Che cosa vuole la Chiesa di Papa Francesco dagli artisti?

Dal considerare l’artista un profeta al vedere l’arte come terreno fertile per la continua emersione del nuovo. Abbiamo chiesto a don Giuliano Zanchi, docente di Teologia, esperto di estetica e storia dell’arte, di spiegarci il discorso del Papa

Alcuni passaggi del discorso tenuto il 23 giugno da Papa Francesco ai 200 artisti convenuti nella Cappella Sistina meritano senza dubbio di essere approfonditi. La prolusione letta in 15 minuti poi riprodotta per intero sui media vaticani e rilasciata su YouTube è irta di riferimenti non sempre facili da cogliere nel loro insieme. Nel 1964 Paolo VI pronunciava un’omelia per la Messa degli artisti tenutasi anche quella volta nella Cappella Sistina. Montini è ricordato come una figura dai gusti raffinati, un intellettuale che in quel caso si rivolgeva ad altri intellettuali. Dopo di lui anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si sono sentiti in dovere di replicare quel primo gesto di attenzione. Ma la mossa di Bergoglio risultata più inaspettata.

Papa Francesco, 2023 © Vatican Media

Papa Francesco, 2023 © Vatican Media

IL DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AGLI ARTISTI

Si sa che al centro dell’attenzione di questo gesuita di origini latinoamericane stanno da sempre i poveri, gli ultimi, quelli colpiti più duramente dalla vita, e difatti anche in questa occasione in cima e in fondo al suo discorso sono stati questi a essere indicati come “target” della missione artistica. Francesco, in ogni caso, ha disegnato la figura dell’artista contemporaneo come dotato di una serie di caratteristiche che nel suo discorso vengono assimilate a doni da mettere a frutto: il dono della profezia assimilabile al sogno di un futuro migliore, quello di essere portatori di novità anche un po’ disturbanti perché non assimilabili allo status quo; meglio ancora se queste ultime sono condite da un’ironia spiazzante e in grado di scuotere le rigidezze di saperi specializzati fini a se stessi.
Tra le righe del testo diffuso dal Papa appaiono una quantità di riferimenti, non solo a testi sacri – Isaia (43,19), l’Apocalisse (21,5) – ma pure a pensatori del XX secolo tanto credenti quanto distanti dalla dottrina ufficiale della Chiesa. È dunque a don Giuliano Zanchi che ci siamo rivolti per comprendere meglio il significato delle parole del Papa. Zanchiè docente di Teologia presso l’Università Cattolica di Milano e direttore scientifico della Fondazione Adriano Bernareggi. Per la rivista Arte Cristiana si occupa spesso di estetica e storia dell’arte. Tra gli ultimi suoi libri pubblicati c’è l’intrigante Un amore inquieto. Potere delle immagini e storia cristiana (2020). Studioso appassionato, lo si è visto in azione come curatore più o meno nascosto degli interventi effettuati da Arienti, Ferrariofréres e Mastrovito nella chiesa dell’Ospedale Nuovo di Bergamo (2018), nella cappella istoriata da Andrea Mastrovito presso il Foyer Catholique di Bruxelles (2022), ma si devono pure alla sua cura le incursioni effettuate da Kounellis (2009), Mastrovito (2011) e Parmiggiani (2014) nell’ex oratorio di San Lupo a Bergamo.

Giuliano Zanchi, Un Amore inquieto, EDB, 2020

Giuliano Zanchi, Un Amore inquieto, EDB, 2020

INTERVISTA A GIULIANO ZANCHI

Francesco cita Romano Guardini per evocare la figura dell’artista-veggente. Perché proprio questo teologo italiano di cultura tedesca quasi sconosciuto ai più?
Sconosciuto ai più, ma molto noto nella cultura e nella teologia cattolica, anzi imprescindibile per comprendere l’estetica religiosa. Guardini ha occupato per decenni all’Università di Berlino la cattedra di Weltanschauung cattolica (così era definita), presentando la prospettiva cristiana nel suo intreccio con la letteratura, la poesia e le arti visive. Nel castello di Rothenfels, sul Meno, è stato un carismatico formatore dei giovani cattolici nei decenni fra le due guerre, contendendo l’influenza sui giovani della politica nazista, che alla fine ha prevalso facendo chiudere il movimento di Guardini. Con l’architetto Rudolph Schwarz ha posto le basi delle riflessioni sul rapporto fra architettura e liturgia (che sono state di riferimento per la riforma liturgica del Concilio Vaticano II) e la vitalità del secondo Novecento in tema di architettura per il sacro. La citazione del Papa è colta dal suo L’opera d’arte (1965), per allora opera molto innovativa perché Guardini, con qualche libertà anche rispetto alla visione di altri cattolici come Maritain, partiva dalle condizioni antropologiche del fatto artistico, per indicare l’apertura spirituale come un dato di base dell’arte. Non a caso la citazione assimila l’artista al veggente, ma anche al bambino, che sono due archetipi universali della rivelazione e dell’ispirazione che sboccia in modo improvviso e spiazzante. Insomma, Guardini è quello che ha traghettato il discorso cristiano sull’arte da una visione essenzialista a una più esistenziale: un piano più favorevole per continuare a vedere, anche nella modernità, la reciproca familiarità fra potere dell’arte e senso religioso.

Romano Guardini, L'Opera d'Arte, Morcelliana, 2022

Romano Guardini, L’Opera d’Arte, Morcelliana, 2022

 
Intorno al concetto di “novità” Francesco cita addirittura Hannah Arendt filosofa di origine ebraiche nota per i suoi scritti di natura politica.
Hannah Arendt nel 1965 scrisse un articolo intitolato Il Papa cristiano, ispirato alla figura di Giovanni XXIII, morto due anni prima. È un testo pieno di ammirazione per un pontefice che aveva saputo mostrare nella semplicità e nell’immediatezza l’essenza dello stile cristiano. Le sue origini ebraiche e anche la sua prospettiva marxista sono le basi di un resistente umanesimo che rimane lo sfondo essenziale delle sue acute analisi politiche. In alcuni passaggi di Vita activa, dove (forse in dialettica con il concetto di “essere-per-la-morte” di Heidegger?) Arendt indica lo specifico dell’essere umano nel fatto di portare nel mondo il nuovo e l’unico, l’inedito e l’irripetibile. Arendt usa addirittura la parola “miracolo”. Per lei il proprium dell’essere umano è quello di introdurre nel mondo uno scarto, una variabile, una irripetibilità. Nel contesto di una cultura iperscientifica dove ci viene continuamente intimato che essere veramente razionali significa accettare l’idea di essere totalmente predeterminati, quello della Arendt è un pensiero importante. Il Papa lo applica all’arte, che in qualunque declinazione si eserciti, resta l’ambito della continua emersione del nuovo.

Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, 1994

Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, 1994

IL RUOLO DEGLI ARTISTI PROFETI

Francesco cita persino Simone Weil, altra filosofa di origini ebraiche che ha dedicato la vita a descrivere quanto sia aleatorio ogni genere di verità sperimentale. La cita almeno apparentemente per allontanare ogni idealismo dal concetto di “bellezza artistica”. È davvero così?
Simone Weil è bellissima figura ponte. Sebbene di origine ebraica, ha meditato quasi tutta la vita in termini cristiani, ma decidendo di non voler oltrepassare la soglia della conversione, quasi a dichiarare una sorta di compatibilità a prescindere tra culture religiose diverse. In questo caso la citazione del Papa mi sembra voglia indicare come l’esperienza artistica mette in gioco la relazione inscindibile fra corpo e spirito, quel vincolo che chiamiamo sensibilità, per il quale quando veniamo toccati nel corpo (nello sguardo, nel tatto, nella percezione) veniamo trasformati nell’interiorità (nei pensieri, nell’identità, nel desiderio). Forse si sente anche il desiderio di sottrarre il discorso sulla bellezza artistica alle sue molte retoriche. Nella cultura contemporanea l’arte ha un rapporto con la bellezza quantomeno controverso, un po’ perché il termine “bellezza” era un vocabolo romantico, frutto di uno spiritualismo metafisico che non si ama più frequentare. Ma pure perché nell’attuale estetizzazione della realtà, la bellezza è ovunque, ma ha un carattere sostanzialmente cosmetico. L’arte contemporanea ha rifuggito a lungo questa bellezza come un nuovo oppio dei popoli. Francesco lo dice nel suo discorso: esiste anche una bellezza che va a braccetto coi sistemi del consumo e la rimozione del reale. Senza questa curvatura cosmetica della bellezza non si capiscono molti tratti specifici di quella che viene chiamata arte contemporanea. La quale si è data una missione di svelamento più che di abbellimento, sente molto la vocazione etica di non nascondere le contraddizioni che ci sono nella realtà.

Misterioso rimane il riferimento allo scrittore latinoamericano che Francesco utilizza per introdurre il concetto di “profezia”. Di chi si tratta?
Si tratta del guatemalteco Miguel Angel Asturias, una citazione ricorrente per Francesco. Il Papa ama molto la freschezza e l’immediatezza delle metafore poetiche. Questa dice che l’uomo ha due occhi, uno di carne con cui vede la realtà, e uno di vetro con cui sogna. Mi sembra un bel tema. Nessuno può abitare la realtà senza anche immaginare e sperare la sua giustizia. L’utopia serve in fondo a non accettare l’inferno a cui può portare un realismo radicalizzante. In questo il Papa assimila gli artisti ai profeti perché, anche quando in negativo mostrano la contraddizione delle cose, indirizzano lo sguardo su qualcosa che dovrebbe essere (anche se magari non è). L’arte vera non abbellisce artificialmente la realtà. Riaccende quei desideri che le sue contraddizioni rischiano di mortificare.

Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, 2008

Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, 2008

Ma in fine che cosa vuole il Papa dagli artisti?
Credo che il desiderio principale del Papa sia che gli artisti mantengano amicizia e stima con il mondo cristiano, un mondo assai ampio di cui quello ecclesiastico è solo la rappresentazione istituzionale. Francesco chiede di restare amici, ma si preoccupa soprattutto che l’arte resti interessata, a beneficio di tutti (non solo della Chiesa), alla dimensione religiosa dell’esistenza e alla condizione spirituale dell’uomo. Nell’essere trasparente testimonianza delle contraddizioni che abitano la condizione umana, nell’ultimo secolo l’arte ha dato anche l’idea di sposare una sorta di nichilismo radicale in cui tutto quello che ci resta sia meditare sul “nulla” come unico orizzonte del senso (la verità è brutta, diceva Nietzsche). Sono ormai cento anni che l’arte medita sulla crocifissione e il disfacimento dell’uomo. Un po’ troppo per tutti. Esiste anche un distacco del senso comune dall’arte contemporanea che non può essere sempre liquidato come ignoranza del popolino. Nel suo discorso il Papa sente gli artisti come suoi alleati quando smascherano le contraddizioni del mondo, specie l’ingiustizia sociale e i grandi rischi planetari. Ma tra le righe chiede loro anche di ricominciare a parlare bene dell’uomo, aprire orizzonti di speranza, tenere vivo il tratto spirituale che appartiene alla condizione umana. Non si tratta dunque solo di perorare una ripresa di antichi rapporti istituzionali che non rinasceranno mai. Mi sembra piuttosto abbia formulato un desiderio a nome delle donne e degli uomini di questo tempo, che chiedono speranza.

Aldo Premoli
 

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Aldo Premoli

Aldo Premoli

Milanese di nascita, dopo un lungo periodo trascorso in Sicilia ora risiede a Cernobbio. Lunghi periodi li trascorre a New York, dove lavorano i suoi figli. Tra il 1989 e il 2000 dirige “L’Uomo Vogue”. Nel 2001 fonda Apstudio e…

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