Timido e distante. Alessandra Mammì ricorda Germano Celant

Le sue mostre hanno inciso la storia della curatela recente e in molti addetti ai lavori stanno ricordando il suo apporto alla critica contemporanea. Qui Germano Celant rivive nel ricordo di Alessandra Mammì.

Lo chiamavano il notaio, è vero, quando agli inizi di tutto, negli Anni Sessanta del secolo scorso, Germano Celant annotava ogni cosa, registrava ogni evento, chiedeva foto agli artisti e schedava opere. Era ed è sempre stato poi il suo metodo: quello di lavorare come un archeologo nei liquidi eventi dell’arte a lui contemporanea, per trattenere quel presente di rivoluzioni e invenzioni, che era troppo veloce, troppo fluido. E poi forse lo chiamavano il notaio per la sua aria composta poco incline alle sregolatezze ed effusioni della comunità di appartenenza.
E si legge ora che era un solista e altrove si sottolinea il suo essere scostante o un presunto amore per il potere. Ma io non l’ho mai ritrovato scostante, semmai a volte distante ma di quella distanza che hanno i timidi quando vogliono prendere le misure dagli altri e dal mondo. Una volta prese le misure, però, Celant non era persona fredda e assente. Anzi sapeva ben ridere se lo si trascinava a ridere e ascoltare se venivano dette cose che valeva la pena ascoltare. Riguardo al suo metodo poi non ci sono parole migliori di quelle che Carolyn Christov-Bakargiev ha consegnato a un tweet appena ha saputo della sua scomparsa: “La perdita di Germano Celant è una catastrofe. Una delle persone più serie, intelligenti e profonde nel mondo dell’arte. Ho imparato molto da lui: come fare un libro, come fare una mostra. Il primo ad avere dato all’arte dei nostri tempi la dignità del passato”.

LE MOSTRE DI GERMANO CELANT

È vero, dobbiamo ringraziarlo anche per questo. Per aver scrutato con le sue scrupolose indagini la Storia con sguardo sghembo tanto da spettinarla e permetterci di leggerne un’altra. E gli strumenti erano lì: portati da lui stesso nelle infinite pagine di bibliografia dei cataloghi e nelle bacheche delle sue mostre. Così è stato sempre, dall’inizio fino alle indimenticabili mostre come Post Zang Tumb Tuuum, due anni fa alla Fondazione Prada, un viaggio nell’Italia tra il 1918 e il 1943 che ha scombussolato gli animi e fatto tanto discutere. “È revisionismo!”, dissero alcuni. “No, è un altro sguardo sull’arte, pulito dall’ideologia”, dissero altri. E chi scrive pubblicamente discusse per difendere il Celant pensiero con l’amica Ester Coen, comprendendone le ragioni ma non condividendole.
Del resto lo sguardo “altro” di Celant arriva anche in più specialistiche occasioni come Serial Classic firmata con Settis, un rovesciamento totale dell’idea winckelmanniana del bello assoluto; The Small Utopia, trionfo del multiplo nell’era della riproducibilità compulsiva, o ancora il Mimmo Rotella della Galleria Nazionale di Roma che sembrava strappato di fresco sulle pareti sommerse dall’horror vacui dei décollage e ancorato a terra in tutto quel ben di dio di libri, lettere, inviti nelle bacheche al centro, fino alla bellissima mostra di Kounellis a Venezia dove la precisione celantiana arrivava a riprodurre nelle didascalie anche la foto dell’opera alla sua prima installazione.

UNA PERDITA DA RICORDARE

Come poteva essere freddo e distante un curatore che per mettere in scena Jan Fabre al MAXXI decide di farne galleggiare le opere al centro della stanza, zattere in quel vorticoso mare di spazio dell’architettura di Zaha Hadid dove le onde erano le tremolanti luci di video alle pareti? E non è poi perdita da poco non avere più lui a difendere comunque l’arte italiana nel mondo, perché tutti sappiamo che Arte Povera non fu uno slogan, né un’invenzione ma un progetto teorico che ha unito la sua forza critica, storica e strategica alla visione degli artisti che a un certo punto della Storia catturarono con forza inedita lo spirito del tempo.
E dispiace tanto in questi tempi non potersi riunire per capire cosa perdiamo e cosa resta, nell’isolamento a cui ci costringe la pandemia e nella solitudine a cui ci condannano i grandi media che di tutto parlano, dai 50 anni di Uma Thurman ai 60 del pigiama palazzo, ma non di cosa significa e significherà per l’arte italiana la perdita di un uomo che ha segnato la storia come Germano Celant.

Alessandra Mammì

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