Carmelo Bene e il gioco dell’attore nel nuovo libro di Jean-Paul Manganaro

La personalità drammatica di Carmelo Bene emerge dal nuovo libro di Jean-Paul Manganaro, che ne esalta l’unicità sulla scena

L’ultima creazione letteraria di Jean-Paul Manganaro appena arrivata in libreria è Oratorio Carmelo Bene e coincide con il ventennale della morte dell’attore. Com’è ormai nel suo stile, Manganaro trascende la gabbia del genere facendo coesistere saggio letterario, romanzo, autobiografia.
A pagina 30 Manganaro ha inserito una riflessione perentoria, che dovrebbe scuotere gli addetti ai lavori e quanti seguono il teatro: “Devo dire che quando si è vista una volta una rappresentazione di Bene… non si ha più voglia di vedere gli altri, quale sia il nome o la loro prestazione. Tanto incolmabile diventa la differenza tra una personalità drammatica, qual è la sua, e un interprete qualsiasi”. Affermazione che si può accostare al giudizio di Flaiano e al suo parafrasare l’aforisma eracliteo di fronte ai tanti Amleto: “Come non ci si bagna due volte nello stesso fiume, così è impossibile vedere due volte lo stesso spettacolo ‘Carmelo Bene”.
È necessario allora chiedersi come Manganaro argomenti le proprie considerazioni. Quali sono le componenti che chiama in causa per definire l’attore-autore-regista un fenomeno? Eccone alcune.

IL COSTUME DI SCENA

Una autentica costante del suo teatro, che accompagna ogni prestazione scenica, con qualche variante. Inizia con Riccardo III termina con In-vulnerabilità di Achille. Quindi, la camicia deve essere comoda, la seta deve essere evitata perché scatena il caldo, il bianco deve incidere, sbiancando il volto per riflesso. Le mani devono frullare sullo spartito, non per dire il testo ma per tradirlo. Un costume che incidenta il corpo, dunque, trasformando corpo e attore: l’io scompare, si sottrae, si vanifica.

IL LAVORO DELL’ATTORE

Gli altri interpreti s’inchinano e accettano il testo imposto dal regista, obbligati alla mimesi, senza mai nemmeno sfiorare la sublime libertà recitante tipica di Bene, con il suo continuo spostamento di senso che connota di una nuova dimensione creatrice il lavoro dell’attore. Ponendosi in una posizione critica verso un sapere organizzato, capace solo di ridire la lettura e la lettera del corpus invece di scoprirne aspetti inediti.

LA VOCE

L’organizzazione della voce è un fattore predominante come medium tra la corporalità attoriale e lo sguardo dello spettatore. “Voce eidetica” la definisce Manganaro, perché in grado di vanificare la tradizionalità testuale dando corporeità alle immagini mentali inserendole in un nuovo percorso uditivo. Una palese conferma la si trova nel Manfred, il dramma di Lord Byron, diretto, interpretato, tradotto dallo stesso Bene, con musiche di Robert Schumann. L’opera tecnicamente si attesta su un procedimento binario, il canto recitativo dell’attore si alterna con il controcanto dell’orchestra. Semplice in apparenza, ma è un procedere che non mira a un fine o a una fine. Non c’è una centralità in ciò che vuole significare: “Svaria verso l’infinito, come sempre proponendo un modello estetico di trasgressione”. Con un’intensa vibrazione emotiva l’attore assimila, in un unico personaggio, le diversità di molti personaggi rappresentabili solo come parvenze: un Palazzo, Don Giovanni, Faust, Manfred.
Una voce che non mima ma evoca, che scaturisce da dentro. E, avulsa da contenuti, concretizza il proprio stato di grazia. Un polimorfismo vocale che domina le tante tonalità, dal nasale al gutturale, dal rimbombante al felpato. Con incursioni nella freddezza, nell’asprezza, nella rabbia, nella dolcezza, nella pietà. Valutazione che Manganaro sintetizza in un giudizio tranchant: insomma un monstrum.

Jean Paul Manganaro – Oratorio Carmelo Bene (il Saggiatore, Milano 2022)

Jean Paul Manganaro – Oratorio Carmelo Bene (il Saggiatore, Milano 2022)

L’INAUDITO

Nelle pagine finali del testo Manganaro accenna al suo primo contatto con l’attore avvenuto a Parigi nel 1969, assistendo alla rappresentazione di Nostra signora dei Turchi. Non ha dubbi, intuisce subito di trovarsi di fronte a qualcosa di “inaudito”. Cioè l’opposto del consumo culturale contemporaneo, con il pubblico in sala che aspetta solo “l’audito”, quanto già sa o crede di sapere, sociologistiche tautologie della doxa mediatica. Come commenta Andrea Cortellessa dialogando con Manganaro nell’intervista pubblicata sul Verri.

RIPETIZIONE APPARENTE

Non c’è ripetizione nel lavoro di Carmelo Bene. Si presenta in scena senza avere in precedenza messo un piede sul palco, o provato il corpo, i gesti, i tempi, la voce. Anche se recupera una circostanza in apparenza simile, in realtà rivaluta e ristruttura in un altro modo i materiali. Riforma e rielabora gli stessi temi portanti “caricandoli di altre finalità, di altre aggressioni. Fin dall’inizio della sua sperimentazione”.

L’INVASIONE DELLA LUCE

Nelle sue rappresentazioni Carmelo Bene ne reinventa i tagli, che non sono più verticali ma laterali. Acquistano una nuova dinamica, uno spessore nuovo, radicale, come avviene in Caravaggio rispetto a Raffaello.

Fausto Politino

Jean-Paul Manganaro – Oratorio Carmelo Bene
il Saggiatore, Milano 2022
Pagg. 192, € 19
ISBN 9788842830856
https://www.ilsaggiatore.com

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Fausto Politino

Fausto Politino

Laureato in Filosofia con una tesi sul pensiero di Sartre. Abilitato in Storia e Filosofia, già docente di ruolo nella secondaria di primo grado, ha superato un concorso nazionale per dirigente scolastico. Interessato alla ricerca pedagogico-didattica, ha contribuito alla diffusione…

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