La Biennale di Venezia come strumento per rilanciare gli artisti italiani
Prosegue il dibattito sul destino dell’arte italiana. Stavolta è Ludovico Pratesi a parlare, proponendo di “sfruttare” la Biennale di Venezia come trampolino di (ri)lancio dei nostri artisti, a partire proprio dal bistrattato Padiglione Italia.
Ho seguito con interesse il tema lanciato da Santa Nastro sul rapporto tra lo Stato e gli artisti italiani, seguito dagli interventi di direttori di museo, curatori, giornalisti e anche alcuni artisti. In un momento complesso come questo, Santa Nastro invita a puntare i riflettori sui giovani artisti italiani, che hanno vissuto in un Paese dove “negli ultimi venti anni è stato coltivato uno stranissimo e malsano desiderio di internazionalismo a tutti i costi”.
La questione è complessa e urgente, tanto che vi ho dedicato uno dei miei ultimi libri, Perché l’Italia non ama più l’arte contemporanea (Castelvecchi, 2018), che analizza, dati alla mano, quanto il nostro Paese fosse più interessato all’arte di oggi alla fine del Diciannovesimo secolo rispetto a ora. E i primi a farne le spese, ovviamente, sono gli artisti, sistematicamente ignorati da una nazione che, a livello istituzionale, si è interessata quasi esclusivamente all’arte antica.
Dal momento che la maggiore vetrina internazionale per un artista italiano è la Biennale di Venezia, che garantisce un livello di visibilità imparagonabile con una mostra in un qualunque museo italiano, ho deciso di concentrare il mio intervento sulla storia della presenza italiana negli ultimi vent’anni in questo importante evento istituzionale, per concluderlo con alcune proposte.
IL PADIGLIONE ITALIA ALLA BIENNALE DI VENEZIA ‒ GLI ANNI NOVANTA
Il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia è stato cancellato nel 1999 da Harald Szeemann nella sua sede storica al centro dei Giardini, e sostituito dieci anni dopo da uno spazio in fondo all’Arsenale. Con un’ulteriore differenza, ma significativa: se il curatore del padiglione veniva nominato dal direttore artistico della Biennale, quello all’Arsenale viene gestito dal Ministero dei Beni Culturali. Da dodici anni la nomina del curatore è di fatto squisitamente politica: entrano in gioco logiche diverse da quelle culturali e meritocratiche, e la differenza si sente. Qualche esempio: nel 1988 Carandente nomina al padiglione quattro commissari (Pier Luigi Tazzi, Achille Bonito Oliva, Guido Ballo e Roberto Tassi), che presentano sedici artisti, mentre due anni dopo gli artisti sono diciassette, selezionati dai tre curatori Laura Cherubini, Flaminio Gualdoni e Lea Vergine. Nel 1995 la Biennale compie cento anni: il curatore Jean Clair ripristina il Padiglione Italia ai Giardini, curato però da un comitato di esperti (composto da Hans Belting, Gabriella Belli, Gillo Dorfles, Maurizio Calvesi, Giulio Macchi oltre che dallo stesso Jean Clair) che seleziona venti artisti di diverse generazioni. Se nel 1997 il curatore della Biennale Germano Celant si autonomina curatore del padiglione e invita Maurizio Cattelan, Ettore Spalletti ed Enzo Cucchi a rappresentare l’Italia, due anni dopo Harald Szeemann elimina il padiglione per dare spazio alla mostra internazionale da lui curata, salvo poi premiare le cinque artiste italiane “senza padiglione”. Sono Monica Bonvicini, Grazia Toderi, Bruna Esposito, Paola Pivi e Luisa Lambri ad aver ricevuto l’ultimo premio tricolore a Venezia, ormai più di vent’anni fa, che può essere letto anche come risposta alle polemiche per la scomparsa del padiglione, fatta salva l’ottima qualità delle artiste.
GLI ANNI DUEMILA
Dopo aver perso il proprio spazio istituzionale in nome di una “internazionalità” alla quale solo una nazione debole e priva di memoria storica può ambire, la proposte italiane sfiorano il paradosso. Se nel 2001 gli artisti italiani vengono invitati da Szeemann alla mostra internazionale La Platea dell’Umanità, due anni dopo ci sono addirittura due padiglioni: La Zona, curato da Massimiliano Gioni che invita cinque artisti, e il Mibac, che nell’ex padiglione Venezia presenta i quattro vincitori del Premio per la giovane arte italiana, a cura di Paolo Colombo e Monica Pignatti Morano, con una modalità ripetuta due anni dopo.
Nel 2007 il Mibac annuncia l’apertura del nuovo padiglione Italia nell’area delle Tese all’Arsenale con uno spazio di 1000 metri quadrati (poi raddoppiato nel 2011 da Sgarbi): il curatore, nominato dal ministro, è Ida Gianelli e invita due soli artisti, Giuseppe Penone e Francesco Vezzoli. Nei due decenni successivi le nomine dei curatori da parte di ministri appartenenti a diversi schieramenti politici hanno determinato padiglioni di tipologia e qualità molto diseguali ma sempre sotto forma di partecipazioni collettive (Collaudi, venti artisti invitati da Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli nel 2009; L’arte non è cosa nostra, duecento artisti invitati da Vittorio Sgarbi nel 2011 ;Vice versa, quattordici artisti invitati da Bartolomeo Pietromarchi nel 2013; Codice Italia, quindici artisti invitati da Vincenzo Trione nel 2015) . Si tratta di mostre a tema che di fatto si autoescludono dalla competizione per il premio del padiglione, che da anni viene assegnato a padiglioni con un unico artista. Solo nelle ultime due edizioni, Il mondo magico, Cecilia Alemani (2017) e La sfida al labirinto, Milovan Farronato (2019), il numero degli artisti invitati è stato limitato a tre. Va ricordato che la Biennale di Venezia non è solo una mostra ma anche una competizione tra nazioni e artisti: la vittoria del Leone d’Oro per un artista può determinare un grande aumento di visibilità, come dimostra il caso di Anne Imhof, vincitrice del Leone d’Oro nel 2017 con il progetto Faust al Padiglione Germania.
POCHI ITALIANI NELLA MOSTRA INTERNAZIONALE
Oltre al fatto di essere autoesclusi dalla competizione tra i padiglioni, anche per partecipare al Leone d’Oro riservato agli artisti presenti nella mostra internazionale gli italiani hanno possibilità quasi nulle, visto che il loro numero si assottiglia sempre di più. Questi i numeri degli ultimi dieci anni: nel 2009 Daniel Birnbaum invita 9 italiani su 89, nel 2011 con Bice Curiger sono 13 su 83, nel 2013 Massimiliano Gioni ne invita 14 su 150 e nel 2015 Okwui Enwezor 4 su 136. Le ultime due edizioni sono state per i nostri artisti ancora più penalizzanti: nel 2017 Christine Macel ne invita 6 su 120, mentre Ralph Rugoff ha invitato 2 italiani su 79 artisti.
LO STATO, LA BIENNALE E GLI ARTISTI ITALIANI
Una delle principali motivazioni che spinsero il Regno d’Italia a organizzare la Biennale era la promozione degli artisti italiani nel contesto internazionale, e possiamo dire che fino al 1999 è andata così. Come sottolinea Santa Nastro, negli ultimi vent’anni lo tsunami dell’internazionalismo si è abbattuto sulla Biennale a più riprese, causando il depotenziamento dello scopo originario dell’unica vetrina internazionale per gli artisti italiani. La stessa istituzione che l’Italia aveva lanciato per promuovere la propria arte alla fine dell’Ottocento, all’inizio del Ventunesimo secolo l’ha di fatto dimenticata. È davvero tempo di voltare pagina per aiutare concretamente i nostri artisti con uno strumento forte e prestigioso come la Biennale Arte, in un momento drammatico nel quale l’arte italiana ha più bisogno che mai di visibilità a livello globale.
LE PROPOSTE
Come sappiamo, il ministro Franceschini ha dimostrato una spiccata attenzione verso il contemporaneo attraverso la creazione dell’Italian Council, efficace e opportuno strumento istituzionale per la promozione dell’arte italiana all’estero. Nel significativo e lodevole appello che il comitato delle Fondazioni ha rivolto pochi giorni fa al ministro si propone che “l’arte contemporanea venga considerata un settore strategico all’interno della governance culturale italiana”.
UN UNICO ARTISTA AL PADIGLIONE ITALIA
In un momento delicato e complesso come questo, valorizzare la presenza degli artisti italiani alla Biennale del 2021 sarebbe quanto mai opportuno e necessario. Come farlo? Innanzitutto attraverso un Padiglione Italia affidato a un curatore in grado di puntare su un progetto rigoroso che coinvolga un artista (o al massimo due), con opere site specific realizzate ad hoc per lo spazio, come è avvenuto nel progetto Il Mondo Magico di Alemani nel 2017, uno dei migliori padiglioni di questi ultimi trent’anni.
UN CICLO DI STUDIO VISIT PER I CURATORI DELLA BIENNALE ARTE
Nella difficile circostanza legata all’attuale pandemia sarebbe opportuno che la Fondazione Biennale organizzasse, in collaborazione con la Direzione Generale Creatività Contemporanea del MiBACT, l’Amaci e il Comitato delle Fondazioni, una serie di studio visit ai venti artisti italiani delle ultime generazioni ritenuti più significativi da offrire ai curatori ‒ stranieri o italiani ‒ delle prossime edizioni della Biennale Arte, durante la fase di elaborazione del loro progetto curatoriale. Tali studio visit avrebbero la funzione di informarli sulla ricerca degli artisti, coinvolti in prima persona in un’iniziativa istituzionale atta a valorizzare il loro lavoro. La prima serie di studio visit potrebbe essere offerta a Cecilia Alemani, curatrice della 59esima edizione, ed essere effettuata nei prossimi mesi, di persona o anche online.
ARTISTI ITALIANI ALLA BIENNALE: UN SOSTEGNO PUBBLICO
Nel caso in cui uno o più artisti italiani vengano invitati a partecipare alla mostra internazionale, sarebbe opportuno che lo Stato offrisse loro un contributo economico per finanziare una percentuale (30%) della produzione delle opere da presentare alla mostra, attraverso l’Italian Council o un nuovo strumento normativo ad hoc gestito dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del MiBACT, in modo da garantire un supporto concreto alla partecipazione italiana alla Biennale Arte, l’unica vetrina internazionale per l’arte del nostro Paese.
‒ Ludovico Pratesi
LE PUNTATE PRECEDENTI
ARTISTI E CORONAVIRUS – l’intervento di Sergio Risaliti
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