Thomas Dworzak, il fotografo che ha scovato un tesoro in Afghanistan

In mostra al SI FEST di Savignano sul Rubicone, Thomas Dworzak presenta un ritratto non convenzionale dei talebani. Ed è tutto merito di una scoperta casuale fatta in uno studio fotografico di Kandahar

Autore dei libri M*A*S*H* Iraq (2002) e Kavkaz (2010), il fotoreporter Thomas Dworzak (Bad Kötzting, 1972), membro effettivo dell’agenzia Magnum dal 2004 (ne è stato presidente dal 2017 al 2020), presenta la mostra Taliban alla 31esima edizione del festival SI FEST di Savignano sul Rubicone dal titolo Asinelli solitari (il direttore artistico è Alex Majoli).
Delimitati da piccole cornici rettangolari, su una parete al primo piano dell’edificio del Consorzio di Bonifica, gli studenti-guerrieri talebani appaiono alquanto diversi da come figurano nell’immaginario collettivo. Foto seducenti dal sapore rétro, esuberanti nei colori accesi del ritocco, inquadrano la messinscena: in posa negli studi fotografici di Kandahar, malgrado lo sguardo diretto e il kalashnikov sulle spalle, questi giovani uomini sembrano innocui. Anche per via dei fiori di plastica davanti a un fondale che qualche volta è quello di uno chalet alpino. Ma la fotografia, si sa, mente più spesso di quanto si possa immaginare.

Thomas Dworzak al Si Fest 2022. Ph Manuela De Leonardis

Thomas Dworzak al Si Fest 2022. Ph Manuela De Leonardis

INTERVISTA A THOMAS DWORZAK

Come nasce il progetto Taliban?
In realtà non è esattamente un progetto. Ero in Afghanistan con un assignement del New Yorker per seguire la situazione politica. Ero arrivato a Kandahar subito dopo la sua liberazione, la settimana dopo l’11 settembre e sono rimasto lì fino alla fine di dicembre. Mentre facevo il mio lavoro di fotoreporter ho scoperto i ritratti dei talebani in un paio di studi fotografici.

Cosa ti ha colpito di quelle immagini?
Prima di tutto il fatto che ci fossero delle foto dei talebani che fino a quel momento erano nemici invisibili, persone senza volto. Non si sapeva chi fossero. All’epoca ne avevo visto solo uno, morto e da lontano. Ma per una strana logica quelle stesse persone, nelle foto che ho trovato, apparivano come uomini belli, affascinanti, con i loro vestiti colorati e gli occhi truccati. Era esattamente l’opposto di quell’idea che ci eravamo fatti di loro come persone dure, terroristi amareggiati. Prima dell’11 settembre, il 12 marzo di quell’anno, c’era stata la distruzione dei Buddha di Bamiyan e tutti ci eravamo chiesti chi fossero quei pazzi che avevano distrutto quelle antiche divinità per via dell’iconoclastia. Insomma, quelle stesse persone che si opponevano all’idea della raffigurazione si mettevano seduti in uno studio fotografico con intorno i fiori di plastica colorati e si facevano ritrarre. Mi aveva colpito questa contraddizione.

Come sei entrato in possesso di queste immagini?
Quando sono entrato nello studio Photo Shah Zada a Kandahar stavano ripulendo tutto perché improvvisamente i talebani erano diventati i nemici, perciò buttavano via tutte le loro immagini. Chiesi se potevo fare delle foto di quelle fotografie, alla fine le comprai per pochissimo. Per loro non avevano alcuna importanza, invece io sono stato subito consapevole di quanto fossero preziose.

E da lì a farci un libro?
Prima di tutto mandai le immagini al New Yorker, insieme a quelle scattate da me, e furono pubblicate [il pezzo uscito il 20 gennaio 2002 a firma di Jon Lee Anderson è intitolato After the Revolution e successivamente, il 29 marzo 2014, le immagini corredano l’articolo di Thea Traff, N.d.R.], così cominciarono a girare. A Parigi, poi, incontrai l’editore italiano Gigi Giannuzzi che decise, all’inizio del 2003, di pubblicare il libro con la sua casa editrice Trolley Books.

Qual è, secondo te, in generale il ruolo del libro fotografico?
Assomiglia un po’ al pattinaggio artistico. Prima bisogna fare gli esercizi preparatori e solo dopo ci si può sbizzarrire nel freestyle. Nel libro fotografico c’è più libertà di espressione.

Taliban © Collection Thomas Dworzak Magnum Photos

Taliban © Collection Thomas Dworzak Magnum Photos

L’AFGHANISTAN VISTO DA THOMAS DWORZAK

In Taliban hai messo in secondo piano il tuo lavoro autoriale per lasciare spazio a immagini scattate da altri.
Tengo al fatto che queste immagini siano sempre accompagnate dalla didascalia “Collezione di Thomas Dworzak”, e certe volte c’è chi se ne dimentica. Ci sono anche persone che mi chiedono di fare uno shooting di moda in questo stile, ma non saprei come farlo visto che non sono io ad aver realizzato quelle foto! Però, probabilmente, sono le immagini più divertenti che abbia. Le espongo sempre nel formato originale perché voglio essere rispettoso del lavoro del fotografo che le ha fatte. Non vendo neanche le stampe e non ci lucro.

Quante sono le foto di questa collezione?
Circa ottantacinque ritratti di uomini e talebani.

In Afghanistan qual è stato il tuo approccio di fotografo?
Dopo l’11 settembre eravamo in tantissimi in Afghanistan. C’erano centinaia di fotografi, come ora in Ucraina. La mia esperienza è stata molto comune perché vivevo insieme ad altri giornalisti e avevo degli interpreti afghani. Stavo bene in Afghanistan, meglio che in Iraq forse, perché mi sentivo più vicino alla gente. Ho delle foto buone, ma sono come quelle di tutti gli altri fotografi che hanno documentato la caduta di Kabul e degli altri accadimenti. Non avrei la pretesa di farne un libro, ritengo che le foto della collezione dei talebani siano molto più potenti.

Sei tornato in Afganistan negli anni successivi?
Tra il 2010 e il 2015 sono tornato in Afghanistan per un periodo di quasi due anni, ma ero in un contesto totalmente differente. Ero al seguito dei militari georgiani, quindi vivevo con loro e documentavo la loro attività. Non avevo alcun contatto con gli afghani. Un po’ quello che era successo in Iraq, dove ero con il contingente americano; la storia che raccontavo era sull’esercito americano e non sull’Iraq. Ma c’è una cosa importante da sottolineare: nel 2001-2002 c’era un sentimento di sollievo rispetto al fatto che quei pazzi che avevano fatto l’attentato alle Torri Gemelle erano scomparsi e il Paese era un po’ più libero. Forse era anche l’arroganza dei vincitori che ci permetteva di avere questa sensazione. Anche se, devo dire, allora ho comunque avuto molti problemi per la distribuzione del libro Taliban [oggi è sold out e arriva a costare, di seconda mano, intorno ai 100 euro, N.d.R.], sia negli Stati Uniti, dove pensavano che fosse una visione troppo positiva sui talebani, che in Europa, dove c’era chi era convinto che fossi stato io a vestirli come icone gay. Ma io non avevo fatto nulla di tutto questo. Ora, vent’anni dopo, i talebani sono tornati e anche se non ci sono più veti sulla raffigurazione, loro stessi posano per le strade facendosi fotografare mentre giocano a biliardo o mangiano il gelato. Sappiamo benissimo che il loro regime è crudele e violento. Tengono le donne segregate, chiudono le scuole… No, non sono affatto divertenti.

Manuela De Leonardis

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Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Dal 1993 è iscritta all’Ordine dei giornalisti del Lazio e dal 2004 scrive di arti visive per le pagine culturali del manifesto e gli inserti Alias, Alias Domenica, ExtraTerrestre.…

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