Il suono del silenzio. Michele Spanghero e i teatri vuoti

Una conversazione con Michele Spanghero, giovane artista veneto, che unisce una raffinata ricerca sul suono all’uso di diversi linguaggi creativi. È lui a raccontarci di Monologues, un lavoro affascinante e dalle molte possibili letture. Dedicato ai più bei teatri d’Italia.

Da qualche anno sta girando i teatri lirici d’Italia, con una missione. Rubare il volume e il timbro del silenzio, quando palco e platea rimangono vuoti, disabitati. E tradurre tutto questo in suono. Lui, da solo, al cospetto di straordinarie architetture, cogliendone l’energia potenziale, la memoria, le suggestioni mute. Ma soprattutto sottolienandone l’immenso valore sociale e culturale. Un progetto complesso, quello di Michele Spanghero (Gorizia, 1979), che unisce sound art, scultura, fotografia. E naturalmente un grande amore per il teatro.
A pochi giorni dall’inaugurazione di una sua mostra a Venezia, e subito dopo la conclusione della 16esima Quadriennale di Roma – dove era esposta una sua grande scultura sonora, all’interno del progetto di Denis Viva – abbiamo approfondito con lui gli aspetti di questo lavoro in progress, addentrandoci tra le maglie di tutta la sua ricerca, tra ossessioni concettuali, esercizi di formalizzazione e riferimenti intellettuali.

Michele Spanghero al Teatro La Fenice, 2015Monologues sembra racchiudere le diverse anime del tuo lavoro. La ricerca sul suono, le arti visive e la dimensione del teatro. Possiamo definirlo un tuo autoritratto?
Direi di sì. Monologues è un progetto che sintetizza una parte del mio percorso formativo, perché il mio approccio all’arte è stato sicuramente influenzato dal teatro. L’assidua frequentazione di teatri, fin dall’infanzia, mi ha infatti permesso di iniziare a scoprire la musica e l’arte visiva tout court. All’università ho continuato a coltivare l’interesse laureandomi con una tesi in drammaturgia. Credo dunque che il mio immaginario si sia nutrito di queste esperienze, che adesso affiorano.
I miei primi passi artistici li ho mossi con la musica e poi con la fotografia; l’incontro con la scultura è giunto per gradi, in età più matura, ma proprio per questo è stato consapevole e dettato da una sentita necessità espressiva. Dall’esperienza musicale ho recuperato un background concettuale legato al rapporto tra suono e spazio, mentre dalla fotografia ho recuperato l’essenzialità della forma, l’idea di astrarre e risemantizzare i dati della realtà.

Quando hai avviato Monologues e come si è sviluppato fin qui?
Ho sempre desiderato fare un lavoro sui teatri, ma ho atteso molti anni prima di avviare il progetto, che si è concretizzato nel 2014 in occasione della mia seconda personale presso la Galerie Mazzoli a Berlino. Ho poi continuato a svilupparlo anche assieme allo Zuecca Project Space di Venezia (grazie al supporto degli sponsor Hausbrandt e Ritz Sadler) con cui l’ho recentemente presentato il a EXPO Chicago, realizzando quindi una personale allo Spazio Ridotto di Venezia visitabile fino al 18 febbraio 2016.

Prossime tappe?
L’obiettivo a cui sto lavorando è quello di proporre Monologues in occasione della Chicago Architecture Biennial 2017. E poi, certamente, continuerò il mio percorso di registrazione dei teatri: Monologues è un progetto che immagino a lungo termine, per esplorare il patrimonio dei teatri storici italiani.

Michele Spanghero, Monologue, 2015. Teatro della Reggia di Caserta

Michele Spanghero, Monologue, 2015. Teatro della Reggia di Caserta

Veniamo all’aspetto tecnico. Il focus sta nell’idea di registrare il silenzio di un teatro vuoto. Che strumenti usi? Il materiale viene processato? Come si traduce il vuoto in suono percepibile?
Il processo parte dalla registrazione del silenzio ambientale, che viene poi riprodotta e registrata più volte nello stesso teatro, stimolando così le frequenze di risonanza dello spazio, ad ogni passaggio sempre più udibili. Non c’è un intervento di post produzione, il risultato è frutto di una tecnica di registrazione ambientale che ho desunto dal compositore americano Alvin Lucier.
Queste stratificazioni fanno sì che il silenzio diventi un suono, con un suo timbro ben definito: metaforicamente, la voce del teatro. Dunque, mentre mi trovo sul palcoscenico, do la possibilità al teatro risuonare e di far sentire la sua voce: divento uno spettatore che ascolta il monologo del teatro stesso. Da qui il titolo del progetto, Monologues.

Il suono catturato trova poi spazio e forma in una serie di sculture, una per ogni teatro in cui hai lavorato. Di che opere si tratta e perché hai scelto questa particolare forgia?
L’architetto romano Vitruvio nel De architectura descrive delle anfore risonatrici, che chiama “echea”: negli anfiteatri erano usate per amplificare la voce degli attori sino alle ultime gradinate. Di queste anfore non abbiamo però testimonianza archeologica o reperti che ne provino l’esistenza. Approfondendo la ricerca ho scoperto che il principio acustico delle “echea” era lo stesso dei risonatori inventati dal fisico tedesco Hermann von Helmholtz alla fine del XIX secolo. Le mie sculture Echea sono dunque una sintesi di entrambi questi dispositivi, moderne anfore “echea” modellate a forma di risonatori di Helmholtz, con un altoparlante che riproduce dentro ciascuna il suono di un teatro vuoto.

Le fotografie restituiscono invece la sontuosità dei teatri vuoti, con dei microfoni sul palco. Immagini centrali, luci nitide, simmetrie perfette. Quasi un rimando a certa fotografia d’architettura tedesca, e penso naturalmente a Candida Höfer. Hai scelto cioè un taglio analitico, rinunciando a qualunque lettura narrativa, emotiva, soggettiva. Che valore hanno queste immagini?
Le fotografie mostrano il mio punto di vista, dal palco verso la sala vuota. Si vedono i microfoni, posizionati lateralmente e rivolti verso la platea per ascoltare il teatro, come fossero dei personaggi: segnando la mia presenza in quel luogo, diventano il mio alter ego. I microfoni sono in effetti il punto focale dell’immagine, ma sono collocati in una posizione defilata, perché il fulcro prospettico della foto rimane sempre l’edificio teatrale. Sono soggetti immortalati già da grandi fotografi, Höfer e Sugimoto su tutti, ma è proprio l’interferenza dei microfoni che segna il senso del mio lavoro, nel desiderio di indicare in modo astratto il processo di registrazione che compio. Con i microfoni rivolti verso la platea c’è una sorta di ribaltamento di prospettiva: il teatro diventa scenografia di se stesso.

Michele Spanghero, Echea. Arte Fiera, Bologna 2015. Stand Galerie Mazzoli

Michele Spanghero, Echea. Arte Fiera, Bologna 2015. Stand Galerie Mazzoli

Dentro questo lavoro si trova una suggestione universale. L’idea del palco senza attori e della platea senza pubblico, le luci spente, il brusio che scompare, il racconto che finisce. La “notte” del teatro, il suo riposo, la sua sospensione temporanea, quello che è stato e che di nuovo sarà. Chiunque si sia trovato da solo, in un teatro vuoto, ha provato questa strana emozione…
Sicuramente alla base del mio progetto c’è il fascino per il luogo teatrale, visto quando è “in potenza”. Ma in realtà non vado in cerca di spettri. Il teatro è un luogo per la collettività e la sua architettura nei secoli si è evoluta riflettendo lo sviluppo della società che in quel luogo si radunava per presentarsi e rappresentarsi, in un dialogo catartico tra platea e palco. I teatri oggi stanno purtroppo perdendo il loro ruolo centrale nella società, ecco perché ho voluto lavorare negli spazi vuoti iniziando proprio dalle origini, cioè dal Teatro all’Antica di Sabbioneta, il primo edificio teatrale dell’epoca moderna.

Impossibile non citare John Cage. È stato ed è un tuo riferimento, anche in generale rispetto alla tua ricerca sonora?
Quando si parla di silenzio, Cage è sicuramente un riferimento culturale imprescindibile. Oltre a Cage hanno avuto un ruolo importante Scelsi, Nono, Young, Reich, Ikeda e molti altri, ma  dal punto di vista musicale il riferimento più specifico in questo progetto è Lucier, da cui, come accennavo, ho desunto la tecnica di registrazione.

Scrive Giancarlo Cardini, in Oltre il Silenzio. La musica dopo John Cage: “L’esperienza domestica del silenzio ‘ascoltato’ in un disco si risolve, almeno per me, in grandissima noia, mentre quella vissuta nei luoghi deputati alla musica sprigiona una grande tensione”. Che ne pensi?
Ho letto una volta una frase, credo fosse di Albertazzi, in cui affermava che il teatro è il luogo dove si ascolta il silenzio. Culturalmente siamo concentrati ad ascoltare a teatro le parole, le note, e consideriamo le pause dei momenti d’intervallo tra due eventi, senza attribuire un vero valore semantico al silenzio che le divide, che le rende distinte e le valorizza. Quello che cerco in questi luoghi è proprio il senso del silenzio.
Mi rimane impressa nella mente l’esperienza – si potrebbe dire la performance – di Abbado, che trattiene nel silenzio per alcuni minuti l’orchestra e l’intero pubblico, desideroso di far esplodere l’applauso, alla fine della IX sinfonia di Mahler.
I teatri sono dei templi laici (non si dimentichi l’origine rituale del teatro) e quindi sono luoghi carichi di significato: ecco perché registrarne il silenzio ha per me un forte valore. Eppure c’è una differenza nel silenzio che registro quando il teatro è vuoto, perché manca la tensione creata dal pubblico che trattiene il fiato. Ma è proprio quest’assenza incombente che cerco di mostrare.

Michele Spanghero, Monologues. VeneziaC’è un’origine possibile (o impossibile) in cui il suono (e successivamente la parola), l’immagine e il gesto si uniscono? Da artista che si muove sul confine, quanto è forte l’idea che questi elementi arrivino a toccarsi, a condividere una stessa aurora? Da un punto di vista filosofico è una suggestione inesauribile…
Come dici tu, è una suggestione infinita, uno stimolo alla ricerca continua, che sicuramente ha interessato molto gli artisti del Novecento, ma potremmo forse risalire ancora più addietro con il Gesamtkunstwerk wagneriano e poi oltre… Il teatro in particolare è sempre stato il luogo in cui diversi linguaggi espressivi si uniscono.
Il problema del rapporto tra i media espressivi, e quindi della multimedialità, è sicuramente un topos dell’ultimo secolo e mezzo di storia dell’arte, un’urgenza esasperata dallo sviluppo tecnologico. E continuerà ad esserlo, perché la realtà in cui viviamo è ormai disperatamente multimediale.
Tuttavia i tentativi di creare esperienze totalizzanti mi pare rischiano sempre di implodere. C’è oggi un livello di fusione tra parola, suono e gesto così intenso, ad esempio in uno smartphone, che, credo, all’artista non rimanga che ammettere l’impossibilità di inseguire la totalità, accettare la sua finitezza e puntare su un lavoro che miri all’essenza del medium, in cerca di un significato schietto.

Monologue è in fondo il monologo di un fantasma. È il racconto del prima, del dopo, del mai, del forse. Di quello che non sappiamo e che non vediamo. Catturare l’invisibile e trasportarlo sul piano del visibile: forse la più grande sfida dell’arte. Per una certa tipologia di artisti soprattutto. Quanto è presente, nel tuo lavoro, questa ossessione? E quali altre ossessioni metti nei tuoi progetti, nelle forme che cerchi?
Proprio come affermava Paul Klee, l’arte non deve riprodurre il visibile, ma rendere visibile ciò che non sempre lo è. Nel mio caso cerco di concentrarmi sulla risonanza acustica, ma anche concettuale, tra spazio vuoto e silenzio, per dare voce ad un luogo: sicuramente questo è l’aspetto centrale, ossessivo, nella mia ricerca fin dagli inizi.
Non voglio tuttavia caricare di valori filosofici il silenzio, il mio approccio è lontano dal misticismo. Il silenzio è qualcosa, così come il vuoto non è nulla. Mi ha sempre interessato di più il togliere che l’aggiungere, così mi affascinano i lavori che parlano attraverso l’assenza piuttosto che affermare la propria presenza. Spesso perciò le mie sculture sono contenitori cavi che cerco di riempire di significati e suoni: ciò che m’interessa è come la materia estesa nello spazio configuri una forma esterna e al contempo uno spazio concettuale interno in cui agisce il suono. La superficie diviene una membrana sagomata dal vuoto che essa delimita, ed è pertanto definita dal suo volume interno (spaziale e acustico) e dal suono che contiene. Mi affascina pensare di riempire un oggetto vuoto con il silenzio di un luogo altrettanto vuoto.

Helga Marsala

www.michelespanghero.com

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

Scopri di più