Gli artisti e la ceramica. Intervista a Riccardo Previdi

Torna la nostra rubrica dedicata agli artisti che scelgono la ceramica come “materia prima” per le loro opere. Stavolta Riccardo Previdi amplia il raggio di azione, sfruttando le potenzialità della stampa 3D

In occasione della sua mostra presso la galleria Francesca Minini a Milano, intitolata Andrà tutto bene, Riccardo Previdi (Milano, 1974) ci racconta il suo incontro con la ceramica e l’importanza del lavorare in gruppo in un passaggio costante dalla macchina alla mano, e ritorno.

Come mai è arrivata la ceramica e perché l’hai sentita necessaria per la tua mostra Andrà tutto bene?
Sono arrivato alla ceramica per gradi, in modo non proprio convenzionale – ammesso che abbia senso parlare di convenzioni in questi casi. Ci sono arrivato tramite la stampa digitale. Nella mia ricerca mi sono da sempre interessato ai processi di riproduzione meccanica della forma, lavorare con la stampa 3D ha rappresentato così un inevitabile passaggio. Nonostante sarebbe stato più semplice, ho deciso di non stampare in filamento plastico, ottenendo poi le ceramiche con un calco tradizionale, ma ho preferito procedere con una stampa 3D direttamente in terra, lavorando così sul paradosso di una stampa digitale che produce pezzi unici. A Faenza sono arrivato dopo aver lavorato con la WASP di Massa Lombarda grazie a una collaborazione resa possibile dalla Giovanardi Spa, società che ha prodotto la famiglia di gatti della fortuna NOI esposta per la prima volta nel 2019 nella mostra 10 x 100 curata da Martina Cavallarin e Marco Tagliafierro. I gatti che sono esposti nella seconda sala della mostra Andrà tutto bene sono il primo lavoro che ho realizzato grazie a una stampante 3D di grande formato. Per quanto la mostra sia assolutamente organica, era per me importante creare una separazione tra i due spazi, questo anche per mettere in luce come il lavoro sui gatti abbia poi aperto alle sperimentazioni in ceramica che popolano invece la prima stanza.

Hai quindi un progetto in cantiere?
Sì, mi è stata assegnata una menzione d’onore al Premio Termoli e quindi presto stamperò la pensilina della fermata dell’autobus del museo MACTE con una macchina per la stampa 3D per l’edilizia della WASP. Un grande progetto interamente stampato in terra e lolla di riso, in cui l’architettura e lo spazio pubblico interagiscono con questa scultura funzionale che ho chiamato T®abucco. Sono molto interessato a questo sviluppo su scala architettonica, specie dopo aver compreso, grazie alla realizzazione degli oggetti in mostra, le potenzialità ancora inesplorate della stampa 3D in terra.

Riccardo Previdi, Vaso (urna), 2021, ceramic, 37×29×27 cm. Courtesy the artist and Francesca Minini. Photo Andrea Rossetti

Riccardo Previdi, Vaso (urna), 2021, ceramic, 37×29×27 cm. Courtesy the artist and Francesca Minini. Photo Andrea Rossetti

LA CERAMICA SECONDO RICCARDO PREVIDI

Tornando alle sculture che hai appena presentato: come è nata in questo caso la decisione di lavorare in una dimensione più artigianale?
Malgrado fino a ora abbia parlato di stampanti, la verità è che gran parte del lavoro è eseguito artigianalmente. Ho lavorato con Alessandro Dell’Ara di Modelleria Digitale e con Marco Malavolti e Lorella Morgantini di Manifatture Sottosasso, entrambi conosciuti durante una residenza fatta presso Ospedaletto57 di Cristina Casadei dello studio senzatitolo, studio che tra l’altro mi ha aiutato a gestire la complessità della parte finale della produzione delle ceramiche. Dalla stampa 3D all’opera finale c’è stato molto lavoro e soprattutto tanta ceramica anche nella dimensione più tradizionale. Questo perché la stampa 3D è una tecnologia ancora agli albori, che ha bisogno di continue correzioni e adattamenti. Per cui, il procedere artigianale, con prove e aggiustamenti, è fondamentale.

Forse, essendo in una fase iniziale, questa tecnologia lascia ancora spazio all’errore e mi sembra di capire che questo per te sia stato fondamentale.
Integrare l’errore e il caso mi è sempre interessato. I gatti, stampati in un polimero plastico ottenuto dal mais, li ho modellati a mano, recuperando una gestualità che non attivavo dai tempi del liceo. I primi tentativi che ho fatto li definirei “ignoranti”, in quanto privi di quella conoscenza che si ottiene praticando con costanza e regolarità una particolare disciplina, ma è stata proprio questa loro qualità a interessarmi. I modelli di partenza non misuravano più di 5 centimetri, questo perché volevo che fossero le dita a determinare la forma. Una modellazione digitale, in quanto ottenuta con le dita, che si trasforma in una scansione digitale, cioè numerica, e successivamente in una stampa tridimensionale in cui i soggetti vengono sostanzialmente ingranditi arrivando fino ai 90 centimetri di altezza di quello più grande.
Il cambio di scala è stato importante per impoverire ulteriormente la definizione e per inserire un ulteriore fattore di complessità all’interno del processo.

Dal digitale al digitale e ritorno. Anche le “zucche” presenti nella prima sala sono state prodotte con lo stesso criterio?
Per le zucche ho lavorato in 3D sculpting, cioè con una modellazione digitale più vicina alla modellazione tradizionale, molto diversa da quella meccanica che si ottiene con un programma CAD. Il processo si è più o meno svolto così: sono andato al mercato ortofrutticolo di Milano per acquistare diverse zucche, le ho scansione tutte e ne ho poi selezionate nove, che è il numero di quelle in mostra. Con ogni scansione ho generato le forme che danno poi vita all’oggetto-vaso e quindi ogni vaso nasce dalla moltiplicazione di una zucca in tre/quattro passaggi a cui è seguita una “manipolazione” dei file in formato digitale. Le zucche, con tutte le loro imprecisioni naturali, presentano per la macchina una serie di complessità difficili da superare. Per questo motivo è stato chiaro da subito che non sarebbe stato possibile stampare l’oggetto nella sua interezza. Si è quindi scelto di procedere per “fette”: ogni zucca è stata stampata in sei parti, ciascuna delle quali è stata poi sovrapposta manualmente.

Riccardo Previdi, NOI, 2019, 3 mechanical maneki neko, 3D printed pellet, electromechanical movement steel, aluminium, paint, 70x53x40 cm, 90x65x45 cm and 86x60x41 cm. Courtesy the artist and Francesca Minini. Photo Andrea Rossetti

Riccardo Previdi, NOI, 2019, 3 mechanical maneki neko, 3D printed pellet, electromechanical movement steel, aluminium, paint, 70x53x40 cm, 90x65x45 cm and 86x60x41 cm. Courtesy the artist and Francesca Minini. Photo Andrea Rossetti

LA CERAMICA DI PREVIDI E IL DIGITALE

Tutto quello che hai descritto ruota attorno all’idea di un “digitale”, sia esso impronta digitale, manipolazione materica o elettronica. Mi sembra che tu sia riuscito a sublimare uno degli aspetti fondamentali della ceramica che ha una dimensione tattile piuttosto irresistibile. Altro elemento fondamentale del materiale è il suo utilizzo nella quotidianità, che ha profondamente influenzato le ricerche di diversi artisti invitati in questa rubrica. Come hai deciso di sviluppare il rapporto tra oggetto e opera in questa produzione?
Nel mio lavoro c’è spesso il gioco tra funzione e opera, qualcosa che certamente è legato alla mia formazione dato che, oltre all’Accademia, ho studiato anche architettura. Mi è sempre piaciuto che queste due discipline si incontrassero, per quanto io lavori prevalentemente nella dimensione artistica, c’è sempre l’oggetto che torna (qui urne, nella precedente mostra erano tavoli). Un tempo attribuivo questa cosa alla volontà di riportare più a terra, al quotidiano, l’idea dell’elevazione dell’arte. Adesso questo problema lo sento meno, mi sembra anzi che l’arte abbia assolutamente bisogno di recuperare i suoi spazi, quindi il mio non è certo un tentativo di tirarla giù dal piedistallo (tanto è vero che le opere in mostra sono tutte su piedistalli, qualcosa che non avrei mai fatto un tempo). Certo è che lavorare con la ceramica significa anche avere coscienza di cosa è la ceramica sia. La terracotta è stata usata dalle più antiche civiltà per contenere i liquidi o le ceneri. C’è, intrinseca al materiale stesso, un’idea di vita e di morte, sicuramente due entità che si incontrano. Per questo le urne, all’interno ho messo anche dei fiori, per suggerire che sono comunque contenitori. Il tema della morte era per me centrale anche se difficile da affrontare. Siamo stati circondati da immagini continue di morte e forse non siamo ancora pronti a elaborarle. Quindi la mia non è da intendersi esclusivamente come una riflessione “post pandemica”, allo stesso tempo però non potevo non tenere conto del rapporto con la morte di questi ultimi due anni.

Anche il titolo della mostra è chiaramente un riferimento al momento più acuto della pandemia.
Sì, la frase campeggiava allora su arcobaleni. L’abbiamo vista disegnata poi in tantissime scuole e asili. Qui la frase è stata scritta a mano da mia nonna Angela, che quest’anno ha compiuto cento anni. Mi piaceva l’idea di mettere al centro la scrittura di una persona che sta perdendo le sue abilità, è una scrittura che va spegnendosi eppure, malgrado ciò, ancora viva e vibrante. Pensavo che sarebbe stato interessante ribaltare il messaggio affidandolo a un anziano, qualcuno che riesca a mettere a fuoco quello che sta succedendo attorno a noi da un’altra prospettiva. E poi c’è il discorso che noi esseri umani stiamo via via perdendo la manualità, mentre le macchine, paradossalmente, la stanno via via acquisendo. Un altro prelievo dal paesaggio dei giorni del lockdown è l’urna San Sebastiano, con gli inserti tricolore (un simbolo muto per moltissimo tempo e che ancora abita il nostro panorama, come nel caso del grattacielo Pirelli ad esempio). Questa mostra era per me un modo per riflettere sulla presenza costante della morte in questi due anni, per esorcizzarla e per intenderla anche in un modo più edificante. Anche per questo ho fatto diverse ricerche sulla celebrazione della morte in una chiave più vitale: ho guardato riti vudù, le feste messicane dei morti, le antiche urne cinesi. La disposizione delle urne in mostra l’ho intesa come una marcia, ma non severa e triste come certe marce funebri a cui siamo abituati in Europa, piuttosto una marcia allegra e colorata come quelle degli afroamericani a New Orleans a ritmo di dixieland. When the Saints Go Marching In

Anche i colori hanno una loro importanza fondamentale nella costruzione di questo “corteo funebre”, giusto?
Sì, certo, li ho estratti da un disegno floreale eseguito a pastelli a olio di Odilon Redon. Un disegno molto colorato ed elegante al tempo stesso. Ho sempre amato il Simbolismo e la pittura postimpressionista. Ad affascinarmi sono le soluzioni formali a cavallo tra astrazione e figura, da una parte una modernità sempre più presente e allo stesso tempo una forte spiritualità e un dialogo aperto con l’antico. Mi è sempre interessato il modo in cui gli europei hanno cominciato a guardare all’Oriente dalla metà dell’Ottocento in poi. È quel momento in cui, superata la fascinazione per gli esotismi e le cineserie, si comincia per davvero a riconsiderare le cose da altri punti di vista, a contaminare la cultura europea con ciò che viene da fuori.

Nessuna celebrazione del passaggio morte-vita, ma mi pare che non ci sia nemmeno una celebrazione diretta della manualità, della tradizione artigianale, della mano. Piuttosto, anche in questo caso, mi sembra che tu abbia lavorato sul passaggio, sulla soglia tra uomo e macchina.
Credo di avere capito che per me tutto si muova sul confine: il senso che davo dieci anni fa conferendo una funzione pratica ai miei lavori era quello di tirarli fuori da un contesto “alto” per riportarli in mezzo alla gente, alla vita di tutti i giorni. Adesso qualcosa è certamente cambiato, direi che il problema non è più quello di tirare l’arte fuori dalle istituzioni, piuttosto è il contrario. Sono riflessioni come questa che mi hanno portato a riconsiderare un materiale tradizionale come la ceramica e il conseguente lavoro artigianale. Credo che un ritorno al fare sia necessario, solo che il fare non deve, secondo me, passare soltanto attraverso la mano dell’artista: se ci pensi l’Italia ha sempre avuto questa commistione fra tradizione artigianale e sperimentazione industriale, una testimonianza a questo riguardo è sicuramente il design italiano del secondo dopoguerra. Fino a quindici anni fa si poteva pensare di “cavarsela da soli”, ora più che mai penso che l’incontro e il dialogo siano fondamentali.

Irene Biolchini

http://www.riccardoprevidi.com/

LE PUNTATE PRECEDENTI

Gli artisti e la ceramica #1 ‒ Salvatore Arancio
Gli artisti e la ceramica #2 ‒ Alessandro Pessoli
Gli artisti e la ceramica #3 ‒ Francesco Simeti
Gli artisti e la ceramica #4 ‒ Ornaghi e Prestinari
Gli artisti e la ceramica #5 ‒ Marcella Vanzo
Gli artisti e la ceramica #6 – Lorenza Boisi
Gli artisti e la ceramica #7 – Gianluca Brando
Gli artisti e la ceramica #8 – Alessandro Roma
Gli artisti e la ceramica #9 – Vincenzo Cabiati
Gli artisti e la ceramica #10 – Claudia Losi
Gli artisti e la ceramica #11 – Loredana Longo
Gli artisti e la ceramica #12 – Emiliano Maggi
Gli artisti e la ceramica #13 – Benedetto Pietromarchi
Gli artisti e la ceramica #14 – Francesca Ferreri
Gli artisti e la ceramica #15 – Concetta Modica
Gli artisti e la ceramica #16 – Paolo Gonzato
Gli artisti e la ceramica #17 – Nero/Alessandro Neretti
Gli artisti e la ceramica #18 – Bertozzi & Casoni
Gli artisti e la ceramica #19 – Alberto Gianfreda
Gli artisti e la ceramica # 20 – Sissi
Gli artisti e la ceramica #21 – Chiara Camoni
Gli artisti e la ceramica #22 – Andrea Anastasio
Gli artisti e la ceramica #23 – Michele Ciacciofera
Gli artisti e la ceramica #24 – Matteo Nasini
Gli artisti e la ceramica #25 – Luisa Gardini
Gli artisti e la ceramica #26 – Silvia Celeste Calcagno
Gli artisti e la ceramica #27 – Michelangelo Consani
Gli artisti e la ceramica #28 – Andrea Salvatori
Gli artisti e la ceramica #29 – Serena Fineschi
Gli artisti e la ceramica #30 – Antonio Violetta
Gli artisti e la ceramica #31 – Ugo La Pietra
Gli artisti e la ceramica #32 – Tommaso Corvi-Mora
Gli artisti e la ceramica #33 – Paolo Polloniato
Gli artisti e la ceramica #34 – Amedeo Martegani
Gli artisti e la ceramica #35 – Emanuele Becheri
Gli artisti e la ceramica #36 – Gianni Asdrubali
Gli artisti e la ceramica #37 – Arcangelo
Gli artisti e la ceramica #38 – Francesco Carone
Gli artisti e la ceramica #39 – Federico Branchetti
Gli artisti e la ceramica #40 – Aurora Avvantaggiato
Gli artisti e la ceramica #41 – Marco Ceroni
Gli artisti e la ceramica #42 – Enzo Cucchi
Gli artisti e la ceramica #43 – Liliana Moro
Gli artisti e la ceramica #44 – Luca Pancrazzi
Gli artisti e la ceramica #45 – Alberto Scodro
Gli artisti e la ceramica #46 – Cleo Fariselli
Gli artisti e la ceramica #47 –Ludovica Gioscia
Gli artisti e la ceramica #48 – Christian Holstad
Gli artisti e la ceramica #49 – Brian Rochefort
Gli artisti e la ceramica #50 – Tony Marsh
Gli artisti e la ceramica #51. Intervista a Sam Bakewell
Gli artisti e la ceramica #52. Intervista a Diego Cibelli
Gli artisti e la ceramica #53. Intervista ad Angela Maria Piga
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Irene Biolchini

Irene Biolchini

Irene Biolchini (1984) insegna Arte Contemporanea al Department of Digital Arts, University of Malta, ed è Guest Curator per il Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, per il quale dal 2012 cura mostre site specific. È curatrice della collezione d’arte…

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