Trasformiamo l’Italia nel posto migliore in cui stare. A partire dagli artisti

Negli ultimi vent’anni il nostro Paese ha coltivato una strana e schizofrenica forma di esterofilia. Di cui oggi e domani pagheremo le conseguenze. A meno di non invertire la rotta. Le riflessioni di Santa Nastro.

Su queste colonne abbiamo pubblicato un articolo di Sergio Risaliti che condivido in pieno, intitolato Fate presto, che invitava le istituzioni a prendersi cura del più fragile e sensibile patrimonio culturale italiano: gli artisti. Uso l’espressione tanto abusata nel nostro caro e vecchio Paese di “patrimonio culturale” proprio per richiamare l’ossimoro tra le antiche vestigia che ritiriamo fuori come un asso di bastoni ogni qualvolta ci serve ricostruire una identità nazionale (e questo periodo è uno di quei casi), dimenticando però la vita che si muove in un triste e faticoso presente.
Anche in questi giorni, tra pubblicità, interventi televisivi e talk show, assistiamo nuovamente all’elogio della “bellezza”: il fenomeno cui assistiamo costantemente è quello della rimozione. Il “bello” appartiene al passato, anzi a un passato lontanissimo morto e sepolto almeno cinquecento anni fa. Come possono dunque, come giustamente invoca Risaliti, le istituzioni “fare presto” (con un appello accorato che non può non ricordare l’ormai eterna prima pagina de Il Mattino di Napoli, all’indomani del terremoto in Irpinia, poi immortalata da Andy Warhol nel tempo congelato di una delle sue serigrafie), se non riconoscono ciò di cui si sta parlando?

IL MEA CULPA

Occorre una analisi e un mea culpa. L’ultimo ventennio non è stato molto semplice per gli artisti italiani (e per italiani intendiamo, a scanso di qualsiasi equivoco, anche chi ha scelto di vivere qui, le seconde generazioni, gli italiani del domani in una società multiculturale etc.). Pompati da giovanissimi, offerti alla curiosità maliziosa come nuova tendenza modaiola agli esordi della carriera (ed ecco subito arrivare, in anni sicuramente più opulenti di oggi, premi, fellowship e partecipazioni a mostre) per poi essere dopo un primo interesse abbandonati in favore di qualche nuova, più recente attrazione. È successo a tantissimi. I più seri hanno poi lavorato per se stessi, molti sono scappati all’estero per ottenere altrove quel che qui non riuscivano ad avere, molti addirittura si sono ritirati in un più intimo mutismo, lasciando che solo la ricerca e le opere parlassero in loro vece e hanno resistito, anche grazie al supporto di alcune gallerie. Ma non sempre, perché è vero che negli ultimi venti anni in Italia è stato coltivato uno stranissimo e malsano desiderio di internazionalismo a tutti i costi. Così mentre gli altri Paesi proteggevano (e ancora lo fanno) i propri artisti, da noi si andava a caccia di novità ovunque, tranne che qui.
Ora, lungi da me essere nazionalista, e lontano da me ogni motto alla prima gli italiani (gli artisti sono artisti a prescindere dalla provenienza e vanno sostenuti quelli bravi – io vorrei una Italia però in cui le migliori teste oltralpe o oltreoceano anelassero a venire a lavorare perché è il posto migliore in cui essere), ma questo snobismo al contrario nei confronti dei nostri non l’ho mai capito e di certo non ha giovato. Come non ha giovato questo auto-relegarsi dell’intero sistema dell’arte a fenomeno glamour, tanto che oggi la chiamata alle arti in massa dei media dominanti e generalisti per convincere i cittadini a “restare a casa” sta coinvolgendo tutti i settori culturali tranne quello dell’arte, che invece sta producendo contenuti eccezionali e appassionanti su tutte le piattaforme digitali museali e non solo.

ITALIANS DO IT WORSE

Ma tornando indietro, per molto tempo si è storto il naso di fronte a mostre che mettevano al centro l’arte italiana, di fronte a gallerie che avevano un ricco parterre nostrano, preferendo loro eventi “più globali”, che il sentire comune definiva di gran lunga più accattivanti. Così come molto spesso si sono viste nei nostri musei mostre personali articolatissime dedicate a giovani stranieri, mentre i coetanei italiani a malapena riuscivano ad accaparrarsi, quando tutto andava bene, qualche project room.
Negli ultimi anni per fortuna molto è cambiato, ma grazie a queste reiterate scelte abbiamo impedito a intere generazioni di essere competitive proprio su quella piattaforma internazionale che tanto abbiamo vagheggiato. A intere generazioni di artisti, ma anche di curatori, che si sono dovute adattare, per farsi apprezzare e inseguire il sentimento comune, a progettare con artisti che avevano già, a casa loro, i propri compagni di strada. Mentre le energie disponibili in house non potevano essere concorrenziali con curricula sprovvisti di biennali, di mostre personali, e commissioni degne di questo nome, spesso riservate ai super già danarosi big (ovviamente solo saltuariamente italiani).
Ogni età, come nella vita dell’individuo in quella degli artisti, richiede dei passaggi obbligati. E così, in questo Paese che ha sequestrato – non solo nell’arte – intere generazioni nella bolla di un’eterna giovinezza, anche per gli artisti, mentre i capelli imbiancano e le idee maturano, non sempre ci sono state le giuste iniziazioni. Se vogliamo riflettere e ripartire, facciamolo, ma ripartiamo anche da questo.

Santa Nastro

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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