Bilanci sulla Quadriennale di Roma. L’opinione di Roberto Ago

La controversa Quadriennale di Roma ha chiuso i battenti e ora è tempo di bilanci. Roberto Ago si interroga sui “tempi” e i “miti” evocati dal titolo della rassegna. Criticando aspramente le scelte compiute dai dieci curatori.

Troppo spesso l’arte contemporanea italiana è incline a un masochismo auto-inflitto e ironico suo malgrado. Altri tempi, altri miti, maldestro titolo scelto dallo staff degli undici curatori selezionati per la 16ma edizione della Quadriennale di Roma, non può non essere letto come l’ammissione involontaria di “tempi mitici” dell’arte tricolore che, in quanto “altri”, non sono più, e che il Belpaese pure ha conosciuto. Da lungo tempo ormai, e ancora a latere di un’iniziativa che ha appena chiuso i battenti dopo un’assenza di otto anni, in molti vanno denunciando l’involuzione (per non dire altro) che informa gran parte dell’arte nostrana: di quali tempi e miti stiamo dunque parlando?
Recensiremo questa ennesima prova dell’arte italiana, nell’insieme epigonale, goffa e inconsapevole, sottolineando i demeriti e meriti stavolta non solo degli artisti, quanto soprattutto dei curatori invitati a selezionarli. La gran parte di loro, infatti, è riuscita a far peggio di quelli, con l’eccezione di Luca Lo Pinto e Cristiana Perrella: l’abilità curatoriale ha saputo, nel loro caso, dissimulare la mestizia delle opere pure selezionate. Questo perché crediamo sia necessario, giunti a un tale degrado degli antichi fasti, e pressoché estintasi nel frattempo la critica, cominciare a soppesare una curatela nel complesso non meno mediocre dell’arte che propugna, nonostante volentieri millanti il contrario di entrambe. Non si può più pensare che a rispondere del generale insuccesso dell’arte italiana nel mondo debbano essere i soli artisti, prematuramente condotti alla ribalta e subito sprofondati nel limbo, insieme punitivo e protettivo, delle pseudo-carriere artistiche peninsulari – e non, ché risiedere all’estero non equivale a calcare le scene internazionali. Ci sembrano maturati i tempi, non senza menzionare il viatico di David Balzer, che si facciano le pulci anche ai curatori, sovente meri allestitori di mostre. Parole al vento? Certo, ma le diciamo lo stesso, come già facemmo in occasione della prima edizione del Forum dell’arte contemporanea italiana, ideato dal Museo Pecci di Prato proprio per fronteggiare la situazione.

L’IDEA GENERALE

Buona l’idea di affidare a una squadra la non facile planimetria di Palazzo delle Esposizioni, pessima quella di non fissare per tutti un tetto massimo di artisti da presentare. Si sarebbe dovuto sospettare, e anzi sapere con certezza (a che serve sennò il Padiglione Italia?), che la curatela italiana è inaffidabile, tanto da scongiurare il caravanserraglio di lavori e performance che ha invaso quasi tutte le sale espositive. Un errore di valutazione che ha compromesso la fruizione generale dell’esposizione, che ha penalizzato eccessivamente artisti già deboli e che va imputato non solo alla maggioranza dei curatori, quanto soprattutto a un comitato direttivo poco allertato o attento solo agli incassi.
Prima di passare ai singoli progetti, tre considerazioni di ordine generale: 1) non c’era quasi lavoro d’artista di cui il relativo curatore non abbia scritto che “analizza” e “riflette” su questo o quel tema, quando l’arte non analizza e riflette mai e, se lo fa, non è più arte ma didascalia al servizio della peggiore pedagogia; 2) troppi artisti e curatori hanno scambiato il mondo dell’arte per quel liceo occupato che forse hanno vissuto unicamente nel ricordo dei loro genitori, peccato solo che a vivere da grandi i “brufoli” della contestazione si evacui esclusivamente fuffa; 3) praticamente tutte le visioni del mondo veicolate dalle mostre muovevano da citazioni neanche fossimo nel 1984, almeno qualcuno sa tornare ad averne di sue, invece di parafrasarle assieme ai titoli?

Domenico Quaranta, Cyphoria, exhibition view - Credits OKNOstudio - Courtesy La Quadriennale di Roma

Domenico Quaranta, Cyphoria, exhibition view – Credits OKNOstudio – Courtesy La Quadriennale di Roma

I SINGOLI PROGETTI

Venendo alle dieci iniziative curatoriali, di cui giocoforza non possiamo che distillare un concentrato critico, scusandocene in anticipo, ci pare di poter dire che non si sia vista una sola mostra in grado di produrre una pagina significativa di storia dell’arte italiana. Spessore concettuale e linguistico ai minimi storici (e passi), piacevolezza estetica meno che intermittente, e troppo spesso disinnescata dai display espositivi. Non bastano già gli artisti, dobbiamo rimproverare anche ai curatori un piacere dell’occhio sempre più raro? Per nulla selettiva, ce n’è per tutti: dalla fiera degli “esclusi” – per sua stessa ammissione – di Domenico Quaranta (Cyphoria, Sala 4), un piano-sequenza di “Cyber-Folk Art” nel senso ininterrotto dell’espressione, dove si segnalano giusto l’ingombrante Laocoonte di Quayola, qui nella morsa del virtuale, e i quadri tecno-vernacolari di Federico Solmi, vitali e kitsch quanto basta da imporsi all’attenzione; all’asettica “sede di partito” di Luigi Fassi (La democrazia in America, Sala 7), il quale non sembra ancora aver compreso come un’arte engagé – si rilegga l’Eco dell’arte invece di un Tocqueville che non c’entra nulla –  debba farsi con le invenzioni linguistiche, e non con le illustrazioni didascaliche di pre-testi adolescenziali e intellettualistici. Come quelli del video politicamente (e linguisticamente) corretto di Adelita Husni-Bey, delle piatte apologie di un capitalismo d’antan (un tema molto di moda tra i più giovani) di Alessandro Balteo-Yazbeck, della pleonastica videocronaca sugli attriti tra Nord-Est xenofobo e comunità islamiche di Nicolò Degiorgis, per limitarci a tre periscopi di cartapesta che dovrebbero scandagliare i poteri di turno e sancire il ruolo moschettiere dell’arte. (A onor del vero tale vezzo, presente anche all’interno di altri progetti curatoriali, prolifera ben oltre le sale di questa esposizione.)
Più matura e nei ranghi, ma anche troppo allineata agli standard estetici imperanti, la riuscita orchestrazione di frammenti di Luca Lo Pinto (Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti, Sala 6), magistralmente allestita con lavori standard in grado di garantirgli un sicuro consenso. Se le eleganti quanto furbe polaroid di Giorgio Andreotta Calò evocano una volta di troppo l’assenza ingombrante del suo gemello maggiore Cyprien Gaillard (e simili), Roberto Cuoghi dimostra come l’estetica assiro-babilonese non conosca oblio, almeno fin quando i critici di un’Età dei Lumi ancora lontana da venire non si accorgeranno che, per diversi anni, è riuscito a propinarci “souvenir” antidiluviani senza che alcuno scarto concettuale sia intervenuto a sdoganare la titanica impresa. Esercizio di routine, invece, per Rä Di Martino, che fa indossare a un pubblico attuale abiti e pose di visitatori fotografati durante un’edizione “sessantottina” della Quadriennale, immortalandoli oggi come allora. L’unica opera degna d’identità idiolettale è forse un frammento di poesia visiva di Emilio Villa. Trattasi, comunque, di una delle due sole esposizioni corali concettualmente risolte e visivamente appaganti, su ben dieci opportunità espositive.

MISURA E PROBLEMI

L’altra è la misurata esposizione “escatologica” a cura di Cristiana Perrella (La seconda volta, Sala 5), con appena cinque artisti. L’atmosfera di déjà-vu è dichiaratamente ricercata, con successo aggiungiamo. Le ultime appropriazioni antiquarie di Francesco Vezzoli in chiave narcisitico-iconografica dimostrano ancora una volta lo spessore egocentrico (e poco di più) di questo campione delle pubbliche relazioni. Analoga passione egoriferita per Marcello Maloberti, che fa ritagliare a un adone-narciso infiniti riflessi di se stesso mentre si specchia nella storia dell’arte, senza evidentemente sentirsene all’altezza, tanto da annegarci dentro. Anche Lara Favaretto non sfugge all’horror vacui: piuttosto di lasciar andare in pace delle vecchie croste da mercatino delle pulci, le risuscita ricoprendole di bende di lana fino alla monocromia. Dopo tale operazione chirurgica doppiamente da manuale, un destino da mummie viventi le attende di qui in avanti. Non passa inosservato, infine, il grande collage di manifesti rovesciati e ritagliati di Alek O., un’opera delicata che fa pensare tanto a Klee che a Rehberger (quest’ultimo chiamato in causa anche da Martino Gamper), con in mezzo un’infinità di altri possibili rimandi, modernisti e non. Un’esposizione che illustra efficacemente l’idea di rinascita, al prezzo di cinque manieristi “necrofili” e altrettante opere “zombie”.
Non altrettanto si può dire di una collettiva problematica e che però ospita opere finalmente originali: quella a cura di Denis Viva (Periferiche, Sala 1). Sempre inconfondibile e leggiadra Christiane Löhr, di cui volentieri avremmo visto una personale in grado di rilassarci gli occhi e la mente, una sicurezza Paolo Gioli, qui con delle belle rivisitazioni classiche esposte ai “raggi gamma”, devono tuttavia vedersela con un modesto Emanuele Becheri, che sfida a distanza il più riuscito Luca Vitone di un paio di sale successive, con un Paolo Icaro poco convincente, con una Giulia Piscitelli sottile ma un po’ casereccia, con altre modeste rivisitazioni di poverismo e minimalismo. Nonostante la cura dell’allestimento, l’accostamento di pesi massimi e minimi risulta troppo eterogeneo e non certo per questioni di dimensioni.

Cristiana Perrella, La Seconda Volta, exhibition view - Credits OKNOstudio - Courtesy La Quadriennale di Roma

Cristiana Perrella, La Seconda Volta, exhibition view – Credits OKNOstudio – Courtesy La Quadriennale di Roma

SEZIONI IMPERVIE E OPERE MODESTE

La mostra immediatamente successiva, a cura di Simone Frangi (Orestiade italiana, Sala 2), non ha nulla della geniale ermeneutica del suo ispiratore africano e tutto dell’impotenza di chi, non potendo dirigere talenti di pari spessore, stipa gli spazi di meri intellettualismi. Meno affastellamento di nomi avrebbe giovato agli innocui esercizi di impegno civile, politico, sociale, documentario e storiografico ospitati. La sezione dell’intera esposizione più pretestuosa e d’impervia fruizione, di cui non rammentiamo nulla che meriti d’essere riportato se non la tenda d’ingresso a opera di Diego Tonus, raffigurante un baro che nasconde le carte sulle gambe e che ben introduce, attraverso le parole del curatore, al resto della mostra: “Unico accesso allo spazio espositivo, “Il baro” allude all’inganno di cui sono vittima tutti coloro che l’attraversano e tutto ciò che si trova al di là”.
Incline all’ideologia di un traditore eclettico e transgenerazionale appare la mostra limitrofa a cura di Simone Ciglia e Luigia Lonardelli (Preferirei di no, Sala 3). Spiccano un dipinto di Gianfranco Baruchello, la divertita tela che si sveste di Nicola Samorì ma soprattutto il preannunciato, grande acquerello di polvere e farfalline rinsecchite di Luca Vitone, una ventata d’aria fresca, se paragonato alla pesante leggerezza del fiore monopetalo di Mario Airò, dell’ennesima rosa di celluloide di Rosa Barba, dei goffi petali in marmo formato A4 di Massimo Bartolini, chissà se memori di un impollinatore di nome Antonio Trotta. Se è apprezzabile l’intento di mescolare con disinvoltura i principali topoi delle arti visive, la prevalenza di opere modeste – che comprendono, inoltre, la doppia proiezione di carte da parati di Anna Franceschini, l’ennesimo feticcio modernista dall’Abissinia (non se ne può più) di Invernomuto, l’infelice neon dei bravi Claire Fontaine – a compromettere quella che avrebbe potuto essere un’interessante mostra d’annata nonostante l’anagrafe recente delle opere.
Venendo alla staffetta di monografiche a cura di Marta Papini (Lo stato delle cose, Sale 9A, 9B), che saggiamente ha tenuto conto di una bulimia visiva già insostenibile, non possiamo che limitarci all’unica (e ultima) doppia personale che ci è toccato in sorte di visitare, quella di Margherita Moscardini da una parte e di Elena Mazzi e Sara Tirelli (qui in collaborazione) dall’altra. Se dell’installazione ambientale della prima non riusciamo ad apprezzare lo scarto, per come ammicca alle tante geometrie “unmonumental” che è in grado di compendiare, la videoinstallazione delle seconde appare gravata sia da una tripartizione che ne moltiplica l’effetto ipnotico secondo un espediente abusato e non necessario, sia soprattutto dalla tematica adolescenziale di un “runner” solitario ai confini della realtà, roba da apocalittici videogame. Il resto, che non è poco, non ci è pervenuto.

AFFOLLAMENTI SELVATICI

Le ultime due sale da menzionare si aggiudicano a pari merito il podio per l’affollamento selvatico di opere. In quella a cura di Michele D’Aurizio (Hei, voi!, Sala 8), dedicata alla ritrattistica d’affezione, una sorpresa è imbattersi dopo qualche colpo di machete (visivo) nella doppia serie di ritratti digitali su iPad di Massimo Grimaldi, il lavoro più felice e linguisticamente aggiornato dell’intera esposizione, e un artista interessante, ma purtroppo incline al registro sociologico, che forse dovrebbe seguire l’esempio del suo compagno di scuderia Cory Arcangel. A parte un paio di lavori storici di Carol Rama e Alberto Garutti, per il resto è la solita selva d’interventi d’archivio, modesti per inventiva e realizzazione. A partire dal fragile kimono emulsionato di Alessandro Agudio, il quale va stampando porzioni d’iridi (forse troppo ridotte?) a lui care sulle più svariate superfici, passando per gli stucchevoli ritratti di conoscenti di Andrea Romano, incastonati stavolta in un fossile spaccato a metà che ricorda troppo da vicino analoghi prototipi di Giovanni Kronemberg, finendo con Patrick Tuttofuoco che archivia i suoi compagni di accademia sovrapponendoli a scogli marini stampati su enormi banner di PVC, di questi e altri interventi analoghi non si coglie la necessità se non empatizzando, come curatore comanda, con gli afflati autobiografici dei diretti interessati.
L’ultima sezione, a cura di Matteo Lucchetti (De Rerum Rurale, Sale 10A, B, C), è l’ideale (e reale) prosecuzione di quella appena descritta. Come se non bastasse, le tre sale contigue richiamano l’indifferenziata densità di una fiera, più che una mostra. Sarebbe stato consigliabile ospitare un solo artista per sala, comunicando tale esigenza già nel bando. Si sottrae a uno sfondo di elenchi, didascalie, autobiografie immaginarie e non solo l’opera di Danilo Correale, il cui Thomas Edison dormiente sotto l’ala sinistra di un televisore post-fordista appare tuttavia, come di consueto per questo artista “dimezzato”, efficace concettualmente ma non identificabile stilisticamente, un’icona della modernità che potrebbe essere ascritta a mille altri artisti – vedi solo gli Invernomuto della Sala 3, tanto che il rilievo vale anche per loro – e che nondimeno avrebbe meritato una stanza tutta per sé. Il resto non ci appare degno di cronaca anche perché troppa maniera, giunti al capolinea, stufa due volte.
Che la 17esima Quadriennale di Roma e i suoi decisori apprendano, dall’edizione appena conclusa, gli errori alla fonte, così da non trasmetterli più; a valle ci penseranno artisti e curatori. Altrimenti è meglio che serrino nuovamente le chiuse, visto che oltretutto il 17 porta male.

Roberto Ago

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Roberto Ago

Roberto Ago

Roberto Ago è figura poliedrica attiva in molteplici rami inerenti all’estetica. Critico delle immagini, iconologo, artista, editorialista, dopo gli studi d’arte presso l’Accademia di Brera sta conseguendo la seconda laurea in filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, con particolare…

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