Lettera-manifesto sull’apocalisse culturale

Un'artista viene invitata a una mostra collettiva. Non c'è fee, non c'è produzione, non c'è trasporto, non c'è assicurazione, non c'è rimborso spese... nulla. Allora lei non declina ma risponde con una lettera e un poster. In mostra però non sono stati esposti, lo facciamo noi qui

I fatti, molto in breve, a mo’ di introduzione: come leggerete qui di seguito, EBC viene invitata a una mostra collettiva; quando poi scopre che non può accettare le condizioni poste, invece di rifiutare l’invito e basta decide di inviare, al posto delle opere richieste, questa lettera-manifesto su una situazione collettiva e condivisa degli artisti (che per lei è un indizio dell’“apocalisse culturale” in corso) e un poster. Che però non vengono esposti. La decisione e la scelta sono legittime, per carità: però forse potrebbero rappresentare un’occasione persa. Perché l’aspetto più interessante di tutta la faccenda mi sembra il fatto che questi due elementi – la lettera-manifesto e il poster – costituiscono un’opera, che a sua volta è concepita e realizzata come una reazione a qualcosa che accade, dunque come una forma di relazione. E, quindi, risponde implicitamente, in modo molto immediato, alla domanda che mi faccio da alcuni mesi, da alcuni anni: che cos’è un’opera? Che cosa fa di un’opera un’opera? Che cosa fa un’opera? (Christian Caliandro)

Emanuela Barilozzi Caruso, In lotta contro l'apocalisse culturale, 2022, poster 70x50 cm

Emanuela Barilozzi Caruso, In lotta contro l’apocalisse culturale, 2022, poster 70×50 cm

LA LETTERA-MANIFESTO DI EMANUELA BARILOZZI CARUSO

Ciao Collettivo Flock,
con il cuore in mano che scaglio contro il muro del silenzio e della sottomissione – principale obiettivo di questo Sistema – vi racconto perché non avete ricevuto Le Farfalle Non Vanno Spolverate e Senzazioni, due mie opere selezionate per il vostro evento espositivo SUMA, 19 e 20 agosto, Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Il manifesto inedito che vi mando in alternativa, dal titolo In lotta contro l’apocalisse culturale, lo reputo un personale antidoto-tentativo al veleno dell’interessato disimpegno imperante; una risposta materiale a chi continua a pensare che l’arte serva a evadere dalla realtà, a non pensare, a evitare il conflitto oramai sostituito da un perbenismo assassino.

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Mi avete invitata alla vostra collettiva di artisti siciliani poiché opero in Sicilia da due anni e mezzo. Non ci siamo mai conosciuti, neanche mai visti on line.
Mai ascoltate le nostre voci, mai confrontati, mai vissuti.
Mi avete scritto tramite mail.
Mi avete chiesto in visione il portfolio per scegliere un’opera disponibile. Ne avete selezionate due, grandi, costose e delicate.
/// Nonostante da tempo immemore si dia brutalmente per scontato – nella maggior parte dei casi – che gli artisti debbano fare il loro lavoro e portare avanti la loro ricerca senza sostegni economici (fee/produzione/studio/rimborso spese di viaggio/etc/etc), ho accettato l’invito ///
Mi avete informata del peggio solo alla fine: “Purtroppo essendo un’associazione no profit non riusciamo a coprire i costi di spedizione delle opere. Per tale motivo le spedizioni sono a carico dell’artista”.
Ma da nessuna parte del mondo, no-profit = senza soldi.
Per cui, o decidevo che era a carico mio il viaggio a/r fino a Barcellona, l’installazione e il pernottamento di chi mi avrebbe accompagnata, oppure la spedizione a/r, il rischio e l’assicurazione. Parliamo di una mostra della durata di nove ore complessive.
Infine, non sapendo nulla di me, mi avete “giustamente” chiesto le descrizioni dei lavori, da utilizzare per la comunicazione.
Immaginate di ricevere un invito a cena da una sconosciuta che vi invia dei messaggi premurosi e dettagliati. Che decidiate di accettare, perché no, a cuor leggero, e che alla fine scopriate di dover fare la spesa, cucinare, apparecchiare, sparecchiare e lavare i piatti. E di divertirvi a prescindere. E ringraziare a priori che qualcuno lo abbia fatto: vi abbia considerati e invitati.
Il Guardian tempo fa, in un triste e puntuale articolo dedicato alla classe operaia nell’arte, parlava della lotta e del sacrificio di artisti e operatori del settore che accettano condizioni di lavoro punitive, mossi solo da amore e passione irrazionali. Questo non è più sostenibile, non lo è mai stato. Ha già creato disuguaglianze di massa drammatiche tra l’arte legittima dei pochissimi, gli unici in grado di creare, sostenuti dalle loro forti capacità finanziarie (e favoriti da finanziamenti pubblici che continuano a dare loro la priorità) e l’arte dei tantissimi: indisciplinati, sperimentali, diversi e nuovi. Condizione che implica essenzialmente lavorare senza essere pagati nella speranza di essere notati. Questo è un modello di business che non può mai funzionare, “because we can’t create a masterpiece while living in poverty.” Una povertà anestetizzante.
Queste parole non sono contro di voi, ma contro questa diffusa logica di sterminio della fantasia, dell’interesse e dell’arte come rapporto.
Sono ferocemente contro un dichiarato atteggiamento privo di vitalità, autoreferenziale, piatto e religiosamente formale. Per non dire, no lo dico, patologicamente vuoto.
Le delusioni sono scientificamente in grado di fare una cosa sola: produrre odio e rabbia. E io mi rifiuto di essere il contenitore di questi sentimenti e mi ribello, perché un artista deluso fa arte deludente.
Regalandovi questo manifesto mi chiedo e vi chiedo: è possibile andare avanti in questo mondo in questo modo?
Intanto che ci pensate rispondo io: no.
Buon lavoro,

Emanuela Barilozzi Caruso

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