Architetti d’Italia. Franco Zagari, il raffinato

Il nuovo appuntamento con i protagonisti dell’architettura italiana punta i riflettori su Franco Zagari. Un artista della disciplina progettuale, determinato, fin dagli esordi, a porre il paesaggio al centro della sua ricerca. Restituendogli una dimensione democratica.

Questa puntata è dedicata a un artista raffinato: Franco Zagari. Un infallibile sensore che riesce a captare e restituire, come pochi altri, la direzione del movimento dell’energia, anche quando è sotto traccia e gli altri non la riescono a individuare.
A Zagari mi lega una storia.
Era la metà degli Anni Novanta e stava avvenendo per alcuni una rivoluzione, per altri una rivolta. Si tentava di sprovincializzare la ricerca architettonica attingendo da quanto di più interessante avveniva in altri Paesi europei. Erano i tempi del decostruttivismo, di Rem Koolhaas, di Jean Nouvel, di Frank O. Gehry, di Zaha Hadid, dei fermenti radicali, del recycled Peter Eisenman che abbandonava il suo snervato concettualismo per affrontare una stagione di sperimentazioni con i computer e le geometrie non euclidee. In Italia, dove dominavano l’angolo retto e la citazione colta e paludata, il fenomeno era stato prima ignorato, poi deriso e infine combattuto dall’accademia.  Ma non sottovalutato da Bruno Zevi, il quale aveva capito che attraverso le punte taglienti dei decostruttivisti avrebbe potuto fare piazza pulita dei moderati, tradizionalisti e reazionari che zavorravano la ricerca architettonica. Molti, e in particolare Hans Ibelings, hanno notato la paradossalità di questa operazione: in fondo, il decostruttivismo, per tanti aspetti, non era che una degenerazione del postmodernismo che si voleva combattere. Ma, da critico geniale, Zevi aveva capito che questi personaggi, insieme a tanta fuffa linguistica, stavano introducendo nel discorso architettonico una ricerca sullo spazio e un grado zero della scrittura (nel senso di una distruzione dei fondamenti sui quali si basava il vecchio linguaggio) che avrebbe portato a una rinnovata libertà. Proprio in quegli anni Franco Zagari era il presidente della sezione laziale dell’InArch, carica che ha mantenuto dal 1996 al 2004, e andava formandosi una nuova generazione di critici che partivano dalla Capitale. Tra questi Massimo Locci, Livio Sacchi, Antonino Saggio, Maurizio Unali e, sebbene lavorasse a Trieste, Maurizio Bradaschia. E, poi, il sottoscritto, che – dopo essersi interessato di barriere architettoniche, case per anziani e argomenti tecnici – aveva deciso di occuparsi di critica di architettura.

Massimiliano Fuksas, Centre d'accueil delle Grotte preistoriche, Niaux 1994. Consulenza di Franco Zagari

Massimiliano Fuksas, Centre d’accueil delle Grotte preistoriche, Niaux 1994. Consulenza di Franco Zagari

AMPLIARE GLI ORIZZONTI

Zagari capì subito che avrebbe dovuto darci spazio e, infatti, aprì le porte dell’InArch Lazio a tutte le iniziative che gli proponevamo. Ne ricordo alcune che ai nostri occhi ci sembrarono storiche, come la presentazione dell’allora recentemente inaugurato Museo Guggenheim di Bilbao durante la quale il professor Franco Purini, l’autore della Casa del Farmacista di Gibellina, sostenne che non si trattava di architettura, tacitato da un irriverente, irrispettoso e impietoso coretto di “scemo, scemo”. Ricordo anche le mie prime conferenze per i Lunedì dell’Architettura di cui, io che butto tutto, conservo ancora le locandine. E ricordo, infine, gli incontri con Massimiliano Fuksas che lavorava prevalentemente in Francia e il cui riconoscimento in Italia sarebbe venuto più tardi con la direzione della Biennale di Venezia del 2000.
Insomma, se a Roma si parlava di architettura contemporanea era, in buona parte, merito di Franco Zagari, che attraverso l’InArch Lazio la sosteneva e la promuoveva, non certo delle università dove Koolhaas era ancora considerato un cinico guastatore e la Hadid una bislacca urlatrice.
Docente universitario a Reggio Calabria, un’operazione di svecchiamento culturale non minore di quella romana Zagari la ha condotta in una delle più importanti università del meridione. Sarà una semplificazione, ma possiamo dire che a Reggio si fronteggiavano due scuole, una che guardava all’Europa, da lui capitanata, e una accademica e postTendenza, diretta con pugno di ferro e disciplina militare da Laura Thermes, compagna di lavoro e di vita di Franco Purini.
Anche oggi, quando vado a Reggio, dove tante cose nel frattempo sono cambiate, i miei interlocutori si ricordano dell’oasi di sperimentazione e di libertà che Zagari aveva saputo creare attraverso il grimaldello del paesaggio, la materia che lo ha segnato (anche se credo abbia insegnato pure discipline compositive) e che ha caratterizzato gran parte della propria produzione professionale.

Renzo Piano, Auditorium Parco della Musica, Roma 1994 2000. Consulenza di Franco Zagari

Renzo Piano, Auditorium Parco della Musica, Roma 1994 2000. Consulenza di Franco Zagari

UN MAESTRO DEL PAESAGGIO

Il paesaggio: Zagari è un maestro di paesaggio. Una materia prima giudicata di serie B e che, invece, è riuscito, quando ancora non ci tormentavano con il mantra della sostenibilità e del verde a tutti i costi, a trasformare in una disciplina indispensabile per la formazione di un architetto. Non è l’oggetto architettonico, infatti, che può costruire il mondo contemporaneo ma è lo spazio nella sua interezza, che genera il paesaggio: nella dialettica tra costruito e non costruito, tra naturale e artificiale.
Quanti professori, prima di Zagari, si erano sinora occupati del paesaggio intendendolo come una disciplina progettuale in senso contemporaneo? Pochi, forzando si potrebbe sostenere nessuno. La ricetta di Zagari è stata: sprovincializzarsi, cercare di capire quanto di meglio fosse stato fatto all’estero, per esempio in Spagna e in Francia. Da qui il filo diretto con progettisti del verde di valore eccelso quali Gilles Clément. Ma anche la ricerca ovunque delle fonti creative, culminata con la redazione di libri e manuali.
Da paesaggista di supporto, Zagari ha lavorato con i grandi architetti italiani: dall’auditorio di Roma disegnato da Piano all’ingresso delle grotte di Niaux con Massimiliano Fuksas. Ma i suoi più importanti lavori li ha firmati da solo, dimostrando che oggi un architetto non può certo pensare di risolvere un progetto limitandosi a prevedere degli spazi genericamente verdi.
Figlio di padre giornalista e politico e di madre attrice, Franco ha ereditato i talenti di entrambi. È uno straordinario e infaticabile divulgatore, sa come trattare con il potere lambendolo ma a schiena dritta, riesce a drammatizzare e teatralizzare ‒ nel senso anglosassone del termine ‒ i suoi punti di vista.
I suoi progetti sono sempre calibrate e sensibili costruzioni poetiche. Ed è qui il suo punto di debolezza. Corrono il rischio di essere strutture musicali troppo raffinate per essere calate nello spazio pubblico, soprattutto italiano, dove regnano le fioriere rotonde con incorporate panchine in cotto, le barriere jersey in pvc o in cemento, i panettoni sempre di cemento o, quando va bene, le palle di ferro.

Franco Zagari, Piazza Montecitorio, Roma 1998

Franco Zagari, Piazza Montecitorio, Roma 1998

I LIMITI DELLA RAFFINATEZZA

La sua sistemazione di piazza Montecitorio è emblematica in proposito: fatta di elementi delicati che subito sono stati violati, dalla rozzezza del potere, e sostituiti da ingombranti e antiestetiche transenne. E i suoi giochi tanto sottili da non essere capiti da un personaggio dannunziano come Vittorio Sgarbi, che prese la sistemazione della piazza come l’intervento brutto per antonomasia, come un affronto alla sua idea di intervento nel centro storico.
Sarebbe però disonesto attribuire tutta la colpa agli utenti. A Saint Denis, dove Zagari ha ristrutturato il sistema delle piazze prospiciente la storica abbazia nella quale sono sepolti i re di Francia, l’area destinata al mercato è stata scompartita in minuti rettangoli colorati ciascuno per ospitare una bancarella. Vista dall’alto è un bellissimo mosaico multicolore. Ma solo quando è vuota. Invece, nelle giornate di mercato, non c’è una attività commerciale che segua i confini prefissati e così la intonata musica del paesaggista si trasforma in una caotica cacofonia. Dimostrando che le logiche che strutturano lo spazio pubblico dovrebbero rassomigliare a una robusta opera aperta, in grado di integrare il caos trasformandolo in un punto di forza, piuttosto che a una sinfonia dove nessuno deve andare fuori tempo.
Zagari, da questo punto di vista, fa ancora parte della vecchia scuola dei progettisti che nel disegno vedono una sintesi attraverso la quale la popolazione riconosce sé stessa. Una costruzione autonoma che però solo il mondo a lei esterno può generare. “Bisogna capire” ‒ ha scritto ‒ “che parlare di paesaggio significa parlare dello stato di democrazia, di lavoro, di autostima di una popolazione”. Immaginatevi a questo punto quanto il suo lavoro, per esempio a Reggio Calabria, sia stato duro. E quanto una figura come la sua, nel nostro martoriato meridione architettonico, sia stata salvifica.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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