Ho sempre guardato Giuseppe Terragni con sospetto, forse suggestionato dai giudizi che di lui dava Edoardo Persico, positivi ma con riserva o, più probabilmente, negativi con riserva. Terragni però è amatissimo e il fatto di ritrovarmi in scarsa compagnia mi inibisce nello scrivere quello che penso. Non tanto perché abbia paura di esprimere un giudizio non condiviso, ma perché se Giuseppe Terragni è diventato il progettista più celebrato, se non venerato, dalla quasi generalità degli architetti italiani, il più conosciuto e studiato dei nostri a livello internazionale, a partire dagli intellettuali poststrutturalisti della rivista Oppositions (1973-1984), una ragione che mi sfugge ci sarà sicuramente, ed è quindi possibile che, suggestionato dalla lettura di Persico, sia io a sbagliarmi.
Proprio alcuni giorni fa ho trovato alcuni appunti che avevo scritto da ragazzo. In uno affermavo con eccessiva decisione: “Quello che per Piacentini è retorica, per Terragni è valore. Ma l’universo problematico è sempre lo stesso: conciliare razionalità (nuovo) e storia sotto l’ala del Fascismo. Da qui la mancanza di elementi essenziali della nuova arte, quella di Picasso e delle avanguardie“. In un altro: “Terragni pittore svela Terragni architetto: è un novecentista“.
Probabilmente sono le due accuse principali che ancora gli muovo, anche se oggi non le formulerei più con tanta violenza. Sono ancora molto dubbioso infatti del lavoro di chi ha tentato di conciliare storia e razionalità al di fuori del percorso delle avanguardie artistiche più radicali. E inoltre continuo a essere convinto che arte e architettura non si possano separare. Non so se si tratti di un preconcetto, ma per comprendere un personaggio bisogna innanzitutto guardare alle sue scelte artistiche. Quello che a volte cela l’architettura, sicuramente più difficile e ambigua da decifrare, l’arte lo mostra con evidente chiarezza.
Se disegni cavalli che potrebbero stare sulle scatole dei cioccolatini come fa Santiago Calatrava, qualcosa nelle tue strutture probabilmente non funziona. E se, come Sandro Anselmi, disegni ancora come un dotato studente d’accademia che ancora non ha superato lo spartiacque di Jackson Pollock o di Vito Acconci, qualcosa di storto ci deve essere.
Ed è proprio dalle scelte artistiche che vorrei partire. Terragni dipingeva e uno dei suoi quadri, un autoritratto in divisa militare, andò alla seconda mostra del Novecento svoltasi nel 1929, curata da Margherita Sarfatti. È noto che le sue attenzioni non andavano solo per le tele di Sironi e compagni. Ebbe rapporti intensi con il gruppo degli astrattisti comaschi e, per esempio, con Mario Radice, con il quale collaborò per la Casa del Fascio. Inoltre la Sala O della mostra della rivoluzione fascista del 1932, svoltasi a Roma, manifesta attenzione al costruttivismo russo e quindi anche ad altri movimenti di avanguardia che andavano oltre lo stesso astrattismo. Un atteggiamento eclettico ma fino a un certo punto. Il suo cuore era per la forma compiuta così come espressa dalle opere novecentiste. Concreti valori plastici, non evanescenti astrazioni.
L’OSSESSIONE PER IL VOLUME
Se guardiamo le realizzazioni architettoniche, difficilmente l’opera si smaterializza, riesce a liberarsi dal proprio peso, dalla chiusura del volume. Anzi, trasforma questa pesantezza in qualità formale. Per quanto i volumi siano scavati e torturati, a volte con straordinaria abilità ed efferatezza, mai perdono consistenza. Il salto che, per esempio, compie il Neoplasticismo, scomponendo la scatola muraria per piani che scappano lungo le infinite direzioni dello spazio, gli è estraneo. La dialettica sembra essere tra il vuoto e il volume, ma sempre senza perdere la presenza di quest’ultimo. In questo senso, mi sembra che Terragni incarni a un grado massimo la contraddizione principale nella quale si divincola la migliore architettura italiana: tra la realtà e la virtualità della forma. In altre parole: tra la fisica e la metafisica. Mentre l’arte europea, nelle sue manifestazioni più avanzate, l’oggetto lo distruggeva, lo smembrava, lo volatilizzava, Terragni lo esalta. Lo restituisce alla sua dimensione mitica, cioè classica.
Da qui le accuse di formalismo che gli muoveva il sin troppo concreto Giuseppe Pagano e il sospetto di Edoardo Persico che, fedele all’insegnamento di Lionello Venturi, cercava la moralità dell’architettura europea nel calvinismo e nell’Impressionismo. Se l’architettura moderna nasce con Frank Lloyd Wright, come ricorda Persico in una memorabile e mai abbastanza meditata conferenza, siamo in un universo problematico molto distante da quello di Terragni.
Che invece, proprio per questo, rappresenta al meglio l’ossessione degli architetti italiani: la permanenza della storia. E si spiegherebbe così perché da loro è venerato. Perché anche per loro l’assillo è come mettere d’accordo Sironi e Radice, l’astrazione e la figuratività, con la paura di precipitare nell’abisso del grado zero, perché così si aprono impaurenti prospettive in cui il volume, e quindi l’oggetto, diventa totalmente insignificante.
C’è una sola opera, a mio avviso, in cui Terragni compie, avvertitamente (o inavvertitamente?) il gran passo. È l’asilo Sant’Elia. Il suo capolavoro, l’edificio che, esattamente come avveniva nelle migliori prove dei funzionalismi europei e in particolare olandesi, scompariva, per lasciare infinita libertà ai corpi che vi si muovono liberamente, cosa che non succede nelle raffinate ma inequivocabili geometrie della Casa del Fascio o del Danteum. Nell’asilo dominano grandi vetrate e tende: la trasparenza e il vento. E vi è assenza di volumi torturati debitori della rivisitazione manierista della grande tradizione classica.
FASCISMO E TRADIZIONE
Terragni muore a 39 anni. Nonostante si laurei giovanissimo, esercita l’attività professionale per soli quindici. È probabile quindi che i suoi edifici siano capitoli diversi di una ricerca che non trovò una sintesi, ma è importante proprio per la pluralità degli esiti parziali. Credo che forse anche questo sia il segreto della sua immensa fortuna critica. Ognuno può cercare il Terragni che gli è più vicino: della Casa del Fascio o del Danteum, del Novocomum o dell’asilo Sant’Elia, della soluzione A o della soluzione B del Palazzo Littorio. Immaginiamo un solo Terragni ma ne troviamo diversi. Alcuni dei quali possiamo inventarceli di sana pianta con operazioni spericolate come quella tentata da Peter Eisenman, che ha trovato un precursore delle sue coltissime e raffinate masturbazioni intellettuali (e non è certo causale che Eisenman sia ossessionato dal classicismo e il suo anticlassicismo non ne sia che l’immagine speculare, capovolta).
A Terragni tutto si perdona. Compreso il fatto di essere stato fascista. Un crimine che un critico dall’occhio acutissimo come Bruno Zevi non perdonò a personaggi del calibro di Luigi Moretti. “Michelangelo e Borromini si dichiarano sinceri, ferventi cattolici, e Terragni si presenta integralmente fascista; tuttavia, dato che il cattolicesimo e il fascismo in cui credono sono immaginari, e contraddicono quelli concreti, la loro azione risulta eversiva”. Non so quanto sia esatto questo giudizio. Né me la sento di affermare che Giuseppe Terragni, come i suoi colleghi del gruppo 7, furono, come voleva Persico, avanguardia di un europeismo da salotto. Certo è che la azione di Terragni fu meno eversiva di quello che vogliamo credere. In fondo, come testimonia il suo immenso successo anche presso i critici più reazionari e insensibili alla contemporaneità, testimonia un atteggiamento molto più radicato nei fondamenti della tradizione di quello che abbiamo voluto credere. Un po’ come il primo Le Corbusier, che si trovava più a proprio agio con Auguste Perret che con reali spiriti innovatori quali Karel Teige, che, difatti, dopo un primo innamoramento, capirono quanto di classicista ci fosse dietro la rivoluzione della macchina per abitare, i cui principi erano mutuati dalle geometrie del Partenone. La storia dell’architettura moderna, come forse l’avrebbe voluta Persico o lo stesso Teige, deve essere ancora scritta e sono sicuro che sarebbe per molti motivo di delusione e avrebbe pochi appassionati lettori.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi