Conservare, archiviare, digitalizzare. Cosa resta del contemporaneo? (II)

Cosa significa lavorare sulla conservazione dell’arte contemporanea? Che tipo di scenario stiamo lasciando ai posteri in tema di archiviazione e documentazione? Se per le generazioni precedenti è stato semplice costruire e ricostruire lo stato delle opere attraverso lettere, documenti, immagini, oggi che tutto tende all’immateriale, quale scenario stiamo preparando? Dopo la prima tornata, un’altra decina di artisti e addetti ai lavori risponde a questi interrogativi.

CRISTINA BALDACCI
Storica e critica d’arte

Cristina Baldacci. Photo Matteo De Fina

Cristina Baldacci. Photo Matteo De Fina

All’impermanenza dell’arte concettuale si cerca di ovviare con varie forme di documentazione, nell’illusione di poter conservare azioni e materiali transitori, ma sapendo bene che foto, video e certificati raccolti in archivio sono soltanto “spettri” di ciò che è stato. Nei casi più estremi, il mal d’archivio spinge a produrre multipli e copie, che, tuttavia, più che aiutare la memoria, alimentano spesso il mercato. Gli artisti insegnano che l’arte sopravvive anche senza presenza materiale, se un gesto, un comportamento, un’idea, un progetto, un’immagine vengono interpretati e rimessi in atto (reenactment) passando di mano in mano e da un medium all’altro. Questo continuo migrare nel tempo e in contesti diversi, invece di produrre simulacri o feticci, rinnova ogni volta l’opera – e con essa anche l’idea tradizionale di patrimonio – attraverso una ripetizione che è sempre anche una traduzione e variazione.
I nuovi media e l’arte digitale hanno aperto nuove questioni legate alla conservazione, circolazione e trasmissione dell’arte. Più che a un’effettiva perdita di dati per l’impossibilità di poterli ri-(n)tracciare, nello spazio virtuale il mal d’archivio scaturisce dal mancato aggiornamento dei supporti, che sono l’unica, per quanto fragile, garanzia di accesso e leggibilità.

ANTONI MUNTADAS
Artista

Antoni Muntadas

Antoni Muntadas

L’uso e l’abuso delle parole e dei loro significati ci porta spesso a confondere messaggi e parole. ‘Preservare’ e ‘archiviare’ sono parte di questo fraintendimento e/o mercificazione. Noi artisti dovremmo distruggere di più. Significa mantenere ciò che riteniamo essenziale per costruire o ricostruire il lavoro. La sindrome della scansione ci spinge a preservare tutto, ed è all’origine dell’incremento di questo post-feticismo del lavoro.
Gli archivi sono composti da materiali che accumulano, organizzano, classificano informazioni e sono parte sostanziale ed elementi per creare progetti. Gli archivi (macro) sono all’inizio del processo che origina progetti specifici (micro). Attivare l’archivio.

FILIPPO TIBERTELLI DE PISIS
Associazione Italiana Archivi d’Artista

Filippo Tibertelli de Pisis

Filippo Tibertelli de Pisis

La conservazione dell’arte contemporanea a mio avviso avviene su due fronti, quello creativo attraverso la formazione di un archivio organizzato che raccolga la descrizione dell’opera anche in veste legale (uno dei fini della Associazione Italiana Archivi d’Artista) e quello materiale con la preservazione fisica, se contemplata dall’artista, ad opera di specialisti restauratori. Ai posteri stiamo lasciando uno scenario sofisticato e complesso, che si fonda su una sfida ricca di opportunità, di sistemi ma anche di incognite, e per il momento non può distaccarsi dalla materialità che ancora oggi ci garantisce la sopravvivenza dei documenti e della loro funzionalità.
La conservazione sarà un lavoro più difficile per l’eterogeneità dei materiali usati – spesso sostanze non ancora ben conosciute – e per il compito di mantenere intatto il concetto creativo. In presenza dell’effimero, ci si chiede se ci sia l’intento di scomparire insieme al proprio messaggio intellettuale, ma penso che la creatività sia anche cultura, e la cultura, specchio dell’intimo dell’uomo, deve rimanere. Bisogna quindi conservare l’idea, che potrà rivestirsi di materialità accessoria all’occorrenza e forse interpretativamente nuova.

FABRIZIO BELLOMO
Artista

Fabrizio Bellomo

Fabrizio Bellomo

I nostri file digitali sono le informazioni (codificate attraverso il codice binario) che servono alle macchine imperanti (i pc) per riconfigurare l’opera (immagini, video, testi, audio ecc.) all’interno dello spazio virtuale cartesiano. Detto ciò, personalmente (e proprio per questo) tendo a produrre fisicamente tutto il materiale che ritengo abbastanza importante: ovviamente per questioni economiche non posso stampare tutti gli appunti visivi che produco. D’altro canto, penso anche che gli appunti siano frequentemente andati dispersi in ogni epoca.
Certo, in epoche diverse, studiosi e storici sono riusciti spesso a riconfigurare il processo dell’opera: non è raro infatti ritrovare nei più svariati musei, oltre l’opera vera e propria, anche i bozzetti e gli studi preparatori della stessa. Probabilmente la maggiore perdita di materiale in cui potremmo imbatterci in futuro sarà relativa proprio a questi materiali di contorno, anche se sono ugualmente importanti alla comprensione dei processi che hanno portato al risultato finale.

ALESSANDRO BOLLO
Direttore Polo del 900 – Torino

Alessandro Bollo

Alessandro Bollo

Gli ultimi decenni hanno rappresentato uno snodo importante per chi si occupa, e si preoccupa, della trasmissione della memoria del passato e ha la responsabilità di lasciare traccia del presente. Sono stati anni di accelerata evoluzione e mutamento: dai supporti (il cambio di proporzioni fra supporti materiali, ibridi, digitali) alle metodologie e tecnologie di catalogazione (standard, software, open data ecc.), alle tecniche di conservazione (fisica e virtuale).
Dopo i primi tempi in cui si è stati un po’ travolti dal “nuovo è bello” in cui pareva che digitalizzare “tutto” fosse la soluzione – con il risultato di un rumore informativo esponenziale, costoso, inutile e sterile – si è entrati in una fase di riflessione più realistica e culturale: è indispensabile scegliere cosa conservare, perché conservare, come conservare. Lo scenario è comunque molto stimolante. Decenni di conoscenze e competenze di archiviazione e catalogazione sono il punto di partenza per sperimentare nuovi approcci integrati e multidisciplinari di valorizzazione del patrimonio per arrivare a pubblici diversi e molteplici, anche favorendo nuove prospettive di archivistica partecipativa.

MARCO SCOTINI
Curatore e saggista

Marco Scotini

Marco Scotini

Credo che la nostra contemporanea fissazione con l’archivio (con la sua immagine e la sua funzione) abbia a che fare con la perdita attuale del suo oggetto: l’elemento documentale. È vero che abbiamo pensato sempre l’opposto – e cioè che i database non facessero altro che favorire l’accumulazione, l’inventariazione e la conservazione di differenti materiali. Al contrario, penso che il nostro attaccamento all’archivio tradisca qualcosa di diverso e di originario. È un po’ come quando nasce la pittura di paesaggio: tutti la celebrano come un ritrovato connubio con la natura, mentre non fa altro che elaborarne il nostro affrancamento definitivo.
In fondo l’idea dell’archivio (per come la conosciamo) trova il suo apice nel XIX secolo con la stampa, la fotografia, il telegrafo e la riproduzione meccanica delle cose. Qualcosa, cioè, in grado di materializzare anche l’immaterialità di un suono o di un momento. Ma oggi, nei nostri ambienti elettronici, quali sono le tracce o i depositi che ancora possiamo lasciare? Un artista come Allan Sekula all’inizio del millennio paragonava la nostra era Internet a uno stato oceanico per immersioni liquide tra flussi informatici e liquidità dei mercati. Si possono lasciare tracce su o nell’acqua? Non faccio qui riferimento soltanto all’immaterialità e al carattere effimero della nostra informazione, ma al suo eccesso: alla sua sovrabbondanza e indeterminatezza. Chi la potrà mai raccogliere tutta e avrà mai un senso conservarla? È proprio il carattere documentale come tale a essere minato (una volta reso atomizzato, rapido, fluido, permanente) in questa supposta sovra-documentazione del mondo. Mi vengono in mente i 130 monitor di Dieter Roth

EVA FRAPICCINI
Artista

Eva Frapiccini

Eva Frapiccini

Molto spesso gli artisti hanno realizzato o realizzano lavori senza pensare a come verranno fruiti nel futuro. D’altra parte, se pensiamo al passaggio da nastro a disco della videoarte, e a tutte le implicazioni conservative, non era nemmeno prevedibile il trapasso di alcuni supporti. Nonostante ciò, penso che la velocità di trasmissione e trasformazione della fruizione delle opere, della visione e della percezione stessa dello spettatore sia una grande opportunità per gli artisti che non lavorano solo con la materia, ma soprattutto con il concetto.
Sta nella capacità dell’artista saper pensare a un progetto che funzioni su più livelli, se la sua estetica lo permette. In questo senso, penso che i progetti time-based possano rispondere meglio di altri alla velocità dei tempi, perché, come dice il termine stesso, tengono in considerazione il passaggio del tempo come elemento che agisce sull’opera stessa. Penso alle Capsule del tempo di Andy Warhol, agli autoritratti di Roman Opalka o al Leviathan di Shazia Dawood presentato alla Fondazione Querini Stampalia. Sono alcuni esempi di lavori lunghi nel tempo, che si modificano nel tempo e che riescono a rappresentare meglio i nostri tempi, fregandosene di quel mondo che ha fretta di definire la tecnica, il formato, la dimensione.

GIANFRANCO MARANIELLO
Presidente Amaci

Gianfranco Maraniello

Gianfranco Maraniello

La questione della conservazione dell’arte contemporanea non è successiva alla creazione di un’opera. Non ci occupiamo solo di manufatti che vengono poi considerati oggetti da tutelare e restaurare, ma corrispondiamo in tempo reale – ammesso che tale espressione risulti ragionevole nella compresenza di tempi virtuali caratteristici dell’età digitale – alla contingenza di pratiche che si attuano nella coscienza del contesto e della determinazione delle condizioni operative.
L’artista spesso interviene nello specifico riferito al luogo o al modo di svolgimento, prevede il consumo di materiali, realizza una performance, dilata i territori di pertinenza dell’arte, assimila il metodo archivistico e agisce nell’immaginario oltre la tangibilità del prodotto. Abbiamo bisogno di database, ma anche di narrazioni (sempre più programmate dagli stessi artisti) per costruire e condividere memoria e necessaria interpretazione di gesti e non solo di opere definitivamente compiute.

GIULIANO SERGIO
Storico dell’arte e curatore

Giuliano Sergio

Giuliano Sergio

Quale forma prederà domani l’arte? In che modo se ne farà la storia? Non esiste ancora un’estetica dell’archivio, ognuno inventa la propria formula, sperimenta soluzioni diverse con installazioni interattive e altri sistemi di fruizione. La tecnologia, riproducendo e moltiplicando gli originali, aumenta la potenza del vintage. Accanto ai quadri e alle sculture, film registrazioni fotografie cartoline e manifesti rivelano un’aura imprevista. Le sperimentazioni degli Anni Sessanta e Settanta insegnano che la forma dei documenti evoca stili ed epoche lontane, aspetti che possono essere utilizzati per comporre nuove narrazioni e coinvolgere il pubblico.
Oggi che i media costruiscono il luogo comune e il tempo comune della società, molti artisti lavorano con la “forma archivio”: sono progetti che considerano i documenti come vestigia capaci di coinvolgere le comunità e di sollecitarne la storia. Le opere in “forma di archivio” interagiscono con la memoria collettiva, creano un’arte che non presenta solo degli oggetti, ma un sistema di comunicazione. Ciò che ci coinvolge è la presenza del passato, vissuto attraverso quello stesso immaginario mediatico che lo ha creato, che riconosciamo e che ci consente di riviverlo.

ERIK KESSELS
Artista

Erik Kessels

Erik Kessels

La riflessione iniziale su archivi e conservazione per l’arte contemporanea parte da presupposti confortanti. La tecnologia per lo storage è migliore che mai e le possibilità sono letteralmente infinite. Viviamo in una società guidata dall’immagine: nell’arte, nella vita, attualmente realizziamo più immagini e documenti che mai, ma non pensiamo molto a come archiviarle. Le strutture di archiviazione digitale sono diventate molto più accessibili e meno costose nel tempo. D’altra parte, però, siamo inondati di immagini, perciò a volte a malapena le guardiamo. Molte di quelle che realizziamo sono “usa e getta”; si tratta di quantità al contrario di qualità e longevità.
Sebbene le immagini non invecchino, la tecnologia di archiviazione diventa obsoleta. Vent’anni fa siamo passati dal floppy disk ai cd, dalle unità portatili fino al cloud. Mondo fisico, pensiero e mondo digitale sono sempre più intrecciati: ci troviamo di fronte a possibili “terrorismi” e “tempeste” digitali. Quali conseguenze potrebbe avere sulla nostra società una sorta di Armageddon digitale? In termini relativi, il mondo digitale è giovane e non sappiamo quanto sia al sicuro tutto ciò che abbiamo conservato al suo interno. Paragonare archiviazione analogica e digitale alla pratica di conservazione nell’arte è come mettere insieme uova e asciugacapelli: è la stessa attività, ma di fatto sono diventate due discipline completamente diverse. Le persone spesso parlano dell’analogico come obsoleto: tutto va digitalizzato. Ma che dire di tutti i musei e degli archivi pieni di oggetti e immagini con centinaia di anni alle spalle? Cosa resisterà alla prova del tempo tra cento anni: pdf o dipinti?

Santa Nastro

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #41

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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