La nostalgia, il controllo e il potere del grunge

Christian Caliandro parte dal concerto dei Pearl Jam a Imola per parlare del tempo, del controllo dilagante e di una nostalgia che ne diventa strumento

Sono al concerto dei Pearl Jam, all’Autodromo di Imola. A parte il disagio (enorme) di essere nel medesimo posto con altri sessantamila esseri umani scottati e sudati… A parte il dispositivo economico che c’è qui dentro, tutto attorno, che devo dire mi sembra abbia ormai quasi definitivamente eclissato il senso dell’esperienza “concerto”, di cui non ho alcuna voglia di parlare adesso ma che di certo nelle ore che precedenti l’“evento” mi ha offerto alcuni stimoli e spunti decisamente istruttivi, voglio dire proprio in termini di che cosa significa in questo momento storico un’esperienza culturale collettiva, e soprattutto in che cosa è stata trasformata questa esperienza…

UNA QUESTIONE DI TEMPO

A parte tutto questo, e mentre il ragazzo con il cappellino a pochi metri urla con le mani al cielo l’ennesimo “Tiamooooooooooooooo” rivolto a Eddie Vedder, mentre siamo dalle parti di Wishlist, che (come sempre, come da ventiquattro anni) è obiettivamente emozionante, e lo sono del resto quasi tutti i brani che precedono e seguono, quello a cui penso nella bolgia che tutto sommato adesso è diventata quasi piacevole, è, come spesso avviene in queste puntate, il tempo. E, più che il tempo in sé, o anche la sua percezione, la versione del tempo che questo tempo (scusate) mi e ci offre.
Perché è vero, il tempo si è spezzettato, frammentato, frantumato – ma non è questo, non è solo questo. In questa epoca di Stranger Things e di Cobra Kai, non sono solo gli Anni Ottanta a essere prontamente reimpacchettati e rivenduti. Guardo e ascolto questi eroi della mia adolescenza, oggettivamente invecchiati così come invecchiato sono io e invecchiato è Maurizio qui accanto a me, nel frattempo, anche se comunque vivialive (non posso per l’ennesima volta fare a meno di pensare che gli altri, gli altri cantanti almeno, come ho scritto già alcune volte qui sopra sono tutti già morti, in tempi diversi certo, ma morti ‒ Andrew Wood Kurt Cobain Layne Staley Scott Weiland Chris Cornell – e non morti per caso ma per diretta conseguenza dell’autodistruttività insita nel carattere grunge), e di fatto ciò che vedo è che – sembrava impossibile e impensabile fino a pochi anni fa ‒ anche quella ribellione, quella utopia/distopia, quella negatività fondamentale e radicale viene forse definitivamente reimpacchettata, riarticolata, e rivenduta.
Per carità, nulla di male in ciò: questo gruppo è uno dei pochi al mondo in grado di attrarre generazioni diverse, dai cinquantenni ai ventenni. E quindi da un certo punto di vista è un bene che quello spirito per quanto addomesticato in qualche modo abbia trovato e trovi il modo di intrufolarsi in quest’oggi per molti versi spaventoso, in cui l’imprevisto è una dimensione pressoché sconosciuta e in cui il Controllo non è uno dei temi ma il tema fondamentale, che tutto regola tutto ingloba e tutto muove.
Così come forse è inevitabile che la gente – ripeto: sessantamila persone – si scaldi per i grandi successi di trent’anni fa, e accolga piuttosto tiepidamente le canzoni dell’ultimo album ormai di due anni fa, nonostante i lodevoli tentativi anche visuali da parte della band di trasmettere i nuovi contenuti e anche un suono rinnovato. Niente, la gente (me compreso) si prende una pausa, si siede, stacca il cervello, in attesa della prossima hit in arrivo direttamente dal proprio e altrui passato.

Pearl Jam, Autodromo di Imola, 25 giugno 2022. Photo Maurizio Ventrella

Pearl Jam, Autodromo di Imola, 25 giugno 2022. Photo Maurizio Ventrella

NOSTALGIA E CONTROLLO

Eppure, eppure, qualcosa sempre stona e non torna. (La vita non chiude, non conclude.) Questo qualcosa ha ovviamente a che fare con la nostalgia: non la nostalgia in senso lato, ma il nuovo tipo di nostalgia che questo decennio ha elaborato sulle ceneri fumanti della cultura postmoderna, portandola a un livello completamente nuovo. (E appena sveglio domattina ascolterò Pierfrancesco Favino, intervistato dopo la premiazione dei Nastri d’Argento, dire a proposito e attorno al suo ultimo film che la nostalgia tutto sommato è un sentimento positivo, perché vuol dire sì che rimpiangiamo qualcosa che abbiamo perso ma appunto questa perdita significa che quel qualcosa lo abbiamo avuto…).
Si tratta insomma della nostalgia non solo per ciò che non si è avuto ma anche per quello che non si è mai avuto (anche solo per motivi anagrafici): la nostalgia per un passato che non si è mai vissuto ma che è lì, pronto e sfrondato, fatto apposta e ricreato per essere rivissuto. Una nostalgia che si rifugia e si innesta direttamente nel presente (e nel futuro, se è per questo), una nostalgia pronta a condizionare le scelte artistiche e culturali e esistenziali, una nostalgia che alla fine di un percorso lungo di fatto cinquant’anni è divenuta uno dei principali strumenti del Controllo.
Che, tanto per dire, sarebbe l’esatto contrario del grunge: è con questo che mi sembrava giusto chiudere questa serie, e forse in fondo non ne posso proprio fare a meno. Il grunge ha moltissimo a che fare con lo sfrangiarsi e lo smarginarsi (io stesso non avrei mai potuto capirlo se trent’anni fa non avessi ascoltato e idolatrato questi signori che adesso stanno per finire il loro bellissimo spettacolo: a proposito, non avete suonato Rearviewmirror…), oltre che con il senso dell’autenticità e della comunità.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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