Street Art, lettering e 3D. Intervista a Peeta

Manuel di Rita, in arte Peeta, racconta la sua storia di street artist. Mescolando graffiti, design e lettering a tre dimensioni.

Classe 1980, originario della provincia di Venezia, Manuel di Rita debutta sulla scena del writing negli Anni Novanta, facendosi ben presto conoscere come Peeta e mettendo a punto uno stile che guarda alla pittura, al design industriale e alla scultura.

A chi è più difficile raccontare ciò che fai?
Per motivi diversi, è alle volte difficile spiegarlo alle categorie più disparate, talvolta agli stessi artisti quando provengono da un background molto distante dal mio.
Potrei dire che, in assoluto, mi risulta molto complicato descrivere tanto la mia estetica quanto la mia esigenza creativa a chi ha pochi o nessun contatto con l’arte di qualunque tipo ma soprattutto a coloro ‒ cosa non difficile in Italia ma che spesso riguarda altre generazioni ‒ che non hanno avuto contatti con i graffiti. Chi proviene dalla provincia, da piccoli paesi, chi ha vissuto la propria giovinezza e sviluppato la propria curiosità in altri tempi e dunque non ha mai avuto un contatto quotidiano con i muri dipinti, fa un’estrema fatica a capire l’astrattismo del mio lettering quanto la mia esigenza di esprimerlo su un muro piuttosto che scegliere un supporto tradizionale.

Cos’è la Street Art? Qual è la tua definizione?
In generale, mi viene più facile definire la Street Art se in contrapposizione con i graffiti: la Street Art è in qualche modo un’evoluzione dei graffiti, che ha scelto altre tecniche e altri soggetti. Non solo: ha scelto un’estetica più semplice, esplicitamente comunicativa, nessun codice elitario ma la volontà di diffondere dei messaggi. Pur nascendo come movimento illegale, così come i graffiti, è maggiormente riuscita a ricavarsi uno spazio di legalità all’interno di festival e altre tipologie di manifestazioni artistiche e così oggi sembra comprendere, erroneamente, tutto il mondo dei graffiti che partecipa ugualmente a questo tipo di eventi e interventi ma che parla formalmente un altro linguaggio, memore di un diverso percorso e di diverse radici.

Peeta, Far Star Light, 2018

Peeta, Far Star Light, 2018

Usi una tecnica particolare e coinvolgente, quella del 3D, che comprende conoscenze e studio di design, scultura, lettering, giochi di colore, luci e ombre. Quando hai avuto questa ispirazione?
Per la prima volta alla fine degli Anni Novanta, quando ho scoperto la scena tedesca dei graffiti, tra i pionieri del movimento europeo, e ho esplorato la ricerca sul lettering tridimensionale di writer ‒ a oggi artisti ‒ quali Daim, Delta (oggi conosciuto tramite il suo nome di nascita, Boris Tallengen) e Loomit.
Ho confermato la mia scelta stilistica dopo i primi studi in ambito artistico, dedicati alla scultura, che mi hanno permesso di esplorare chiaroscuri e volumi, forme tridimensionali insomma, che ho cercato poi di riprodurre in maniera illusoria. Da lì ho indirizzato il mio percorso di istruzione verso il perfezionamento della tecnica, studiando design e dunque acquisendo nuove nozioni sullo studio delle forme, soprattutto legate alla progettazione.

Che cosa significa per te la parola creatività?
Una perfetta sinergia tra spontaneità e conoscenza.

Ci puoi spiegare il tuo processo creativo?
Premettendo che cambia molto in rapporto alla tipologia d’opera che vado a realizzare e dunque al supporto sul quale la realizzo e che le tecniche sono cambiate con gli anni, anche in base alle esigenze di complessità alle quali il continuo tentativo di miglioramento mi ha portato ‒ inizialmente spesso lavoravo anche solo in freestyle o tramite semplici bozze a matita ‒, generalmente inizio schizzando a mano le forme, l’effetto dinamico che voglio dare alla composizione. Poi digitalizzo le forme che ho disegnato e le modello come volumi semplici, completamente bianchi, in modo da creare un’armonia compositiva tra di essi, un equilibrio formale. A questo punto la procedura cambia notevolmente in base al supporto: se voglio dipingere un muro dovrò cercare di adattare le forme ed i colori all’architettura e al contesto circostante. Le tele, invece, ignorandone il contesto di arrivo, le caratterizzo di per sé stesse caricandole di espressività ‒ probabilmente ai più impercettibile ‒ attraverso scelte quali i colori o altri dettagli esecutivi. Le sculture infine hanno un altro importantissimo limite che va esplorato, cioè quello della possibilità fisica di costruzione delle forme, che le condiziona in larga parte.

Peeta, Anda Hostel, Venezia Mestre 2018

Peeta, Anda Hostel, Venezia Mestre 2018

Italia vs Estero, affinità e divergenze: dove si vive e lavora meglio, secondo te?
È difficile dirlo, lavorativamente parlando l’Italia si sta mettendo piano piano al passo con altri Paesi e riconosco un nuovo livello di apprezzamento e consapevolezza. Allo stesso tempo il nostro Paese non è sicuramente visto come un centro per questa disciplina e la maggior parte dei collezionisti sta altrove. Per quanto riguarda i muri, la volontà di diffondere il proprio lavoro, porterà sempre il writer (o lo street artist, il muralista) a muoversi e a quel punto ha poca importanza da dove si proviene. Sicuramente qui in Italia il ruolo dell’artista (come quello in generale del libero professionista) è in parte castrato da limiti fiscali e burocratici che impongono spesso una vita insicura e sotto le righe, ma, per quanto spesso invidi altri luoghi con altre abitudini e leggi, in generale la flessibilità dello stile di vita italiano mi piace: mi piace vivere all’interno di schemi non troppi rigidi, che alle volte mi fanno arrabbiare poiché tendono a sfociare nella cialtroneria e nel menefreghismo nei confronti del prossimo ma, quando non è così, stanno a rappresentanza di un senso di umanità e spontaneità che non sono riuscito a trovare in altri luoghi.

Da bambino chi volevi diventare?
Quand’ero molto piccolo volevo guidare gli autobus, poi ho scoperto l’informatica ed ero un nerd, volevo approfondire fino a diventare un hacker, infine ho scoperto i graffiti e…

Il tuo primo ricordo artistico (la prima volta che hai visto un’opera d’arte, di qualunque forma. In un museo, per strada, sui libri…)?
Arte sacra: gli affreschi, le decorazioni, i bassorilievi e le statue della chiesa del mio paesino.

Come ti vedi fra tre anni?
In continua evoluzione.

Joys & Peeta, I DOLOve Dolo it, 2017

Joys & Peeta, I DOLOve Dolo it, 2017

I tuoi maestri e punti di riferimento nell’arte.
Partendo dalla storia dell’arte più lontana, Caravaggio e Canova. Sfociando in altre discipline complementari al mio lavoro: architetti come Zaha Hadid e Lebbeus Woods, infine i writer che mi hanno più influenzato, Boris Tallengen ‒ ex Delta ‒ e Daim.

Ci racconti l’origine del tuo nome d’arte?
Semplicemente un soprannome datomi dai compagni di scuola: Pita, che ho deciso di scrivere con due “e” poiché mi sembrava più complesso e dunque attraente dal punto di vista grafico.

Di cosa ti stai occupando adesso?
Sto preparando una mostra personale che inaugurerà il 7 dicembre alla Galleria Bugno di Venezia.

Cosa farai domani (progetti per il futuro)?
Sto esplorando nuove forme, abbandonando le semplici lettere e integrandole con elementi geometrici e non solo. Per ora si può notare nelle ultime tele, ma sto studiando come applicarlo alla scultura e ai muri.

Alessia Tommasini

www.peeta.net

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Alessia Tommasini

Alessia Tommasini

Sono veneta di nascita, ho abitato per anni a Roma e ora a Firenze. Mi sono laureata in Filosofia a Padova e subito ho cominciato a muovere le mie prime esperienze nel campo della creatività e dell'arte, formandomi come editor,…

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