Joseph Beuys (Krefeld, 1921 ‒ Düsseldorf, 1986) è il più criptico tra gli artisti “proverbiali”: l’artista tedesco fa certamente parte dei nomi che si citano a profusione come paradigmi dell’arte contemporanea, ma la complessità visiva e filosofica della sua opera risulta spesso sminuita da tale discorso corrente.
È anche per questo benvenuta una mostra come quella che gli dedica Palazzo Cini, che si concentra sui primi periodi del suo percorso aprendo prospettive inaspettate e aggiungendo nuovi elementi per uno studio sistematico del suo lavoro. I lavori, che risalgono fino agli Anni Quaranta, sono affascinanti e assieme disturbanti per la loro apertura e apparente incompiutezza; la distonia rispetto ai canoni delle epoche in cui furono realizzati è totale; la singolarità assoluta denuncia intuitivamente come ogni opera sia parte di un discorso intrinsecamente inesauribile.

LA MOSTRA SU JOSEPH BEUYS A PALAZZO CINI A VENEZIA
Una mostra così concepita è il modo apparentemente più sommesso per concludere le celebrazioni del centenario dalla nascita di Beuys, ma allo stesso tempo uno dei più interessanti. Il curatore Luca Massimo Barbero sceglie un allestimento in penombra, creando una sorta di antro che rinuncia a spettacolarizzare il confronto diretto con le sale antiche, ma le utilizza per contrasto.
Incorniciati o racchiusi in teca (ulteriore elemento straniante che rende i lavori “alieni” rispetto a qualunque collocazione temporale istantanea), i disegni, i calchi, gli assemblaggi colpiscono per la loro natura formale incongrua e sembrano fecondarsi a vicenda, come primi semi (già compiuti) del progetto totale di Beuys.
Il corpo umano e animale viene disegnato, scolpito, sdoppiato, diminuito o potenziato, mentre si crea una mescolanza perfettamente calibrata tra carica simbolica e ragionamento puramente intellettuale e razionale.
SINTESI ED ESPRESSIVITÀ NELLE OPERE DI BEUYS A VENEZIA
Le opere dei primi decenni di Beuys raccolte in mostra sono coacervi di contrasti, volute contraddizioni che si sentono prima di essere comprese, perfettamente sottolineate dall’impianto della mostra e dal suo allestimento (per quanto un po’ fitto).
Uno dei contrasti principali è quello tra essenzialità ed espressività: non si tratta di una poetica minimalista, anzi, ma la sintesi rimane comunque massima – nessun tocco in più del necessario, nessuna concessione all’effetto o alla conclusione “perfetta” dell’opera.
Pur essendo già di stampo concettuale, i lavori si concedono riferimenti primordiali, tribali, preistorici, animistici. L’ibridazione tra uomo e oggetto (idealmente tra uomo e macchina) diventa commento del presente ma anche fantasmagoria di un potenziamento dell’umano; il gesto intellettuale dell’artista non vieta che si crei un’atmosfera suggestiva e anche morbosa, perfino sadica e oscuramente liberatoria.
‒ Stefano Castelli
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