Dalla pittura alla ceramica. Intervista a Gianni Asdrubali

Tutto pronto per la mostra dedicata da Palazzo Callicola a Spoleto a Gianni Asdrubali, pittore con la passione per la ceramica.

Gianni Asdrubali (Tuscania, 1955), dal 27 giugno sarà protagonista di Surfing with the alien (a cura di Marco Tonelli e Bruno Corà) a Palazzo Callicola a Spoleto, la retrospettiva dedicata ai suoi cicli di dipinti. Pittore da sempre interessato allo spazio e al vuoto, incontra la ceramica oltre dieci anni fa. Gli abbiamo fatto alcune domande per capire meglio quale è secondo lui il ruolo dell’artista e come si fa ceramica senza farla.

Tempo fa hai dichiarato “un conto è collaborare, un conto è mischiare i ruoli”. Come preservi questa distinzione nell’incontro con l’artigiano?
L’artigiano è lo strumento, ma rimane artigiano con la sua specificità e io rimango artista. Tutto il lavoro dell’artista è annullare lo strumento, annullare la materia. Tutti gli artisti che hanno usato la ceramica, penso a Leoncillo o a Fontana, non erano interessati alla ceramica, ma all’opera. Ho visto un video sullo scultore Giacinto Cerone, formidabile, che prendeva a manganellate la creta prima di cuocerla: non si tratta qui di fare una ceramica, ma di usare il potenziale linguistico della ceramica per fare la scultura, l’opera. Quello del ceramista è un altro lavoro.

Ci fai qualche esempio?
A Montelupo ho realizzato un opera di grandi dimensioni, c’erano degli artigiani che mi hanno aiutato, e sono stati bravissimi, però sono dovuti entrare dentro alla mia testa, capire cosa volevo fare. Per loro era qualcosa di nuovo perché non avevano mai fatto una cosa come quella che ho fatto io lì. La collaborazione porta tutto su un altro livello, ognuno fa la sua parte. Ciascuna parte definisce il suo ruolo rispetto all’opera. È l’opera che unisce tutto, che tiene assieme l’incontro. Quindi si può dire che ogni specifico apre ad altro da sé non quando si vuole aprioristicamente comunicare, mischiare, con altri specifici, ma quando, proprio per la sua “chiusura”, paradossalmente, interagisce con la diversità dell’altro. È cioè nella sostanzialità e intensità del suo essere specifico che involontariamente apre ad altri contesti. L’opera d’arte è sempre sola e indipendente. È proprio in questa sua tensione interna ‒ che non lascia fuoriuscire energia gratuitamente ‒ che l’opera emana altro da sé: apre sul mondo e ritorna a sé, e in questa dinamica intensiva ci fa sentire ciò che non può essere detto… La comunicazione invece è la sua rovina.

Come hai lavorato quindi rispetto a questo specifico, a un territorio con una sua tradizione?
Discorsi sulla tradizione, il territorio, la globalizzazione sono fuorvianti. Ci sono artisti che dicono: “Io indago sul territorio”, altri affermano: “Io sulla globalizzazione”. Non è questo il problema, non è la partenza giusta. Se uno lavora solo sul territorio non basta. Se un altro lavora solo sulla globalizzazione fa degli errori ancora più grandi. Non è il territorio, non è il contesto, non è la tradizione del territorio che origina l’opera. Un artista deve fare la cosa giusta, se la cosa ha un suo equilibrio interno allora, involontariamente, apre. Anzi l’opera è indipendente proprio perché è autonomamente giusta: allora apre, interagisce con il territorio, lo attiva, lo rende poetico, ma non esiste un problema del territorio a priori (il territorio, la natura sono perfetti in sé, non hanno bisogno di nulla, solo di non essere devastati). È sempre stato così, anche nell’arte antica. All’architetto del tempio greco non interessava niente del territorio. L’opera creata era perfetta, era giusta e proprio perché era giusta era in sintonia con il territorio. Lo stesso a Castel del Monte: quel castello lì è geniale e quindi mette d’accordo tutto lo spazio. Insomma l’arte, che è emanazione, ha un altro compito e ‒ a differenza di quello che accade oggi ‒ non ha nulla a che fare con la comunicazione.

Gianni Asdrubali, Sveka, 2013, ceramica, (presso bottega Gatti), Spazio Luigi Ghirlandi, Faenza

Gianni Asdrubali, Sveka, 2013, ceramica, (presso bottega Gatti), Spazio Luigi Ghirlandi, Faenza

Nella tua ricerca con la ceramica è proprio la ceramica a non essere centrale. Non sembri interessato minimamente alle potenzialità plastiche della materia, ma piuttosto affascinato dal colore. È corretto?
Più che dal colore, dal contrasto luminoso del timbro, dal più chiaro al più scuro, che si forma casualmente nell’urto a togliere tra la superficie smaltata e un insieme di pennelli rudimentali legati tra loro e imbevuti di colore. Questo contrasto luminoso con la ceramica mi ha veramente coinvolto. In questo scontro tra l’azione e la superficie si realizza uno scarto: l’immagine, che si origina non sulla superficie ma dalla superficie. È la superficie stessa che non è più una superficie. È questa la differenza fondamentale tra uno spazio come contenitore e uno spazio non euclideo, ma curvilineo, quantico, dove tutto è interazione. Perché questo accada la materialità della superficie deve essere annullata. Il pittore è colui che annulla la superficie, sia che si tratti di una tela, di una parete, di una plastica o come in questo caso di una ceramica. La superficie non è più un campo dove avviene una storia: non esiste più né campo né storia, solo la nascita di quell’immagine ambigua (ma efficace) che si dà e si nega nell’istante stesso del suo apparire. Il pittore, oltre che artista (oggi sono tutti artisti), è strumento che annulla se stesso, la pittura e la superficie. L’arte è sempre annullamento della propria veste in una nuova (e in un nuovo uso di questa). Infatti al pittore non interessa la pittura. Quello che conta è la motivazione che sta dietro al lavoro. Io uso la pittura perché mi è più congeniale, altrimenti avrei usato il violino. Quello che interessa a un pittore (o a un musicista o a uno scrittore ecc.) è annullare il proprio strumento e farlo volare. Per questo un pittore che parla di pittura è sempre un pittore scadente.

Quando hai iniziato a lavorare con la ceramica?
L’incontro con la ceramica è avvenuto per caso, grazie a una commissione da parte di un collezionista mio amico, Luigi Ghirlandi, che mi ha messo in contatto con la bottega Gatti di Faenza, dove ho conosciuto Davide Servadei che è stato bravissimo a intuire che avrei dovuto lavorare sulla ceramica cotta e non con la materia cruda. E così è stato: quel contrasto luminoso del timbro di cui parlavo prima, dal massimo di scuro al massimo di chiaro (cioè al bianco stesso della superficie smaltata), mi ha permesso un risultato ancora più efficace. Ho provato a lavorare sulla ceramica già cotta, seguendo questa sua intuizione, e ho visto che questo mio gesto, che è un’azione che si dà per togliere, funzionava molto bene. Con la ceramica l’urto dello strumento contro lo smalto della superficie scivola e toglie materia in un modo incredibile. La mia mente e il gesto si unificano ancora di più che su un muro, o su una tela. Il problema per me è come annullare la ceramica, non farla, o meglio come fare la ceramica togliendola: perché deve venire fuori l’immagine ancora più forte. Non è un mettere. Il mio lavoro ha una complessità: l’azione deve fare lo spazio, il tempo, il colore. Con una semplicità (complessa) di un gesto, che si dà mentre si nega, si deve trasformare quella superficie inerte in un corpo attivo. Il problema non è l’azione, che è anch’essa strumentale alla tensione del vuoto che la origina, ma lo spazio frontale: questo spazio bianco che deve diventare corpo. Con Servadei siamo riusciti a far emergere alcuni aspetti che erano dentro la mia ricerca.

E come hai trasportato questa conoscenza a Montelupo quando sei stato invitato da Marco Tonelli a prendere parte a Materia Prima?
A Montelupo ho portato avanti questi esperimenti: ho realizzato un lavoro di 12 metri su delle piastrelle già cotte e unite insieme a terra. Per l’occasione ho costruito un bastone che era come un prolungamento del braccio, una sorta di arma con cui sono intervenuto direttamente sulle piastrelle. Il lavoro è poi stato cotto una seconda volta ed è stato installato orizzontalmente lungo l’argine del fiume Pesa. Anche in quell’occasione mi hanno chiesto: “Come ti poni davanti al paesaggio?”. Io non mi pongo proprio! Se l’opera ha un senso, se è giusta, avrà una sua energia interna che inevitabilmente e involontariamente attiverà positivamente quel muro, quel paesaggio e tutto il paese, la gente che passa di lì si sentirà più poetica. Poi, sempre con Marco Tonelli, abbiamo pensato di anticipare la mia futura mostra a Palazzo Collicola a Spoleto attraverso una nuova modalità nella fruizione dell’arte: abbiamo proposto un nuovo uso dell’opera d’arte che si presta a “collaborare” con altri contesti senza mischiarsi, ma aprendo verso altre possibilità. Il gruppo di ricerca Oramide, formato da Alessio Spirli e Cecilia Tommasini, ha costruito attraverso un’applicazione digitale l’opera interattiva Zumber. Il pubblico può interagire animando un insieme di più opere (tutte mie) e anche modificando l’ordine in assemblaggi diversi: il risultato è sempre finito e in equilibrio. Cambia l’immagine, che mantiene sempre la stessa intensità, ma le opere sono sempre le stesse.

Particolare dell'opera in ceramica di Gianni Asdrubali sull'argine del fiume Pesa, Montelupo, 2015, 12x3 m

Particolare dell’opera in ceramica di Gianni Asdrubali sull’argine del fiume Pesa, Montelupo, 2015, 12×3 m

Hai lavorato spesso su mattonelle e in altre occasioni hai sottolineato l’importanza dell’elemento quotidiano. Come si inseriscono questi oggetti-mattonella-quotidiani nella tua ricerca?
Tante volte ho usato materiali che poi ho abbandonato. Mi piace sperimentare materiali diversi e trasformarli attraverso un nuovo uso, adesso ad esempio sto usando il plexiglas. Tu artista lo sai, devi avere coscienza e sapere se è giusto oppure no. La sfida vera è uscire dall’uso corrente dei materiali, degli oggetti, per creare un nuovo uso degli stessi. È un po’ come un bambino che per gioco prende un telefono e lo usa come una pistola.

Come si scopre se il materiale è giusto?
Ci vai dentro a partire dall’idea primaria che muove e che è alla base del tuo lavoro. Quello che conta è che la tecnica non sia fine a se stessa, ma in funzione del risultato ultimo. Allora, un po’ per caso e un po’ per intuito, ti appropri di quel materiale e di un suo nuovo uso, qualcosa che renda più chiara ed efficace la “la lucentezza”: il risultato ultimo e imprevedibile dell’opera. Per questo, ad esempio, Burri usa i sacchi; non è che in pittura esiste la tecnica dei sacchi, ma lo diventa perché quel materiale si annulla trasformandosi in un’altra significazione. Così è per Castellani con i chiodi ecc. ecc. Si possono fare un’infinità di esempi. Ogni materiale ha un linguaggio suo proprio, se quel linguaggio rende più efficace l’immagine del tuo lavoro allora lo usi, diventa parte del tuo lavoro. Questo vale sia per un materiale extra pittorico, come i chiodi di Castellani, sia per un materiale tradizionale, come un pennello: bisogna vedere che uso se ne fa. Per esempio: io uso dei pennelli rudimentali, che costruisco io stesso, legati insieme. Sembrano più un martello o uno scalpello, oggetti che servono più a togliere pittura che a dipingere.

Potremmo quindi dire, usando il tuo linguaggio: “È un contrasto di energie che interagiscono e muovono un’immagine che non sta mai ferma?
Sì, l’immagine non sta mai ferma pur essendo fermissima nella sua solitudine e indipendenza. È in fibrillazione continua e non sta mai ferma proprio perché lo stesso orizzonte degli eventi è in continuo movimento. È un andare e tornare dove non sai dove sei. Sei un centro decentrato. È il fuori del centro che è centrale: è quella soglia, quel limite senza bordo che chiude e apre l’immagine nello stesso istante. Non c’è una regola geometrica, né un progetto dato a priori, ma un divenire della fatticità stessa, che ‒ a partire da una assenza ‒ origina questa nascita di un corpo che “è” e “non è”, allo stesso tempo. Un corpo di pura interazione dove non esiste più né spazio né tempo. Come avviene a livello microcosmico (dove spazio e tempo non esistono più), non c’è vuoto, è tutto pieno, pura interazione. E lì, quel pieno, in arte, si risolve attraverso una fusione che non ammette composizione. Fusione e unificazione di forze opposte, di direzioni, di dinamiche interattive che si cercano, si oppongono, si dividono e si riunificano ogni volta in una nuova e differente immagine. Un’immagine che ha in sé l’assenza di sé.

‒ Irene Biolchini

www.gianniasdrubali.com

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Gli artisti e la ceramica #2 ‒ Alessandro Pessoli
Gli artisti e la ceramica #3 ‒ Francesco Simeti
Gli artisti e la ceramica #4 ‒ Ornaghi e Prestinari
Gli artisti e la ceramica #5 ‒ Marcella Vanzo
Gli artisti e la ceramica #6 – Lorenza Boisi
Gli artisti e la ceramica #7 – Gianluca Brando
Gli artisti e la ceramica #8 – Alessandro Roma
Gli artisti e la ceramica #9 – Vincenzo Cabiati
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Gli artisti e la ceramica #17 – Nero/Alessandro Neretti
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Gli artisti e la ceramica #19 – Alberto Gianfreda
Gli artisti e la ceramica # 20 – Sissi
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Gli artisti e la ceramica #23 – Michele Ciacciofera
Gli artisti e la ceramica #24 – Matteo Nasini
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Gli artisti e la ceramica #28 – Andrea Salvatori
Gli artisti e la ceramica #29 – Serena Fineschi
Gli artisti e la ceramica #30 – Antonio Violetta
Gli artisti e la ceramica #31 – Ugo La Pietra
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Gli artisti e la ceramica #34 – Amedeo Martegani
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Irene Biolchini

Irene Biolchini

Irene Biolchini (1984) insegna Arte Contemporanea al Department of Digital Arts, University of Malta, ed è Guest Curator per il Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, per il quale dal 2012 cura mostre site specific. È curatrice della collezione d’arte…

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