Il restauro architettonico tra equivoci e interpretazioni personalistiche

Si anima il dibattito sugli obiettivi e le dinamiche del restauro architettonico, avviato su Artribune da Luigi Prestinenza Puglisi. Ecco la risposta dell’architetto Riccardo Dalla Negra

La visione del restauro di Luigi Prestinenza Puglisi, che ha trovato spazio su questo sito, parte da due presupposti non condivisibili: quello di ritenere il restauro una ‘sovrascrittura’ e quello di assimilarlo alle opere relative agli adeguamenti funzionali (anche prestazionali).

Il restauro non è un atto interpretativo

Analizziamo. Viene affermato che il restauro è sostanzialmente un atto interpretativo, giacché i margini di arbitrarietà sono sempre molto ampi. Tale atto “può nascondere o può chiarire” a seconda che riesca a mimetizzarsi oppure a rendersi noto; ed ecco l’inevitabile richiamo a Brandi o meglio ai plurimi tentativi di traduzione dei principi brandiani in termini di restauro architettonico. Lo studioso, a questo punto, cita Paolo Marconi nel suo deciso allontanamento dal meccanico trasferimento delle metodiche del restauro pittorico (rigatino, tanto per esemplificare) in contesti architettonici dove il concetto di autenticità si fa più debole a causa del susseguirsi, nel corso del tempo, di interventi manutentivi o sostitutivi. Chi abbia contezza dell’articolata dialettica disciplinare, passata e presente, si rende conto dell’estrema semplificazione argomentativa (magari dovuta alla necessità di sintesi editoriale) perché, fermo restando che il restauro “finisce dove ha inizio l’ipotesi” (concetto confluito nella Carta di Venezia del 1964), il conflitto teorico si svolge tra due concezioni conservative: il rispetto dell’autenticità della materia contrapposto al rispetto dell’autenticità della forma. Il restauro, quindi, non è una ‘sovrascrittura’, ma semmai la traduzione operativa di queste concezioni che possono portare a esiti diametralmente opposti.   

Chiesa di San Domenico, Forlì. Allestimento della mostra Ulisse, 2020. Photo Sailko via Wikipedia, CC BY-SA 4.0
Chiesa di San Domenico, Forlì. Allestimento della mostra Ulisse, 2020. Photo Sailko via Wikipedia, CC BY-SA 4.0

Il rischio di riscrivere l’architettura

Questi temi vengono assimilati dallo studioso, forse un po’ troppo frettolosamente, a interventi manutentivi, al di là dei quali si aprirebbero due scenari: il presepe o la sindrome da Indiana Jones.
Per presepe il critico intende una “ricostruzione immaginaria della storia” esemplificata nelle innumerevoli ricostruzioni post-sisma di tanti borghi italiani (lui se la prende con Brunello Cucinelli i cui recuperi sono oggettivamente ‘stucchevoli’) che hanno seguito la strada del dov’era e com’era, salvo rendersi conto che il com’era è solo apparente, basato cioè solo sul recupero di un’immagine più che di una sostanza muraria, e dunque di una sostanza architettonica. Non gli si può dare torto.  
La sindrome di Indiana Jones, o meglio dei “Predatori dell’Arca Perduta”, si sostanzierebbe nella “interpretazione fantastica del passato” operata, tanto in contesti modesti sul piano testimoniale (Fondazione Prada a Milano con Rem Koolhaas), quanto su quelli importanti (le Procuratie Vecchie di Venezia con David Chipperfield). Prestinenza Puglisi non li difende, ma si intuisce che preferisce la ‘trasformazione’ alla statica riproposizione dell’immagine consolidata, al tal punto da giustificare la ‘sperimentazione’ di Santiago Calatrava nella Chiesa di San Gennaro nel Real Bosco di Capodimonte, con la sua volgare e sgrammaticata riscrittura dell’architettura di Ferdinando Sanfelice.
Mi permetto di sottolineare che i due scenari, urbano da un lato e in contesti di edilizia specialistica dall’altro, sono difficilmente parametrabili.

Fondazione Prada, Milano. Foto Delfino Sisto Legnani, DSL Studio
Fondazione Prada, Milano. Foto Delfino Sisto Legnani, DSL Studio

Restauro architettonico: l’equivoco tra allestimento e contenitore

Qual è, dunque, la strada alternativa secondo Prestinenza Puglisi? Quella che si inserisce nel solco della tradizione di Carlo Scarpa, Franco Albini, BBPR, Ignazio Gardella, Franco Minissi o, più recentemente, di Andrea Bruno e Guido Canali. C’è da fare una premessa: la maggior parte degli interventi di allestimento annoverati furono eseguiti negli Anni ’50 e ’60 dello scorso secolo, quando la soglia di attenzione verso l’architettura storica era infinitamente più bassa. Castelvecchio a Verona, il Palazzo Rosso a Genova, il Castello Sforzesco a Milano, gli stessi Uffizi a Firenze furono oggetto di pesanti manomissioni per poter accogliere questi allestimenti museografici (vere e proprie sovrascritture architettoniche condotte da grandi maestri italiani). Riproporli oggi come modelli operativi mi sembra azzardato.
Come accennato all’inizio, si perpetua un doppio equivoco che confonde da un lato il restauro con la ristrutturazione (anche per sovrascrittura) e dall’altro con gli interventi conseguenti alla destinazione d’uso sia essa nuova o semplicemente adeguata sul piano prestazionale. Certamente concordiamo con lui quando afferma che l’uomo del Rinascimento non avrebbe immaginato di illuminare gli edifici con la luce elettrica e anche quando asserisce che siano legittimi gli adattamenti agli standard di vita contemporanea (persino i ruderi non hanno pace dal momento che ci ostiniamo a volerli visitare in tutti i modi possibili e immaginabili). Tuttavia il progetto di restauro, che nel suo divenire si esprime in termini critici e creativi proprio perché appartiene al grande territorio dell’architettura, si ferma alla valutazione delle vocazioni d’uso in base alle potenzialità offerte dalle preesistenze (non già in relazione alle volontà del politico di turno) e non prosegue negli allestimenti (anche nel caso siano condotti dallo stesso progettista). È un errore teorico, sostenuto anche da una parte della Disciplina, considerarli alla stregua di ‘restauri contemporanei’. Il che non vuol dire che non possa essere utilizzato il linguaggio contemporaneo per chiudere eventuali lacune del testo architettonico altrimenti non risolvibili: ci sono ottimi esempi in questa direzione (si veda ad esempio la reintegrazione testuale della Chiesa di San Giacomo a Forlì di Gabrio Furani).
L’invito che faccio sempre, anche in presenza di interventi ritenuti molto raffinati (si veda il riallestimento del museo del Duomo di Milano di Guido Canali), è di distogliere lo sguardo dagli allestimenti e di osservare cosa sia accaduto al ‘contenitore’ (orribile definizione che continua a essere adoperata per l’edilizia storica quando se ne decide il suo riutilizzo): si scopre tanta polvere nascosta sotto il tappeto.
Sfatiamo, infine, il mito della ‘reversibilità’ di questi interventi, spesso sbandierata come connivente paravento; essi, non fosse altro che per gli enormi carichi tecnici e tecnologici che comportano, lasciano sempre ‘incisioni’ profonde o addirittura ferite nel testo architettonico: sta alla consapevolezza del progettista (e al suo solido bagaglio storico-critico) minimizzarne l’impatto.  
Del resto, anche nei restauri architettonici la reversibilità è un mito da sfatare, conseguenza di una visione letteraria del restauro e, dunque, dell’architettura.   

Riccardo Dalla Negra

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