Le mostre personali nelle gallerie di riferimento possono essere semplici aggiornamenti per un artista, teorie di opere che ne esemplificano la ricerca più recente, in un loop ripetuto periodicamente con minimi spostamenti. Viceversa, il progetto può diventare davvero occasione – oltre che di incontro rinnovato con un lavoro – di sviluppo autonomo che, con approccio museale, non miri tanto a un far vedere quantitativo ma, piuttosto, a un tessere concettuale. A questa seconda categoria appartiene l’esposizione pensata da Maurizio Donzelli (Brescia, 1958) in colloquio con Massimo Minini, entrambi anche nel ruolo di curatori, presenti con due intensi testi critici.

LA MOSTRA DI DONZELLI A BRESCIA
Entrando nella galleria, ciò che si osserva è una sottrazione iconografica. Come in una cattedrale gotica, lo spazio (una navata laica e industriale) si costruisce nei rapporti di luce e ombra. Sulle lunghe pareti laterali sono allestiti due soli lavori monocromatici in oro, simbolo di chiarore assoluto e mentale; mentre nel fuoco prospettico della sala, al fondo, quella che appare come una catasta di quadri elegantemente disordinati, alcuni appoggiati a terra altri appesi, che si nascondono l’un l’altro sui toni notturni dei blu, dei grigi e dei neri. Da un lato luce, dall’altro ombra, da una parte visione, dall’altra pensiero. Visibile e invisibile sono i due poli continuamente rilanciati dalla ricerca di Donzelli che si spiegano nel titolo Immaginale: un pensare per immagini propriamente umano che “si colloca in un territorio intermedio tra percettibile e impercettibile”.

LA PITTURA SECONDO DONZELLI
L’accumulazione di quadri nella parete corta favorisce, infatti, lo sviluppo concettuale di questo elemento filosofico con grazia e concretezza. Ogni opera è sfondo di un’altra, vi si appoggia ed è a sua volta schermata, ha parti evidenti e nascoste. Anche solo questo espediente mette in moto mente e sguardo in una collaborazione percettiva per cui ogni composizione rimanda concretamente alla propria autonomia astratta, proiettando però l’osservatore anche oltre a sé, nell’immaginario e nell’invisibile.
Nella seconda e ultima sala della mostra, la presenza dell’unico quadro effettivamente dipinto svela come gli altri lavori della serie, intitolati Lux Drawing, siano di fatto misteriose riproduzioni metalliche di opere pittoriche precedenti. Ricodificazioni “raffreddate” della pittura che non fanno semplicemente le veci di un presunto originale, ma dimostrano come la pittura per l’autore sia un fatto mentale ed empatico che può, all’occorrenza, reificarsi nelle più inaspettate tecniche.
‒ Gabriele Salvaterra
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