Non solo musica. A Roma la mostra sull’arte di Bob Dylan

È un Bob Dylan meno conosciuto il protagonista della mostra al MAXXI di Roma, che riunisce i lavori pittorici, scultorei e video del menestrello del rock

Anche quando impugna la matita per fermare su carta un frammento di realtà che incrocia il suo sguardo, o quando si confronta con un grande quadro che cerca la bellezza nei luoghi dimenticati d’America, Bob Dylan (Duluth, 1941) sa rappresentare la condizione umana. Arriva a Roma, dopo l’esordio a Shanghai nel 2019 e la tappa a Miami nel 2021, la mostra che invita a scoprire un aspetto inedito del cantautore americano, qui nel ruolo – assunto con il mix di lucidità e lirismo che gli è proprio ‒ di disegnatore, pittore e scultore. Icona trasversale della cultura contemporanea, Dylan è un narratore dei nostri tempi, capace di comunicare in modo comprensibile a tutti, con quel linguaggio transgenerazionale che gli è valso il Nobel per la letteratura nel 2016, e prima ancora l’aura di artista leggendario. Retrospectrum, il progetto espositivo curato da Shai Batel che si visita al MAXXI fino al 30 aprile, non fa che confermarlo, svelando però il Bob Dylan affascinato dalle arti visive, in quanto prolifico strumento di creatività per rielaborare osservazioni, spunti, riflessioni appuntati con costanza durante i suoi viaggi.

Bob Dylan, portrait. Credit William Claxton

Bob Dylan, portrait. Credit William Claxton

L’AMERICA DI BOB DYLAN

Nel campo visivo – dell’artista che osserva per cogliere la verità del quotidiano, e dello spettatore che sta davanti alle sue opere – c’è innanzitutto l’America, che cattura l’attenzione del musicista sin dalle prime trasferte, cominciando dal tragitto che dal Minnesota conduce a New York, quando negli Anni Sessanta, agli albori della sua carriera, Dylan si allontana dalla cittadina di Duluth per approdare al Cafe Wha?, nel Greenwich Village. Il ricordo di motel e tavole calde incontrate nel bel mezzo del nulla, luna park abbandonati, strade che tagliano deserti e skyline maestosi, che immortalano invece l’energia respirata nella grande città, restituisce un ritratto complesso del paesaggio americano, ma anche dei gesti e delle abitudini di chi lo abita. E c’è spazio per la Route 61, la Blues Highway che dal Minnesota, scendendo verso sud, porta a New Orleans, città natale del jazz, che per Dylan sarà profonda fonte di ispirazione. Alla città della Louisiana, non a caso, è dedicata una delle otto sezioni tematiche che scandiscono la visita tra le sale della Galleria 5 del museo romano.

Bob Dylan, Marlboro Man, 2021

Bob Dylan, Marlboro Man, 2021

BOB DYLAN E LE ARTI VISIVE

Sono oltre cento le opere esposte, tra dipinti, acquerelli, disegni a inchiostro e grafite, sculture in metallo, video. Gran parte della produzione è riconducibile a un arco temporale che dall’inizio degli Anni Duemila conduce a oggi: a 81 anni, Bob Dylan non ha smesso di esercitare la propria creatività con l’obiettivo di continuare a lavorare sulla lettura della realtà, e con l’approccio di un “uomo del Rinascimento” – prendendo in prestito le parole del curatore Batel – per la capacità di esprimersi in modo versatile, sempre chiaro e comprensibile, come le opere in mostra certificano. E meticoloso è l’esercizio, inteso come costante predisposizione all’osservazione e all’ascolto, con cui Dylan si confronta con la pratica artistica, dettata dall’urgenza di mettere l’accento su ciò che merita di essere raccontato, e può trovarsi ovunque. L’ispirazione, oltre che da fonti letterarie e artistiche piuttosto manifeste quali Hemingway e Hopper, arriva dal contesto familiare ‒ come per le sculture in ferro raccolte nella sezione Ironworks, legate al ricordo dell’infanzia vissuta nella zona mineraria del Nord del Minnesota – da luoghi e incontri – come per la serie di schizzi realizzati durante le tournée in America, Europa e Asia tra ’89 e ’92, poi tradotti in dipinti ed esposti nella sezione The Drawn Blank – da copertine iconiche di celebri riviste (con il progetto Revisionist), da film cult che ispirano il lavoro condotto durante la pandemia (la sezione si intitola Deep Focus, dall’omonima tecnica cinematografica).

Bob Dylan, Red Sunset, 2019

Bob Dylan, Red Sunset, 2019

BOB DYLAN TRA PAROLE E IMMAGINI

Il linguaggio elaborato è efficace specialmente quando Dylan lavora sulla connessione tra parole e immagini, come illustra il “capitolo” Mondo Scripto, che raccoglie alcuni testi di celebri canzoni dell’autore, da lui personalmente trascritti e associati a disegni a grafite, che riassumono visivamente il messaggio. Del resto, già nel ’65, Bob Dylan presentava al mondo il primo video musicale della storia – Subterranean Homesick Blues –, mostrandosi intento a far cadere una serie di fogli ‒ sfogliati uno dopo l’altro assecondando l’andamento della musica ‒ su cui la sera precedente un gruppo di amici aveva trascritto il testo della canzone. Nel 2018, Dylan ha riscritto il testo su 64 cartelli, che insieme al video sono presenti in mostra, ed entreranno a far parte della collezione permanente del MAXXI, per concessione dell’artista.

Livia Montagnoli

Bob Dylan, Retrospectrum, installation view at MAXXI, Roma, 2022 ®MusacchioIannielloPasqualiniFucilla

Bob Dylan, Retrospectrum, installation view at MAXXI, Roma, 2022 ®MusacchioIannielloPasqualiniFucilla

LA LUNGA LIAISON TRA MUSICA E ARTE

La storia del rapporto che lega la musica alle arti figurative ‒ tra effigi di Santa Cecilia, simulacri della musa Euterpe, strumenti musicali che sono vere opere d’arte, melodrammi che hanno per protagonisti pittori e scultori e ritratti che ci restituiscono le fattezze di musici e compositori ‒ è una storia sterminata. In questo breve spazio non è possibile isolarne che un paio di momenti, che vorrebbero essere rappresentativi di quanto tale rapporto sia multiforme.
A Firenze, nel portico della chiesa di Santa Felicita, quella famosa per l’inarrivabile Deposizione di Pontormo, proprio al di sotto della porzione di Corridoio Vasariano che intercetta il tempio, si eleva il monumento funebre di Arcangela Paladini, che morì a 26 anni nel 1622. Nella sua breve vita la donna fu artista poliedrica: divenne nota soprattutto come cantante, ma fu abile anche come ricamatrice e pittrice. E in effetti doveva trattarsi di un’artista di valore, come attesta l’unica sua opera pervenutaci, un autoritratto agli Uffizi che colpisce per la grande forza, per la consapevolezza di sé che emana dallo sguardo penetrante della ragazza. Con enfasi barocca l’epitaffio ci dice quanto fu valente, e si chiude con l’invito a cospargere di rose il suo sepolcro (“SPARGE ROSIS LAPIDEM, COELESTI INNOXIA CANTU / TUSCA IACET SIREN, ITALA MUSA IACET”: “spargi di rose la lapide, innocente con il suo canto celeste giace la sirena toscana, giace la musa italica”). Ai lati del sarcofago, su cui si eleva il bel busto della defunta, siedono le raffigurazioni della Pittura e della Musica, entrambe sconsolate per la perdita precoce di una artefice che prometteva molto in entrambi i campi. Commovente è il fatto che capita spesso di trovare sulla tomba un mazzo di rose rosse, lasciato da qualcuno che raccoglie pietosamente l’esortazione lanciata nell’epigrafe sepolcrale.
Lasciamo la Firenze d’inizio Seicento per venire a tempi a noi assai più vicini, anche se quello di cui si sta per parlare ha già un sapore di antico, vista la rapidissima evoluzione del modo in cui ci si “ciba” di musica, in direzione di una fruizione sempre più slegata da supporti materiali. L’incontro di grandi opere d’arte e grafici di prim’ordine ha dato vita a bellissime copertine di vinili e cd. Pensiamo ad esempio ad alcune mitiche collane di musica antica e barocca, come Galleria della Archiv Produktion, Das Alte Werk della Teldec, Florilegium de L’Oiseau-Lire. Ma anche la musica cosiddetta leggera ha attinto a piene mani dalle arti per le copertine dei propri supporti: arte contemporanea, talvolta nata con questa destinazione (l’esempio più celebre è naturalmente la banana di Andy Warhol per i Velvet Underground), ma anche arte del passato. Sulla copertina di uno degli album che hanno fatto la storia del rock, Mellon Collie and the Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins (1995), spunta fuori da una stella la Santa Caterina di Raffaello (Londra, National Gallery), riveduta e corretta. O meglio, sul corpo della santa raffaellesca è innestato il volto della fanciulla protagonista di un altro dipinto londinese, di quasi tre secoli successivo, “Il ricordo” di Jean-Baptiste Greuze. Un incrocio che a leggerlo così potrebbe sembrare avventato, e che invece funziona, a dare un’espressione indimenticabile alla “tristezza infinita” celebrata nell’album.

Fabrizio Federici

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #32

Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua 
inserzione sul prossimo Artribune

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati