Da Schopenhauer a Warhol: la storia delle Brillo Box

Prende le mosse da una delle opere chiave di Schopenhauer questo viaggio pindarico tra filosofia, arte, imitazione, significato e realtà. Ma dov’è il confine? E, soprattutto, Warhol aveva previsto ogni cosa?

Dal cimitero di Francoforte, dove Schopenhauer riposa, si odono lamenti spaventosi ora che ci accingiamo a sintetizzare in poche, discutibili, righe parte del pensiero del sommo filosofo. Il mondo è una rappresentazione, il mondo è sogno e illusione, il mondo è solo fenomeno, una copia; la realtà si nasconde dietro la apparenza, la realtà è la cosa in sé, la Idea platonica, il noumeno di Kant, il cavallo (fenomeno) e la Idea del cavallo (noumeno) ‒ Platone, Kant e Schopenhauer avranno, forse, pietà di noi. Il mondo è la “mia” rappresentazione, ovverosia è l’oggetto per il soggetto. Tutte le rappresentazioni sono oggetti del soggetto, tutti gli oggetti sono rappresentazioni. Ma il mondo è anche volontà, che conosciamo attraverso il corpo. La volontà, “quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno” è “l’unica conoscenza che abbiamo dell’intima essenza del mondo”. In quanto “cosa in sé”, la volontà è l’essenza sia del mondo sia dell’individuo. La volontà precede la rappresentazione e, contrariamente a quest’ultima, è libera dallo spazio, dal tempo e dal caso. La volontà trascina l’individuo in una tendenza infinita verso l’esistenza, scevra di ragioni o scopi e quindi, sottende l’ilare filosofo, inutile, illusoria, insulsa e vana. La rappresentazione, tuttavia, può essere considerata a sua volta libera da tempo, spazio e caso, nell’oggetto dell’arte. L’arte è l’autocoscienza pura della volontà, l’oggettivazione della volontà nelle idee platoniche, colte dalla metafisica dell’arte. Le idee, anzi: le Idee, che determinano i fenomeni e restano al di fuori della rappresentazione, vengono colte mediante la intelligenza (il filosofo la definisce “genio”) presente, in differenti misure, sia in chi realizza l’opera d’arte, sia in chi la capisce e la apprezza.
Per Schopenhauer il vertice delle arti è la musica, ma qui siamo nelle arti visive e il discorso dedicato al pensiero del leggendario Arthur è sostanziale per capire a fondo le molteplici e straordinarie configurazioni delle famose scatole di spugnette abrasive, in lana d’acciaio insaponata, atte a pulire piatti e far brillare molto velocemente le pentole in alluminio (shines alluminium fast), marca Brillo.

DALLE BRILLO SOAP PAD A WARHOL

Nel 1963 la Brillo Manufacturing Company di New York commissiona a James Harvey (un artista della seconda generazione dell’Espressionismo Astratto che, per sbarcare il lunario, faceva il grafico pubblicitario) la grafica delle scatole delle sue pagliette in acciaio saponato, le Brillo Soap Pad. Harvey realizza un progetto di qualità, utilizza i colori della bandiera americana (bianco, rosso e blu), sistema la parola “Brillo” composta in allegri caratteri bastone (ossia senza “grazie”) bicolori ‒ blu le consonanti, rosse le vocali ‒ in una zona bianca che scorre come un fiume tra due forme curvilinee rosse che evocano bandiere al vento; spiega cosa sono (soap pads, tamponi saponati, pagliette da noi), dice che non arrugginiscono (with rust resister), che sono una novità (New!), che fanno brillare l’alluminio al volo. Harvey disegna il cartone (Box) che contiene 24 scatole king size di pagliette Brillo.
I disegni di progetto di Harvey sono custoditi alla Yale University Art Gallery. Nel 1964 la Stable Gallery di New York (tutt’altro che una stalla, ma una delle gallerie d’arte più eleganti della città che non dorme mai) pare essere trasformata in un magazzino della Esselunga, niente mobili, solo file di scatoloni e scatole accatastate in relativo ordine: Kellogg’s, Heinz, Del Monte, Brillo. Lo scopo di Andy Warhol e dei suoi pard era creare scatole che assomigliassero il più possibile a quelle in commercio. Erano fabbricate in falegnameria, seguendo le istruzioni dell’artista, i cartoni reali erano fotografati, le etichette venivano serigrafate a colori sulle scatole di legno dipinte di bianco, le scatole erano perfettamente uguali a quelle che chiunque poteva acquistare nel supermercato sotto casa. Gerard Malanga, assistente di Warhol, le definì “fotografie tridimensionali”.
Una leggendaria fotografia di Fred McDarrah ritrae Warhol alla Stable Gallery, nel 1964, tra le Brillo Box: Andy ci guarda sornione, è in piedi, pare il magazziniere.
Ora: quale è la differenza tra le scatole Brillo di Warhol che valgono milioni di dollari e le scatole Brillo della Brillo MFG.CO di Brooklyn, New York? Le scatole della Factory erano di legno serigrafato, quelle industriali di cartone ondulato, quelle della Brillo contenevano le pagliette, quelle della Factory no, ma se anche fossero state inzeppate di 24 scatole di pagliette sarebbero ugualmente rimaste un’opera d’arte, chi avrebbe potuto distinguere tra prodotto industriale e opera d’arte? Nessuno, erano identiche.
Dunque, la differenza, non essendo visibile, ha da essere invisibile, non nel senso della presenza o della assenza delle pagliette nella scatola, o del legno versus cartone, ma in una logica indipendente dalla percezione visiva, vale a dire avere un significato che, nel caso dell’arte, è rappresentare un significato. L’acutissimo Arthur Danto scrive che “nel caso dell’opera d’arte il significato prende corpo nell’oggetto che lo trasmette”; le opere d’arte sono significati che prendono corpo, sono le caratteristiche non visibili che permettono a un oggetto di diventare arte.

Arthur C. Danto, Che cos'è l'arte

Arthur C. Danto, Che cos’è l’arte

DA WARHOL A MIKE BIDLO

E qui ritorna Schopenhauer: la rappresentazione, che è prigioniera del tempo, dello spazio e del caso, si libera dei lacci nell’oggetto dell’arte, l’arte è l’autocoscienza della volontà. La volontà, “quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno”, è “l’unica conoscenza che abbiamo dell’intima essenza del mondo”.
Warhol avrà avuto in mente tutto ciò, o qualcosa di analogo, nel realizzare una delle opere d’arte più influenti, geniali e importanti del contemporaneo? Probabilmente no. Una giornalista, alla vernice alla Stable Gallery, gli chiese: “Andy, un portavoce del governo canadese ha dichiarato che le tue Brillo Box non possono essere descritte come sculture originali. Sei d’accordo?”. Warhol rispose nel suo classico finto modo naif: “”. “E perché sei d’accordo?”, riprese la giornalista. “Beh, perché non sono originali” (risposta diabolica che richiede un piccolo sforzo cerebrale per essere compresa completamente).
Il bel lavoro di Harvey, il Brillo Box commerciale, è una intelligente ed efficacie celebrazione grafica del prodotto, il Brillo Box di Warhol dà corpo alle scatole, le denota, le significa, esattamente perché sono identiche. L’arte sta sempre a una certa distanza dalla realtà.
Ma non è tutto, da James Harvey nel 1963 a Andy Warhol nel 1964, arriviamo a Mike Bidlo, artista concettuale / citazionista americano, noto per le serie Not, tra cui Not Franz Kline, Not Man Ray, Not Guernica, Not de Chirico, Not Kline [Yves, N.d.R.] e molti altri Not. Bidlo nel 2005 espone il suo Not Warhol (Brillo Boxes 1964). Sono scatole di pagliette Brillo esattamente identiche a quelle create da Warhol, a loro volta esattamente identiche a quelle della ditta Brillo.

Andy Warhol, Brillo Boxes. Photo Suzi Kim (via Unsplash)

Andy Warhol, Brillo Boxes. Photo Suzi Kim (via Unsplash)

IL CASO PONTUS HULTÉN

Il carosello lisergico delle scatole Brillo si chiude in modo spettacolare con il celeberrimo critico e curatore Pontus Hultén, primo direttore del Centre Pompidou, organizzatore di mostre epiche, direttore del Moderna Museet di Stoccolma. Pontus, che aveva organizzato una grande mostra dedicata a Warhol nel 1968 (appunto al Moderna Museet), nel 1990 fece realizzare da alcune falegnamerie e da un tipografo di Malmö 105 Brillo Box, esattamente identiche a quelle di Warhol, presentandole come donazione di una collezione privata, riconosciute da Warhol come opere proprie nel 1968, in occasione della citata mostra e autenticate da Pontus stesso. Peccato che Warhol fosse morto nel 1987, tre anni prima della azione dadaista di Hultén. Le scatole erano false, Warhol non le aveva, ovviamente, riconosciute come sue, e false erano pure le autentiche. Pontus è morto nel 2006, prima di essere sospettato, il dubbio iniziò a palesarsi nel 2007, a Brillo vendute (non si sa quante, a volte si sa a quanto). Ma quanto erano false e quanto erano vere le scatole Brillo di Hultén?
Dunque, abbiamo quattro diverse scatole uguali di Brillo, quattro diversi significati, anzi Significati.
Quando informarono Harvey (il creatore originale) della operazione di Warhol, il pittore/grafico andò su tutte le furie: “Andy is running away with my box!”, ma alla fine, con classe e sense of humor, disse: “What’s one man’s box, may be another man’s art”.
Chi più ha contribuito alla (giusta) beatificazione dell’opera di Warhol, Jean Baudrillard, ha scritto (ne Il complotto dell’arte): “So bene che fra qualche secolo non ci sarà alcuna differenza tra una autentica villa pompeiana e il Museo Paul Getty di Malibu, né tra la Rivoluzione francese e la sua commemorazione olimpica a Los Angeles, ma noi viviamo ancora in questa differenza”.
Speriamo si sbagli, comunque non lo sapremo mai e, sì, noi viviamo ancora in questa differenza.

Stefano Piantini

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Stefano Piantini

Stefano Piantini

Stefano Piantini (Venezia, 1956). Laureato alla Università Bocconi (1980). Editore Incaricato di Electa SpA, membro del CdA di Electa, Electa Umbria, Electa Napoli, Arnoldo Mondadori Arte, Membro del Comitato Direttivo del Gruppo Elemond (1982-1996) Assistente al Presidente del Touring Club…

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