Pittura lingua viva. Parola a Gabriele Picco

Viva, morta o X? Una nuova rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura "espansa" alla pittura pittura, dalle contaminazioni e dagli slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l'illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.

Artista e scrittore, Gabriele Picco è nato a Brescia nel 1974. Si è laureato in Lettere Moderne all’Università Statale di Milano con indirizzo Storia dell’Arte. Vive tra l’Italia e New York, dove ha tenuto diverse mostre, ha vinto il Premio New York del Ministero degli Affari Esteri ed è entrato nella collezione del MoMA. In Italia ha esposto nelle gallerie Francesca Minini, Le Case d’Arte, Massimo Minini, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, alla GAMeC di Bergamo e in altri spazi e musei italiani e internazionali. Ha pubblicato i romanzi Aureole in cerca di santi (Ponte alle Grazie, 2002) e Cosa ti cade dagli occhi (Mondadori, 2010), tradotto in spagnolo, portoghese e catalano, con il quale ha vinto il Premio Viadana Giovani 2011. La sua mostra più recente è la personale Dovrei smetterla di origliare le falene, presso il Palazzo storico della Crocera di San Luca, nell’ambito della XII edizione della rassegna di mostre d’arte contemporanea Meccaniche della Meraviglia.

Parliamo della tua prima opera, se non sbaglio del 1983. Eri un bambino…
La mia prima opera del 1983, all’età di 9 anni, era un piccolo dipinto astratto, che feci dopo aver visto 2001: Odissea nello spazio. La scena finale mi aveva ispirato, quella in cui l’occhio del protagonista guarda mondi sconosciuti, multicolori.

E poi come hai proseguito? Quando hai capito che saresti stato un artista?
L’ho pensato fin da bambino, poi per un po’ me lo sono dimenticato, fino ai 16 anni, quando ho iniziato a studiare per conto mio la storia dell’arte e a dipingere un po’ più seriamente, con ambizione. A 21 invece ho capito che non avrei potuto fare altro. Me lo ero scritto su un foglio, firmandolo in una specie di rituale.

Ti senti più vicino alla bad painting o a Forattini?
Se devo dirti qualche nome di artista che guardavo quando ho cominciato, più che bad painting ti dico Dubuffet, o gli espressionisti, da Kirchner a Nolde a Paul Klee. O Chagall. Poi ovviamente Picasso. Guardare Forattini invece è stato studiare la storia contemporanea attraverso dei disegni.

Gabriele Picco, Il Buddha aiutato, 2018. Courtesy the artist

Gabriele Picco, Il Buddha aiutato, 2018. Courtesy the artist

Categorizzare il tuo lavoro non è semplice. Passi dalla pittura alla scultura alla installazione alla letteratura. Anche se sono onnipresenti immagini e topoi che rendono unica, coerente e ben riconoscibile la tua poetica: sospesi in una atmosfera onirica e surreale, si ritrovano lacrime, pesci, scarpe, fluidi corporei, banane da slapstick comedy… E soprattutto i tuoi protagonisti: sghembi antieroi, loser ‒ spesso autoritratti ‒ che sembrano per certi versi strappati ai mondi di Palazzeschi o Svevo… O di Buster Keaton. Raccontaci i tuoi immaginari onnivori, come si formano. C’è anche una forte componente di iconografia classica…
Le mie figure sono sghembe, in effetti, mi sono sempre venute così, e io per queste loro deformità le ho trovate sempre interessanti. Succede spesso anche con le persone. La deformità può stare anche nel pensiero ed è lì, nel deforme, che impari qualcosa di nuovo. L’iconografia classica probabilmente viene dai miei studi, dalla mia passione per la storia dell’arte, per le immagini.

Quanto conta la tecnica? Uno dei tuoi primi lavori si chiamava Disegnacci e disegnini, il disegno rappresenta un’altra costante per te.
La tecnica non conta per nessuno, se ci pensi bene. Perché quella è una cosa che si può imparare, qualcuno ci può mettere un anno, altri cinque anni. Oppure la può delegare a una terza persona. Disegnacci e disegnini, la mia prima mostra personale, era un omaggio a Pasolini nel titolo, e anche un omaggio alle centinaia di disegni che facevo quasi compulsivamente su qualsiasi cosa assomigliasse a un foglio di carta. Il disegno rappresenta l’anello di congiunzione tra il mio cervello, le mie idee, e il mondo reale.

Si parlava di scambi fra le discipline. Evidenti, per esempio, nei titoli che scegli per le tue opere, poetici ed evocativi. Al contempo dalle tue opere letterarie scaturiscono spunti e suggestioni per disegni, quadri e sculture. Come avviene questo processo?
Credo sia un po’ tutto un magma che si mescola e poi da un disegno può nascere una scultura che fungerà da catalizzatore per un romanzo. Ogni idea comunque ha il mezzo che potrà esprimerla al meglio, o al peggio.

Gabriele Picco, Trittico degli sgangherati, 2018. Courtesy the artist

Gabriele Picco, Trittico degli sgangherati, 2018. Courtesy the artist

Parlaci del tuo più recente progetto: la mostra a Brescia, tua città natale, che “celebri” con un imponente fachiro. Lo leggo come una metafora: è una figura sospesa tra spiritualità e cialtroneria, pesantezza e leggerezza ‒ categorie care a Palazzeschi che si citava prima. Il trucco è dietro l’angolo perché insito in una componente di crudele ma profumata dolcezza…
Il comune di Brescia mi ha dato a disposizione degli spazi giganteschi e suggestivi, quelli di un palazzo sorto nel 1400 dai soffitti alti più di quindici metri. Appena vista la location, ho pensato a un mio disegno del 1998 e che da sempre sognavo di tramutare in scultura. Così ho realizzato questo fachiro gigante lungo 16 metri, alto quasi 3, disteso su 57mila coni gelato. Mi piace che i chiodi siano sostituiti dai coni, qualcosa che di solito associamo all’infanzia, alla spensieratezza delle estati, alla gioia. Forse ha qualcosa anche di malinconico. Credo che in qualche modo parli anche di dolore e di nostalgia. Nonostante le dimensioni, mi piace guardare Frank il fachiro come fosse una piccola poesia. Credo che riassuma un po’ tutto il mio lavoro. C’è una componente fantastica, ma poi ti ritrovi a fare i conti con qualcosa di enorme davanti a te, reale, così come sono reali le migliaia di coni che profumano tutta la stanza. Mi piace vedere come il pubblico ammutolisca davanti all’opera, oppure spesso si metta a sussurrare, come fosse davanti a una gigantesca e misteriosa reliquia. In occasione della mostra ho chiesto a Tiziano Scarpa di scrivere dei testi per il catalogo e sono nate delle bellissime storie in rima ispirate alle opere esposte.

Il riferimento a Scarpa mi suggerisce un’altra domanda. Che libri leggi, che film/serie televisive guardi, che musica ascolti?
Nasco come amante della letteratura americana da Fitzgerald a Kerouac a Chabon. Da un po’ di anni ho scoperto anche Stephen King che avevo sempre, a torto, snobbato. Tra gli italiani ho amato Calvino, Bianciardi, Soldati, Parise, Busi. Poi mi piace leggere anche gli italiani contemporanei come Scarpa, appunto, e Ammaniti. Se devo nominarti un giovane che non è ancora molto conosciuto ma che secondo me è bravissimo ti dico Marco Montemarano. Non sono un serie tv dipendente, ma mi sono appassionato a Black Mirror e a Stranger Things. Musica… Ultimamente sto ascoltando Akira Kosemura, un giovane compositore e pianista giapponese.

Hai lavorato su alcune icone, da Fontana a Warhol al Guggenheim Museum fino alla nazionale di calcio. Come ti avvicini loro? Attui una sorta di processo di decostruzione di certi miti condivisi.
Lavorare con certe icone è per me come lavorare con gli oggetti quotidiani. Mi avvicino a loro perché fanno parte della vita di tutti i giorni e sono universalmente condivisibili.

Gabriele Picco

Gabriele Picco

Nel tuo lavoro c’è più ironia o malinconia? Quanto conta il dato autobiografico? E il tuo passaggio da Brescia a New York e ritorno?
Ironia e malinconia distribuite più o meno equamente. Il dato autobiografico è spesso la molla che fa scattare qualcosa, ma quello che conta è il risultato. Brescia e New York rappresentano due parti di me stesso. Dopo tanti anni potrei dirti che in qualche modo New York rappresenta le mie radici! Adesso ho preso un nuovo studio a Brescia e sto lavorando intensamente qui.

Sperimenti molto, dalla moka alla polvere alle spugnette per i piatti. Come ti avvicini a materiali “altri” e inaspettati?
Sono un po’ gli oggetti e i materiali ad avvicinarsi a me. A un certo punto li noto e diventano parte del mio percorso. Un po’ come accade con certi personaggi che mentre scrivi ti guidano, senza che tu possa farci niente.

Cosa rappresenta per te il tempo?
Feci un disegno, tanti anni fa, intitolato Ho paura del tempo. Lo collegavo alla morte. Invece ha ragione Sant’Agostino: “Il tempo è collegato all’anima”. Quindi, insomma, potrei dirti che il tempo è vita.

Il tuo “ultimo dipinto”?
Un uomo che spara con un cannone pillole di felicità.

‒ Damiano Gullì

www.gabrielepicco.com

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Damiano Gullì

Damiano Gullì

Damiano Gullì (Fidenza, 1979) vive a Milano. I suoi ambiti di ricerca sono l’arte contemporanea e il design. Da aprile 2022 è curatore per l'Arte contemporanea e il Public Program di Triennale Milano. Dal 2020 è stato Head Curator del…

Scopri di più