Architetti d’Italia. Teresa Sapey, la vulcanica

Luigi Prestinenza Puglisi torna ad accendere i riflettori sui protagonisti dell’architettura italiana. Stavolta è Teresa Sapey a salire sul palcoscenico, grazie a un impegno costante nel mettere in campo un fare architettonico attento al corpo e al contenuto.

Fu Giovanni Marucci che sei o sette anni fa mi fece conoscere Teresa Sapey in occasione di uno dei suoi seminari annuali di cultura urbana a Camerino. Giovanni sapeva che con Giuliano Fausti mi sarei recato al convegno e mi telefonò per chiedermi se potevamo dare un passaggio a un architetto spagnolo che avremmo trovato all’aeroporto di Fiumicino. Ci aspettavamo uno dei tanti professionisti iberici con i quali avremmo dovuto parlare della cupola del Pantheon, di Rafael Moneo, della fine della Tendenza e di Louis Kahn.
Trovammo, invece, una italiana, straboccante di simpatia. Che Teresa fosse esplosivo allo stato puro ce ne accorgemmo più tardi quando, il giorno successivo, intervenne al convegno subito dopo un paio di altri oratori convenzionali e noiosi sino allo sfinimento. Teresa allestì uno show che sorprese, captando l’attenzione stupita di tutti. Un pezzo straordinario di recitazione con la sua voce roca e con cadenza di attrice, sottolineato da diapositive fantasmagoriche, al limite del kitsch, e da filmati con colonne sonore molte delle quali sembravano entrare poco e nulla con l’architettura così come è raccontata nei convegni e nelle aule universitarie. Erano anni che non mi capitava di incontrare un personaggio simile. Finalmente qualcuno metteva in scena lo spazio con il proprio corpo, evitando di smerciare l’architettura come una costruzione intellettuale, come una macchina funzionale, come un discorso disciplinare. E quindi utilizzando i cinque sensi, riportandoli in primo piano e associando alla vista il suono, ma anche il tatto, il gusto, l’olfatto. Un intervento di Teresa lo tocchi, lo assapori, lo annusi.

Teresa Sapey Estudio, Abitazione Sancti Petri, Cadice, 2007

Teresa Sapey Estudio, Abitazione Sancti Petri, Cadice, 2007

MADAME PARKING

Teresa Sapey deve molta della propria fama ai parcheggi. È stata una delle prime a capire che questi brutti spazi della contemporaneità potevano essere riscattati con il colore e utilizzando simboli grafici ingigantiti. L’operazione ha avuto tanto successo che lei si è meritata il soprannome di Madame Parking. Da venditrice eccezionale, racconta che, scegliendo uno spazio sul quale non voleva impegnarsi alcuno, ebbe l’occasione di lavorare all’Hotel Puerta América insieme ai giganti Jean Nouvel, Arata Isozaki, Norman Foster, Zaha Hadid e che i suoi risultati sono stati tanto strabilianti da spingere la cantante Madonna a usare il parcheggio per le sue feste. C’è in effetti poco da stupirsi: la cultura del corpo si incontra ‒secondo una tradizione che ha le sue origini negli Anni Sessanta ‒ con il pop e con la Land Art. L’obiettivo è, infatti, sfuggire dalle costrizioni disciplinari, muoversi sul versante dell’eteronomia, conquistare territorio con una strategia che ha insieme ricadute economiche e culturali, perché al di fuori dei canali tradizionali genera nuovo valore.
Teresa Sapey è nata a Cuneo nel 1962, ha frequentato il grigio Politecnico di Torino e poi ha studiato a Parigi e negli Stati Uniti alla Parsons. Si è trasferita a Madrid nel 1990. I suoi esordi sono stati brucianti. La rivista Wallpaper le ha assegnato il premio Breakthrough Wallpaper Young Designer e Marie Claire nel 2007 la ha inserita tra i dieci designer più influenti del mondo. È stata nominata Commendatore dell’Ordine della Stella della Repubblica Italiana.

Teresa Sapey Estudio, Parcheggio dell'Hotel Silken Puerta América, Madrid, 2004

Teresa Sapey Estudio, Parcheggio dell’Hotel Silken Puerta América, Madrid, 2004

Credo che cinque siano i punti che giocano a suo favore.
Il primo, ne abbiamo accennato, è l’atteggiamento libero nei confronti della realtà, in cui il super-io, con tutte le costrizioni comportamentali, viene perennemente messo in scacco. Ogni progetto è affrontato come un problema ex novo, come se non esistessero regole o tradizioni date. Il risultato è che ogni pretesto può trasformarsi in occasione di design, dal parcheggio allo spazio residuale, ma anche che le soluzioni normalmente proposte per risolvere esigenze funzionali, per esempio le camere squadrate di un albergo, possono essere messe in crisi, per venire trattate come cassettiere composte da reparti mobili, ciascuno dotato di una funzione.
Il secondo è la meticolosa attenzione al budget. La qualità di un oggetto, e quindi il suo valore, non è determinato da materie preziose ma dal quid di invenzione. È quest’ultima che nobilita lo spazio, rende appetibile un ambiente, genera il lusso. Da qui la attenzione al colore che è la materia che più riesce a trasformare la nostra percezione delle cose. Non c’è oggetto pensato dalla Sapey che non sia colorato. Celebri sono i suoi progetti di luminarie realizzate nel 2012 per le strade di Madrid; un disegno caratterizzato da semplici combinazioni di cerchi che variano nel tempo a seconda del variopinto mutare delle luci al led.

Teresa Sapey Estudio, Appartamento in South Kensington, Londra, 2016

Teresa Sapey Estudio, Appartamento in South Kensington, Londra, 2016

OLTRE L’INVOLUCRO

Il terzo è l’inversione del rapporto tra architettura e oggetto. Generalmente gli architetti dedicano attenzione massima alla progettazione dell’involucro edilizio, sacrificando a questo l’arredo, che deve ripercorrerne forme e materiali. Il risultato sono case anche belle, ma ingessate, se non autoritarie, dove sembra che ogni mobile abbia precisa posizione e ruolo (provate a spostare un mobile in una casa di Mies o di Wright). Esattamente l’opposto di quanto fa il non architetto, che invece colloca gli oggetti secondo altre logiche: affettive, di rappresentazione del sé, di reazioni tra mobili, di accumulazione di memorie. La Sapey preferisce muoversi lungo questa strategia da non addetta ai lavori. Occupa gli spazi con i suoi oggetti, si pone in dialettica, anche di opposizione, con l’involucro. Evita gli ambienti risolti unitariamente secondo la legge dell’occhio e applica il punto di vista del corpo, di quel corpo, tattile, acustico, olfattivo che così bene rappresenta nelle sue conferenze.
Il quarto è la dimensione ludica. L’architettura per Teresa non è un gioco sapiente di volumi sotto la luce ‒ che non è poi così divertente ‒ ma è un gioco e basta. E difatti nei workshop da lei gestiti (è una tutor straordinaria) i progetti nascono sempre da storie, spesso fantastiche, che il gruppo cerca di raccontare. Contro la serietà che ci schiaccia, contro quel super-io da debellare, così come abbiamo visto in un punto precedente.
Il quinto è la dimensione sostenibile, ma vista come leggerezza. Oggi nessuno può decidere di non essere ecologico. Ma troppo spesso la consapevolezza etica si trasforma in un insopportabile moralismo, in una disciplina del rigore e della privazione. Per Teresa l’ecologia è uno dei modi del suo essere pop, cioè in grado di saper attingere dal tutto senza privarsi di nulla. Nell’infinito mondo delle cose occorre scegliere ed è proprio questa capacità di farlo, sapendone reinventare il senso, che fa risparmiare ed evita lo spreco. Tutto è riciclabile ma solo all’interno della creatività, che rende l’operazione degna di attenzione e carica di valore.

Teresa Sapey Estudio, Illuminazione natalizia in Calle Serrano, Madrid, 2012

Teresa Sapey Estudio, Illuminazione natalizia in Calle Serrano, Madrid, 2012

Da questo punto di vista, Teresa Sapey è in linea con le teorie degli Anni Sessanta e Settanta dove si credeva nell’idea che tutto fosse architettura, e dove esisteva un cortocircuito positivo tra Pop, Land, Body Art e, aggiungerei, il concettuale.
Sarebbe però un grave errore non capire la differenza tra l’atteggiamento disincantato della Sapey, tipico dei nostri anni edonistici e post-rivoluzionari, e quello ultra impegnato e a tratti giacobino degli anni della seconda avanguardia che diede vita al Sessantotto e al post Sessantotto. Sarebbe come confondere la minigonna di Mary Quant, che scoprendo le gambe proclamava senza appello la rivoluzione femminista, con le minigonne dei Prada e degli stilisti, anche impegnati, di oggi. Teresa non è, almeno in questo senso, una rivoluzionaria barricadiera. Il suo è un impegno disincantato e la sua battaglia è molto più sovrastrutturale. Ma che nel mondo incartato, sin troppo educato e High Touch dell’architettura italiana di oggi non può non produrre una deflagrazione. In ogni caso, Madame Parking, credetemi, non è tipo da prendere sotto gamba.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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