Da Milano a San Paolo. Intervista a 2501

Milanese di origine, 2501 ha scelto di chiamarsi come la sua data di nascita. E qui ripercorre la sua storia creativa.

L’artista milanese 2501 lavora principalmente attraverso linee e forme, in composizioni libere che mostrano grande rigore, infrangendo gli usuali codici artistici. A vent’anni si è stabilito a San Paolo per insegnare pittura ai bambini delle baraccopoli, dopo aver studiato cinema e montaggio video a Milano e visual communication presso la New Bahaus University di Weimar, in Germania. Il suo approccio multidisciplinare lo ha portato ad adottare una tecnica che si è evoluta attraverso il progetto Nomadic Experiment, una serie di mostre internazionali e un decennale archivio digitale concentrato su controculture ed esperimenti, sviluppati in tutto il mondo. Il suo lavoro di street artist e la sua ricerca creativa lo hanno visto e lo vedono attivo a Los Angeles, Miami, San Paolo, Milano, Roma, Detroit, Chicago, Ulan Bator, New York, Atlanta, Kiev.

L’INTERVISTA

I numeri che formano il tuo nome d’arte corrispondono alla tua data di nascita. Che significato ha per te?
2501 è la mia data di nascita ma anche la data di fondazione di San Paolo in Brasile, dove mi sono trasferito per quasi quattro anni quando ne avevo venti. Ho deciso di usare un numero al posto del mio nome per cercare di depersonalizzare il lavoro e focalizzare l’attenzione sul processo piuttosto che sul risultato finale. Ho sempre pensato a 2501 come a un progetto che parla essenzialmente del tempo in varie sfaccettature.

Come nascono i tuoi soggetti?
Ho capito nel tempo che quello che disegno a livello estetico è la rappresentazione del tempo che ho impiegato a dipingerlo: cerco di rappresentare l’atto di dipingere in sé.
Le persone, il tempo, la superficie del muro, le componenti esterne tutto diventa parte dell’esperienza e detta le forme che vengono a crearsi. È come se registrassi un preciso lasso temporale e le interazioni che circondano il lavoro. Molte serie di miei lavori outdoor partono da questa riflessione. Dinamic Influences, per esempio, parla dell’interazione tra ombre create sulle architetture e tratti grafici. Per eseguire un lavoro di questa serie normalmente osservo il muro per almeno un ciclo solare, cercando di leggere i movimenti delle ombre e solo a quel punto intervengo con la parte pittorica che li segue, creando una sinergia tra spazio dinamico (ombre e spostamenti del sole) e spazio statico (il muro stesso). Per questo il 90% delle volte non uso un bozzetto, cerco di mantenermi il più neutrale possibile fino al momento dell’esecuzione vera e propria sul muro.

2501, La Macchina. Museo di Lissone. Photo Ronny Campana

2501, La Macchina. Museo di Lissone. Photo Ronny Campana

Prediligi disegnare grandi linee, perché? Sembrano uno strumento per rappresentare dei concetti, è così?
La linea, insieme alla superficie e al punto, compone idealmente le unità minime necessarie alla rappresentazione grafica. Sono sempre stato affascinato dall’idea che una struttura complessa non sia altro che un insieme di strutture più semplici e anche dall’idea che la complessità spesso venga creata dalle interazioni tra queste sotto strutture. L’idea di interconnessione è sempre presente, è un’idea ben visibile nelle linee che compongono i miei pezzi, ma è anche un’idea astratta che permea la mia attività.
Questa volontà di rappresentare le interconnessioni viene tradotta nei video della serie Nomadic experiment, frammenti che cercano di raccontare la mappa mentale del mio lavoro. In Nomadic ho cercato di raccogliere una serie di impressioni sul mio lavoro degli ultimi dieci anni, utilizzando come medium il video. Qui si trova un unico grande lavoro video (in divenire) che cerca di tracciare una traiettoria emozionale del mio lavoro. La cosa migliore per capire di cosa parlo è sicuramente navigare il sito. L’idea di interconnessione è molto presente anche nella serie di video e sculture LA MACCHINA.

Spiegaci meglio.
LA MACCHINA è un progetto nato nel 2014 che si basa sulla creazione e l’utilizzo di meccanismi che fanno ruotare dei nastri di carta su cui l’artista o il pubblico possono dipingere, seguendo il movimento in loop generato dalla Macchina stessa. Anche in questo caso è il segno il punto di partenza. È il tratto stesso a essere codificato attraverso una web-cam e un software appositamente scritto per trasformarsi in un input che a sua volta genera dei suoni. Andando oltre gli aspetti fisici e strutturali delle varie Macchine costruite in questi anni in collaborazione con il collettivo recipient.cc, ciò che emerge dal dispiegarsi delle diverse installazioni è che non sono affatto “rappresentazioni”. Non rimandano a una teoria al di fuori di esse, né veicolano significati simbolici. Si tratta piuttosto di “modelli” che esprimono appieno il desiderio della scultura e della pittura di essere utilizzate e realizzate, e sembrano riproporre sotto una nuova forma ‒ inclusiva e aperta all’imprevisto ‒ la possibilità di incidere sulla realtà attraverso il progetto nella sua totalità. Questo allargamento di prospettiva, in direzione sia dell’ambito scultoreo sia del pubblico, non è tanto dovuto all’interesse di tradurre il “reale” in immagini pittoriche, bensì intende mostrare allo spettatore come delle forme, dei meccanismi e dei suoni creino un nuovo spazio visuale. La linea è anche un elemento puro che mi permette di poter parlare di concetti universali usando degli archetipi visivi. Spesso l’elemento linea viene usato per parlare di concetti astratti come il cerchio e quindi la circolarità, la ripetizione, l’idea di impermanenza o transitorietà dei fenomeni.

Quali tecniche utilizzi?
Cerco di spaziare il più possibile e negli anni ho sperimentato vari materiali. In esterno ho dipinto praticamente con qualsiasi cosa, sia con gli spray che con le idropitture per poi arrivare alla china, che è quella che uso oggi anche per i muri esterni. In studio mi sono concentrato principalmente sulla china e su colori a base d’alcool. Ho lavorato molto anche con la ceramica e con i metalli e, all’inizio, con materiali organici come le foglie, con cui ho fatto installazioni di grosso formato. Non mi pongo alcun limite per quanto riguarda l’uso di materiali diversi, anche perché, cercando di incorporare il più possibile l’esperienza nell’opera finita, mi viene naturale farmi guidare dalla situazione in cui mi trovo, che spesso mi suggerisce nuove soluzioni. Come raccontavo prima, ho anche lavorato molto usando la tecnologia in generale per creare installazioni audio-video e meccaniche. La scelta di servirsi di una quantità di tecniche diverse – scultura, sperimentazione sonora, pittura e performance – risponde alla necessità di mescolare questi impulsi con l’esperienza tra il pubblico e l’azione generativa del processo artistico.

2501, New York, 2016

2501, New York, 2016

Dopo aver studiato cinema e video editing a Milano e comunicazione visiva all’Università New Bahaus di Weimar, in Germania, a vent’anni ti sei trasferito a San Paolo del Brasile per insegnare pittura ai bambini delle baraccopoli: perché questa scelta? Che ricordo hai di quel periodo?
A Weimar ho frequentato un Master in visual communication perché uno dei miei migliori amici (Mork) si stava laureando lì e mi convinse a passare 6 mesi al Bauhaus per frequentare uno dei primi corsi multilingue dell’università. In Brasile invece sono andato a fare l’impaginatore per una rivista, dopo circa sei mesi mi sono licenziato e ho iniziato a collaborare a un progetto che coinvolgeva ragazzi tra i 15 e i 18 anni dei quartieri periferici per realizzare dei mosaici che poi venivano applicati in spazi pubblici. Io avevo circa vent’anni, quindi non c’era molta differenza tra me e alcuni dei ragazzi che frequentavano l’associazione. In breve molti di loro sono diventati amici che vedo ancora oggi ed è grazie a loro se ho conosciuto intimamente San Paolo. Una città che ha cambiato completamente il mio punto di vista sul dipingere e su vari aspetti della mia stessa vita.

Quindi il Sud America ha influenzato il tuo stile?
In realtà più che di Sud America forse parlerei di San Paolo. San Paolo sta al Sud America come New York sta agli Stati Uniti, è assolutamente un mondo a sé. Nel 2000, San Paolo, a mio parere, era come New York tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta, in pieno fermento per quanto riguardava l’interazione tra gli artisti e la strada. Ricordo bene i primi interventi giganti di Loomit e Daim insieme a Os Gemeos e i muri di Herbert Baglione o di Speto e Vitché. Per me, che ero un writer europeo, questo tipo di approccio era completamente nuovo e parlava molto più di pittura che di writing. Anche gli artisti con cui mi confrontavo quotidianamente avevano un modo di dipingere completamente diverso dal mio, con loro sono stato partecipe di quella che poi è diventata la corrente di abstract graffiti di San Paolo. Più di tutto, comunque, sono stato influenzato dalla città di San Paolo, dal suo ritmo e dalle sue architetture, la vera esperienza che ha cambiato la mia vita e il mio approccio all’arte è stata quella di rapportarsi giorno dopo giorno per quasi cinque anni con una delle più estese megalopoli del mondo.

Che rapporto hai oggi con la tua città d’origine, Milano? È cambiato nel tempo?
Ho sempre avuto un rapporto altalenante con Milano, anche se rimane la mia città natale e il luogo geografico che mi ha formato nei primi diciotto anni della mia vita, quindi ho un forte attaccamento. Milano è molto cambiata dagli Anni Novanta e non accenna a interrompere il suo processo di mutamento, mi diverte sempre osservarla. Milano croce e delizia.

Le opere di Street Art sono soggette alla caducità del tempo. Se fosse possibile, saresti favorevole alla conservazione delle tue opere, oppure non ti interessa o saresti addirittura contrario?
Ponendo al centro del mio lavoro il tempo e il processo, la conservazione delle opere non è una mia priorità, al contrario penso sia interessante capire come un segno possa modificarsi nel tempo e come, grazie ad agenti esterni, possa acquisire nuovi significati.
Tutto quello che faccio è connesso alla fotografia e al video e trova all’interno di questi medium la sua conservazione. Credo che il valore delle opere di arte urbana sia il proporre un nuovo approccio alla città e al concetto di arte, piuttosto che la creazione di opere da conservare.

2501, Traiettorie. Museo de Queretaro

2501, Traiettorie. Museo de Queretaro

Che cos’è per te la Street Art? Quanto e in che modo, a tuo avviso, sta cambiando rispetto a quando hai iniziato?
La Street Art non è mai esistita. Ci sono solo artisti validi e meno validi che interagiscono nello spazio. Mi sembra ci siano troppi approcci differenti per essere racchiusi all’interno di una pseudo corrente. Cito 108 nell’intervista che ti ha rilasciato, avrei scritto le stesse identiche cose ma lui l’ha fatto già molto bene: “Questo è un po’ imbarazzante, odio quel termine. Capisco che abbia un senso come “arte di strada”, ma negli ultimi quindici anni è stato usato per indicare scarpe customizzate, mostre di gente che non ha mai fatto niente di spontaneo in strada, festival di muralismo, eventi agghiaccianti e via dicendo. Molte persone all’oscuro di qualsiasi base artistica o culturale sono diventate curatori o galleristi. La cosa più brutta è che continuano a mettertela addosso a prescindere. Mi è capitato addirittura di essere definito “street artist” nella descrizione di una mia performance live sonora. Il termine Street Art avrebbe un senso parlando di opere d’arte (non strettamente visiva) realizzate in un luogo pubblico senza alcun permesso o commissione. C’è stato un breve periodo in cui era così e forse aveva un senso, ma non se lo ricorda proprio nessuno“.

Alessia Tommasini

www.2501.org.uk

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Sono veneta di nascita, ho abitato per anni a Roma e ora a Firenze. Mi sono laureata in Filosofia a Padova e subito ho cominciato a muovere le mie prime esperienze nel campo della creatività e dell'arte, formandomi come editor,…

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