesto perché Portoghesi, il quale ha anticipato temi che sono stati e sono di attualità, non è stato mai riconosciuto come un antesignano. Eppure ha riproposto le curve prima di Gehry o della Hadid e la natura e l’ecologia prima di Boeri. La ragione, credo, è che il recupero non sia stato – soprattutto dalla fine della collaborazione di Gigliotti – filtrato da una sensibilità contemporanea: è apparso troppo letterale e quindi è interpretato come un atto di nostalgia e non come un coraggioso e fertile avanzamento nella ricerca. E questo ci racconta quanto, in un’epoca in cui le forme si rimescolano incessantemente, possa essere sottile la linea che separa il revivalismo dalla contemporaneità.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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