Architetti d’Italia. Gae Aulenti, la peggiore

Appuntamento numero 39 con la serie dedicata da Luigi Prestinenza Puglisi agli architetti italiani. Questa volta la scure cala su Gae Aulenti, “la peggiore” fra gli architetti italiani.

Se dovessi dire chi, a mio giudizio, sia il peggiore architetto italiano avrei, da parte maschile, dei problemi. In lista ne compaiono diversi: Franco Purini? Vittorio Gregotti? Paolo Portoghesi? E poi c’è Mario Botta che, pur essendo svizzero, considererei a tutti gli effetti un italiano, se non altro per il numero di opere, a mio avviso terribili, realizzate nel nostro Paese.
Per le donne, invece, avrei immediatamente e senza esitazione la risposta: Gaetana, in arte Gae, Aulenti.

UN SUCCESSO INSPIEGABILE

Tuttavia, è proprio questa certezza a costituire per me problema. Gae Aulenti è celebrata come la più importante progettista italiana del dopoguerra. Ha realizzato opere visitate da milioni di persone quali l’allestimento della Gare d’Orsay. Ha ottenuto la Legion d’Onore e la Medaglia d’Oro ai Benemeriti della Cultura Italiana. Tra i suoi clienti c’è stata la famiglia Agnelli. È stata corrispondente dell’Accademia di San Luca e presidente dell’Accademia di Belle Arti di Brera.
Il successo, ovviamente, non è indice attendibile di bravura.
Potremmo osservare che l’affluenza di milioni di persone nella Gare d’Orsay non deriva dalla felicità del suo allestimento. I capolavori di quel museo avrebbero sopportato spazi anche peggiori: comunque ci sarebbero state file chilometriche per ammirare Courbet, van Gogh, Monet, Cézanne. E il fatto che sia stata l’architetto degli Agnelli non la riscatta. Si sa quanta poca attenzione ai valori dell’architettura e dell’estetica contemporanea abbiano avuto le dinastie italiane. D’altra parte, cosa vi sareste aspettati da un committente che metteva l’orologio sul polsino?
Ma, in questo modo, credo, si banalizzerebbe il discorso e non si affronterebbe la questione nodale. E cioè il fatto che è stata apprezzata non solo da ingenui utenti, ma da personaggi influenti in campo critico, i quali hanno avuto un ruolo non secondario nella storia dell’architettura italiana. Gae Aulenti è stata assistente di Giuseppe Samonà allo IUAV di Venezia e di Ernesto Nathan Rogers al Politecnico di Milano. Con quest’ultimo nominato direttore, ha partecipato all’esperienza di Casabella insieme, tra gli altri, a Vittorio Gregotti, Giorgio Grassi e Aldo Rossi. Nota Fulvio Irace in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore: Gae Aulenti “fu tra i primi negli Anni Settanta a sottolineare il carattere fortemente sperimentale del suo approccio all’architettura, dettato da una istintiva ribellione agli armamentari metodologici del razionalismo, obsoleti e oramai palesemente inutilizzabili. Alcuni dei suoi progetti furono pubblicati sulla rivista, ma non apparve mai un suo scritto autografo”.

Gae Aulenti, 1967 – photo Ugo Mulas

Gae Aulenti, 1967 – photo Ugo Mulas

AULENTI D’AVANGUARDIA?

L’equivoco avanguardista è sancito dalla sua partecipazione del 1972 alla mostra Italy: the New Domestic Landscape, organizzata da Emilio Ambasz al MoMA di New York.
Rogers e avanguardia: ecco due parole che dovrebbero farci riflettere. Che Rogers avesse poco a che vedere con la sperimentazione, basta vedere le sue opere, per esempio la Torre Velasca, per capirlo. La celebre polemica sui frigoriferi con Reyner Banham ci racconta, anzi, di un’avanguardia del gambero che, se ha avuto un merito, è stato di aver frenato le ricerche italiane riportandole nell’alveo della tradizione. Basta fare i nomi dei discepoli Vittorio Gregotti e Aldo Rossi per capire quanto poca innovazione abbia generato il magistero di Ernesto Nathan Rogers. Osservate adesso le opere della Aulenti e vi accorgerete che ritornano elementi formali dei progetti di questi due ultimi. L’Istituto Italiano di Cultura di Tokyo potrebbe essere stato disegnato dal primo, magari in un momento di apertura cromatica, e la sistemazione di Piazza Cadorna ci ricorda il secondo.
Tempo fa, non ricordo chi, forse Valerio Paolo Mosco, mi fece dono di una straordinaria osservazione: “Il problema dei discepoli di Rogers è stato di aver trascurato l’esecuzione e la qualità spaziale e formale degli edifici per privilegiare concetti teorici, intellettualistici, demagogici, spesso strampalati”. Credo che non ci possa essere migliore spiegazione per i lavori di Gae Aulenti. È proprio la durezza superficialmente intellettuale, e una non meno rilevante sciatteria esecutiva, che determinano l’orrore che ho per le sue architetture. Un orrore non riscattato dalla poesia metafisica che rende affascinanti alcune architetture di Aldo Rossi o dallo spirito da caserma che rende, se non altro, coerenti le architetture di Vittorio Gregotti.

I PROGETTI PEGGIORI

Ogni volta che mi è capitato di entrare in una opera di Gae Aulenti sono stato preso da una cupa disperazione. Generata da oggetti fuori scala, eseguiti sciattamente, affiancati o contrapposti a melense smancerie. La peggiore che io ricordi fu la sistemazione di Palazzo Grassi a Venezia: un restauro che farebbe ululare Carlo Scarpa, Franco Albini o Guido Canali per la disinvoltura con la quale si alternavano segni compassati con un decorativismo da operetta. Una progettazione che non sa scegliere tra la voce grave e il falsetto. E, del resto, la stessa ha proposto, nel corso della sua vita, oggetti di design asciutti e brutalisti come il tavolo su quattro ruote – forse la sua opera migliore – e lampade vezzosamente kitsch come il Pipistrello, tra le peggiori uscite dalla fantasia sdolcinata degli architetti neo-liberty.
Il restauro della Gare d’Orsay ebbe il merito, in tempi di piccone facile, di salvare la splendida stazione ottocentesca. Tuttavia, raramente è dato trovare un allestimento così: clamorosamente errato anche se si perdonasse il gusto assiro-babilonese rivisitato in chiave postmoderna che caratterizza le escrescenze inventate per moltiplicare gli ambienti espositivi. Sale troppo piccole per ospitare degnamente i quadri, tagli nelle pareti che confliggono con le cornici delle opere stesse, passeggiate senza vista, incapacità di organizzare un percorso credibile e affascinante, tentennamenti cromatici.
La sensazione è che un progettista del genere l’arte non l’abbia mai praticata. Ma soprattutto non abbia mai frequentato la grande tradizione espositiva italiana. Quella che ci ha insegnato che una buona opera di architettura riesce a fare un passo indietro rispetto al capolavoro e, così facendo, genera un rapporto unico e indimenticabile tra l’oggetto esposto e lo spazio che lo contiene.

Omaggio a Gae Aulenti - Pinacoteca Agnelli, Torino 2016 - photo Margherita Borsano

Omaggio a Gae Aulenti – Pinacoteca Agnelli, Torino 2016 – photo Margherita Borsano

IN SPREGIO DEL CONTESTO

Incapace di afferrare le potenzialità del contesto, le opere di Aulenti sono brucianti violenze – e tanto più brucianti in quanto inavvertite – ai luoghi nei quali sono collocate: si tratti di inserirsi all’interno di un più grande contenitore o di una piazza, come le stazioni della metropolitana a Napoli.
Il fatto grave è che, in onore all’equivoco secondo il quale le opere di architettura della scuola di Ernesto Nathan Rogers siano sempre attente alla storia e ai luoghi, vengano spacciate come esemplari di un approccio italiano serio, morigerato, cultore della tradizione.
Un colossale equivoco dal quale è difficile liberarsi. Anche perché, attaccando la Aulenti, sembra che si voglia sminuire il ruolo di una delle poche protagoniste di un mercato che è – e lo dimostrano i numeri- ostile alle donne architetto. Onore alla sua capacità di farsi largo, ma le progettiste che meritano attenzione critica sono altre: da Lina Bo Bardi a Cini Boeri, da Franca Helg a Benedetta Tagliabue, da Maria Giuseppina Grasso Cannizzo a Guendalina Salimei, da Teresa Sapey a Claudia Clemente.
Mentre Gae Aulenti non possiamo che rubricarla come uno dei meno dotati allievi di Rogers. Di un modo di vedere l’architettura che è già esso stesso problema. E che dal punto di vista critico è stato responsabile di un capovolgimento di valori di cui ancora paghiamo le conseguenze. In fondo, se da quasi due anni sto scrivendo questa grande serie Architetti d’Italia, credo che sia anche per cercare – mi rendo conto con mezzi inadeguati per una polemica che ne richiederebbe ben altri – di cambiare un punto di vista che ci fa ancora dire che Gae Aulenti sia stato un grande architetto e che ci fa dimenticare di studiare personaggi giganteschi come Leonardo Ricci o Luigi Pellegrin per altri, immensamente meno dotati, che però hanno frequentato riviste paludate e compagnie più fortunate.

‒ Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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