Il restauro architettonico tra effetto presepe e archistar con la sindrome da Indiana Jones

Al “dove era e come era”, ricostruzione immaginaria di una storia che ci appaga, dovremmo preferire il rischio di un restauro capace di sperimentare. Purché reversibile, al riparo dall’egocentrismo delle archistar

Il restauro, soprattutto quando implica un riuso dell’edificio, ha tutte le caratteristiche di una doppia sovrascrittura.
La prima sovrascrittura nasce dall’esigenza di riutilizzare gli edifici per nuove attività. Per farlo, li dobbiamo riorganizzare inserendo bagni e impianti, rendendo accessibili i piani superiori mediante un ascensore. Sembrerà banale dirlo, ma nessuno nel Rinascimento immaginava un edificio illuminato dalla luce elettrica, né garantiva un bagno riservato ai portatori di handicap.
La seconda sovrascrittura ha a che vedere con l’interpretazione. Quando restauriamo un edificio dobbiamo restituirne le parti mancanti, i colori, lo spazio degli ambienti, la loro sequenza. Per quanto il restauro voglia essere accuratamente filologico, ha sempre ampi margini di arbitrarietà. Un restauro scientifico, esatto e inappellabile non esiste e, così come avviene con la storia, ha bisogno con il tempo di essere rinterrogato, riorganizzato e rimesso in crisi.

Il restauro architettonico tra scrittura e sovrascrittura

Il restauro, visto in questa luce di sovrascrittura di un testo, può nascondere o può chiarire. Nasconde se crea confusione tra passato e presente. Chiarisce se il nuovo è inteso come una nota a pie’ di pagina, come una integrazione, come un commento, come un raffronto e anche come una sfida.
Nulla di originale. Cesare Brandi già molti anni fa aveva, e con maggiore profondità, svolto considerazioni simili. Ma con un messaggio che per l’architettura è stato travisato: quello della differenziazione, sempre e a tutti i costi, della parte restaurata dal resto dell’edificio. Paolo Marconi faceva notare gli assurdi di un approccio integralista brandiano: se cade una pezza di intonaco colorata, diceva, non si può risarcire l’edificio con un intervento a rigatino come se fosse un quadro prezioso. 
Se si ripara un intonaco, se si sostituisce una tegola, una grondaia o una trave ammalorata non ha senso evidenziarlo come se si trattasse di una sovrascrittura. È, infatti, una operazione di mantenimento della originaria scrittura; fa parte del destino dell’edificio, in qualche modo prevista e contemplata sin dalla sua nascita.
Il problema si pone quando l’intervento esce fuori dalla banalità della manutenzione ordinaria, quando possono subentrare due logiche, entrambe deliranti, opposte ma simmetriche: l’epifania del presepe e la sindrome da Indiana Jones.

Un restauro scientifico, esatto e inappellabile non esiste e, così come avviene con la storia, ha bisogno con il tempo di essere rinterrogato, riorganizzato e rimesso in crisi

L’insidia dell’effetto presepe nel restauro architettonico

È recente la notizia che lo stilista Brunello Cucinelli stia ricostruendo alcuni borghi umbri, ultimo quello di Castelluccio.
Sicuramente ci sarà un restauro accurato, si guarderanno fonti e documenti del passato, si tireranno fuori dagli archivi i disegni. Ma già possiamo, a priori, dire quale sarà il risultato. Castelluccio diventerà un presepe raffinato come già è stato per tanti Comuni dell’Umbria, della Toscana, delle Marche: tutti uguali, tutti meravigliosamente tranquillizzanti e stucchevoli. Tutti pensati come sacre rappresentazioni di una storia che non c’è mai stata.
Il presepe è infatti la ricostruzione immaginaria della storia: dove i pastorelli sono felici, gli animali non puzzano, non esistono contrapposizioni di interessi, tutto ci parla di armonia e felicità. Perché questo possa avvenire la sovrascrittura imposta dall’opera di restauro la si nasconde, la si confonde artatamente con il testo originale, per una scrittura finale armonica e a-problematica.  Sponsor culturale del presepe è la teoria del Dove era e come era. Cioè la teoria che il passato possiamo renderlo sempre presente, magari prendendoci qualche piccola licenza storica, ridisegnandolo alla maniera degli antichi.
Ovviamente, un simile atteggiamento può generare edifici e ambiti urbani qualitativamente diversi, a seconda dell’abilità e della cultura dei restauratori. Ci sono presepi più raffinati e altri più grossolani: c’è quello di Capodimonte, e quello dove non si esita a mettere personaggi con la faccia di Maradona e della Bellucci.
Possiamo anche aggiungere che in Italia si fanno i più bei presepi del mondo. Abbiamo restauratori abilissimi: se fossimo falsari di carta moneta, saremmo insuperabili. Ma, comunque, per quanto tecnicamente bravi siano i restauratori italiani, se guardiamo una città medievale toscana, ci appare tragicamente simile a una delle Fiandre o della Provenza. Negozi, ristoranti, spazi pubblici, standard dell’arredo urbano, norme edilizie sono gli stessi.

Fondazione Prada Milano Photo Alessandro Saletta and Agnese Bedini DSL Studio. Courtesy Fondazione Prada
Fondazione Prada Milano Photo Alessandro Saletta and Agnese Bedini DSL Studio. Courtesy Fondazione Prada

Gli archistar e la sindrome da Indiana Jones

Se il presepe è il risultato del Dove era e come era, la sindrome da Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta è il prodotto della cultura dell’archistar. Il quale, invece di nascondersi dietro il mito della scientificità del restauro, propone la propria interpretazione fantastica del passato, non esitando a mettere insieme frammenti che non hanno alcun motivo di stare insieme, se non per lo stupore generato dal racconto.
Occorre premettere che questi interventi spesso sono effettuati su immobili ottocenteschi e del primo Novecento, storici ma non di particolare interesse architettonico, come è avvenuto con la Fondazione Prada a Milano. In questo ex complesso industriale di 20mila mq a Largo Isarco, Rem Koolhaas recupera la vecchia fabbrica milanese lasciandone in piedi alcuni significativi lacerti. Il risultato è una macedonia di edifici moderni, ambienti vintage, memorie di archeologia industriale e una palazzina recuperata filologicamente ma rivestita in foglia d’oro. Uno snobismo che incarna bene la dialettica lusso-povertà del marchio Prada. Il risultato è un museo, verrebbe da dire: uno zoo della storia dell’architettura, perfetto per le esibizioni allestite da Salvatore Settis – con titoli quali Serial Classic e Portable Classic – in cui le citazioni colte ed erudite del moralista ambientale sono servite in salsa hyper-moderna. Dove il passato può essere sovrascritto dal presente ma allo stesso tempo è il presente che viene sovrascritto dal passato, con un gioco di riflessioni reciproche che annulla le differenze. Insomma un perfetto film da Indiana Jones.
Se la strumentazione da Arca perduta può essere divertente nella periferia milanese, diventa più problematica quando gli edifici hanno maggiore valore di testimonianza storica e architettonica. Mi riferisco per esempio all’intervento di David Chipperfield alle Procuratie Vecchie a Venezia. Dove l’architetto, sulla base di una sua visione particolare di classicità, confonde la sua scrittura rigorista con quella della preesistenza, generando un edificio nel quale diventa quasi impossibile individuare ciò che è dei veneziani e ciò che è del progettista britannico, ciò che era preesistente e ciò che è stato aggiunto successivamente.

Arata Isozaki & Andrea Maffei, Loggia degli Uffizi, Firenze. Courtesy AMA
Arata Isozaki & Andrea Maffei, Loggia degli Uffizi, Firenze. Courtesy AMA

Il restauro contemporaneo e la reversibilità

Legato con il concetto della sovrascrittura è quello fondamentale della reversibilità. Se il nuovo è chiaramente identificato e quindi separato dal vecchio, è possibile essere coraggiosi, lasciare spazio alla contemporaneità. Perché in qualunque momento, un restauro successivo potrebbe azzerare gli eventuali errori per ripartire.
Si è parlato in questi mesi dello scempio di Santiago Calatrava a Napoli. Ammettiamo che lo sia. Ma, se l’intervento è reversibile, il danno è limitato. Si potrebbe anche sostenere: meglio discoteca, se la discoteca è a termine, che presepe. In fondo abbiamo decine di migliaia di beni architettonici scarsamente utilizzati e qualche esperimento potrebbe essere interessante.
Occorre, poi, ricordare che viviamo in un’epoca di grandi numeri, a partire dai flussi turistici. Per gestirli occorrono interventi radicali. Si pensi per esempio alla sistemazione del Beaubourg, del Grande Louvre o della Gare d’Orsay a Parigi: anche se le singole opere possono lasciarci perplessi – e la Gare d’Orsay è a mio giudizio pessima – non si può non convenire che, senza, la situazione sarebbe stata molto critica.
E non si può non vedere come in Italia la situazione delle grandi strutture museali sia molto arretrata, per una eccessiva prudenza che, invece, potrebbe essere superata attraverso la logica degli interventi reversibili. Penso per esempio ai tempi lunghissimi degli Uffizi, dove ancora non ci si decide per una tettoia, o alla microscopica e tombale uscita delle Cappelle Medicee: un concorso che ha partorito un topolino, a forma di sepolcro. Mentre mi sembra interessante la nuova sistemazione del Vittoriano, anche se ogni volta che passo davanti all’ascensore di vetro che porta al belvedere, mi tappo gli occhi e mi dico: pazienza, tra dieci o venti anni questo orrore lo sostituiranno e faranno un concorso per affidarne il ridisegno a un bravo architetto.
Non è mio intento difendere i Predatori dell’Arca Perduta, ma sostenere che la soluzione non è neanche il presepe, il dove era e come era. E ricordare che noi una tradizione magnifica di intervento di restauro inteso come sovrascrittura ce l’abbiamo.

Particolare della galleria dei dipinti di Carlo Scarpa al Museo di Castelvecchio. Courtesy Archivio Carlo Scarpa Museo di Castelvecchio. Photo © Enzo Bassotto
Particolare della galleria dei dipinti di Carlo Scarpa al Museo di Castelvecchio. Courtesy Archivio Carlo Scarpa Museo di Castelvecchio. Photo © Enzo Bassotto

I grandi interpreti del restauro come sovrascrittura

È la tradizione di Carlo Scarpa, di Franco Albini, di Guido Canali, di Andrea Bruno, di Franco Minissi e in parte di Ignazio Gardella e di BBPR.
Carlo Scarpa, in particolare, ci ha mostrato che si può fare opera di buona reinterpretazione anche attraverso interventi minimali. Come al museo di Castelvecchio quando colloca la statua di una Madonna in modo da privilegiarne il retro che nel passato doveva essere nascosto: mettendo in evidenza la treccia di capelli e il panneggio; ne viene fuori una lettura originale della plasticità dell’opera. Tuttavia la statua può continuare a essere vista anche di fronte, in modo più convenzionale. È un insegnamento di buon allestimento e, per estensione, di un buon restauro rispettoso dell’opera.
Vi è poi una superba Crocifissione, sempre a Castelvecchio: dove i tre frammenti sono rimontati secondo una logica che forse non era quella originaria, ma che valorizza il dialogo tra le figure e i contrasti plastici e cromatici. Per cambiare interpretazione, basterebbe smontare e rimettere i reperti in un altro ordine formale. Operazione possibile, in teoria, anche se poi non la farà nessuno perché è difficile immaginare una sovrascrittura più efficace di questa inventata da Carlo Scarpa. 
Ecco il vero significato della reversibilità: quando la sovrascrittura è satura di valore interpretativo, chiaramente individuabile, sempre rimuovibile. Con la sicurezza di non provocare danni definitivi, si può sperimentare senza eccessive inibizioni. Ritrovando e rinnovando – si spera – quel coraggio che avevano negli Anni Cinquanta e Sessanta i maestri che fecero grande l’architettura italiana.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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