Arte e inquietudini. Gli outsider in mostra a Reggio Emilia

A Palazzo Magnani si riflette sull’identità e sulle inquietudini che tanto hanno segnato i linguaggi delle avanguardie del Novecento e che ancora oggi si esprimono con esiti intensi e inaspettati. Soprattutto quando a crearli non sono gli artisti “ufficiali” ma gli outsider, esponenti della cosiddetta Art Brut

In principio fu l’archivio dell’ex ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia: L’arte inquieta nasce dall’idea di esporre al pubblico quelle fragili carte estratte dalle cartelle cliniche e su cui i pazienti, muniti solo di matite colorate e penne a sfera, esprimevano un loro personalissimo, spesso tormentato, mondo interiore. Poi è scoppiata la pandemia, tutto ha subito un rallentamento e l’umanità si è trovata a doversi confrontare con riflessioni profonde sull’esistenza e sull’identità che, almeno nei Paesi occidentali, erano state relegate in un angolo. I curatori Giorgio Bedoni e Claudio Spadoni hanno quindi deciso di ampliare il progetto iniziale e di dare vita a una mostra che affianca le opere dei maestri “ufficiali” del Novecento a lavori realizzati da artisti classificabili nella categoria dell’Art Brut, compresa una toccante selezione proveniente dall’archivio del San Lazzaro. Ne emerge un’arte “figlia di urgenze espressive talvolta dal sapore di un sale grezzo e amaro” scrive Bedoni che, oltre a essere curatore, è pure psichiatra.

Arnulf Rainer, Splitter, 1971, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto © MART Archivio Fotografico e Mediateca

Arnulf Rainer, Splitter, 1971, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto © MART Archivio Fotografico e Mediateca

LA MOSTRA A PALAZZO MAGNANI

Vigila sui visitatori che si accingono a entrare nelle sale di Palazzo Magnani una delle celebri figure di Alberto Giacometti: altissima, sottilissima, con la sua materia che sembra disfarsi, la scultura è “una seducente guardiana che non cerca risposte, identità che attraversa il tempo, portando altrove lezioni primitiviste di primo Novecento”, ed è sempre Bedoni che scrive. Da quei primi anni del secolo breve comincia un percorso in cui si incontra il Funambolo di Paul Klee, una scultura surrealista di Max Ernst, i lavori di colui che per primo definì l’Art Brut, Jean Dubuffet. A proposito di quest’ultimo, va ricordata la monografica allestita sempre a Reggio Emilia nel 2018, una radice che ora è germogliata e fiorita, e lo stesso si può dire di Borderline, forse la prima mostra significativa sugli outsider allestita a Ravenna nel 2013 su iniziativa di Spadoni e Bedoni.

Keith Haring, Untitled, 11-06-1984, collezione privata

Keith Haring, Untitled, 11 06 1984, collezione privata

GLI ARTISTI IN MOSTRA A REGGIO EMILIA

L’esposizione è strettamente legata al territorio, quindi occorreva tracciare i confini “artistici” del Reggiano: i protagonisti sono Ligabue, Zavattini, Ghizzardi, una generazione di artisti spuntata sulle rive del Po. Le frontiere poi però si infrangono e ai nomi di Lorenzo Viani, Gino Sandri (meriterebbe una riscoperta), Mattia Moreni si accostano accenti nordici – Emil Nolde, Max Sulzbachner, Arnulf Rainer – o che risuonano dall’est europeo fino all’Iran, come nel caso di Zoran Mušič, Joškin Šilian, Mehrdad Rashidi. Tutti gli artisti concorrono a un’indagine sull’inquietudine che si esprime tramite il volto e sulle pareti a fondo rosso le opere quasi sempre anonime sono proprio quelle del San Lazzaro; i punti di tangenza con l’arte ufficiale sono quasi disorientanti.
Una seconda sezione avvicina ulteriormente alla fragilità, che sovente ha trovato espressione nella ripetizione seriale, ossessiva. I pretini neri di Carlo Zinelli – ricoverato nell’ospedale psichiatrico San Giacomo di Verona – sono considerati un best seller dell’Art Brut, ma motivi seriali sono anche quelli dei “regolari” Alighiero Boetti, Carla Accardi o ancora di Keith Haring. L’ultima parte dell’esposizione è invece dedicata alla cartografia: i viaggi immaginari possono essere quelli dettagliatissimi, corredati da una precisa toponomastica, o le ricerche di Maria Lai e di Anselm Kiefer (sua l’opera Ich halte alle Indien in meiner Hand, Ho in mano tutta l’India), oltre alle mappe che ispirano l’arte aborigena australiana contemporanea.
Il congedo spetta a Federico Saracini: ricoverato al San Lazzaro, faceva comizi proclamandosi “conte di Belfort” e nel silenzio manicomiale diede vita a una vera e propria cartografia politica e filosofica. Non stona l’accostamento dei suoi pastelli con le contemporanee figurazioni poetico-grafiche di Guillame Apollinaire e con la scrittura automatica del Surrealismo. Un caso? Forse più che altro un “sentore” che in certi momenti della storia attraversa lo spazio fino a essere recepito in contesti anche impenetrabili, come i manicomi d’allora.

Marta Santacatterina

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Marta Santacatterina

Marta Santacatterina

Giornalista pubblicista e dottore di ricerca in Storia dell'arte, collabora con varie testate dei settori arte e food, ricoprendo anche mansioni di caporedattrice. Scrive per “Artribune” fin dalla prima uscita della rivista, nel 2011. Lavora tanto, troppo, eppure trova sempre…

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