I believe in miracles. Intervista a David LaChapelle in mostra a Milano

Da Andy Warhol alla spiritualità, passando per la solitudine e la riflessione su se stessi: un’intervista a tutto campo al fotografo David LaChapelle, in mostra al MUDEC di Milano

Se c’è un fotografo che ha saputo dare nuovi significati al concetto di pop culture, mescolando in un pastiche dalle tinte ultrasature, quasi lisergiche, il culto contemporaneo delle celebrità, la tradizione dell’arte classica (della ritrattistica, in particolare) e il gusto per l’eccesso, in bilico tra kitsch e provocazione, allegorie bibliche e visioni fantasmagoriche, è sicuramente David LaChapelle.

David LaChapelle, Land Scape. Kings Dominion, La Jolla (California) 2013 © David LaChapelle

David LaChapelle, Land Scape. Kings Dominion, La Jolla (California) 2013 © David LaChapelle

CHI È DAVID LACHAPELLE

53 anni, originario del Connecticut, ha cominciato a scattare negli Anni Ottanta a New York, trovando subito un mentore d’eccezione in Andy Warhol, che gli affidò i primi servizi per la mitica rivista Interview. Da allora, le sue immagini, a mo’ di tableau dalle tonalità vivide, echeggianti ispirazioni e capolavori artistici dei secoli passati, sono apparse sui principali magazine internazionali (Vanity Fair, Vogue, GQ, Rolling Stone, The Face, solo per fare qualche nome); ha ritratto un numero imprecisato di star, da Madonna a David Bowie, passando per Elizabeth Taylor, Angelina Jolie, Björk, Elton John, Muhammad Ali, David Hockney, realizzato video pubblicitari e musicali e, specie dopo il trasferimento alle Hawaii, nel 2006, composizioni di carattere più intimista, dal côté onirico o surreale, intrise spesso di religiosità, capaci immancabilmente di mettere a fuoco, con uno stile unico nel suo genere, i grandi temi del presente.

David LaChapelle. I Believe in Miracles. Exhibition view at MUDEC, Milano 2022. Photo © Jule Hering

David LaChapelle. I Believe in Miracles. Exhibition view at MUDEC, Milano 2022. Photo © Jule Hering

LA MOSTRA DI LACHAPELLE A MILANO

L’artista è in mostra al MUDEC di Milano fino all’11 settembre 2022 con LaChapelle. I Believe in Miracles, la rassegna che svela un lato inedito, per certi versi inaspettato, della sua vasta produzione. Oltre novanta le opere esposte, un corpus fluido e sfaccettato, ricchissimo di suggestioni, raccontato attraverso un percorso volutamente non lineare perché, spiegano i curatori Reiner Opoku e Denis Curti, ci troviamo di fronte a un fotografo in grado “di utilizzare elementi che caratterizzano gli scenari sociali attuali: il disancoramento dai valori costituiti, la confusione, il disordine, l’insicurezza e l’incertezza del futuro”, e il cui lavoro “si fa immediatamente metafora di un linguaggio trasversale, che non passa attraverso il filtro della razionalità e proprio per questo diventa emozione”. E continuano: “Credere nei miracoli non significa delegare a qualcun altro scelte che spettano a noi; equivale piuttosto a definire un impegno preciso per costruire un processo di intenzioni. Se è vero che l’arte è un investimento sull’umanità, allora bisogna continuare a raccogliere e costruire le trame di un mondo possibile, leggere e proporre il nostro tempo come un atto di consapevolezza. E tutto questo è contenuto nell’arte, perché senza quella coscienza le immagini non valgono nulla. Ecco che cosa propone questa nuova narrazione, pensata appositamente per la mostra al MUDEC di Milano”.
Abbiamo avuto la possibilità di intervistare LaChapelle, questo è ciò che ci ha raccontato.

David LaChapelle. I Believe in Miracles. Exhibition view at MUDEC, Milano 2022. Photo © Jule Hering

David LaChapelle. I Believe in Miracles. Exhibition view at MUDEC, Milano 2022. Photo © Jule Hering

INTERVISTA A DAVID LACHAPELLE

Come vede Milano dopo tutto questo tempo?
Vengo spesso in Italia, è la mia nazione preferita, amo ogni suo lato, e vale lo stesso per Milano che, da un certo punto di vista, mi ricorda New York, dove sono cresciuto; l’area del MUDEC, in particolare, è davvero notevole, in generale la considero una città di riferimento per il lavoro. Ho un rapporto di lunga data con il Paese, cui è legato il primo servizio per il quale ho dovuto viaggiare, commissionatomi a diciannove anni, quando ho avuto l’opportunità di fotografare delle attrici italiane. Le mie opere d’arte preferite, poi, sono sempre state quelle del Rinascimento, senza contare che la mia prima retrospettiva si è tenuta al Palazzo delle Esposizioni, a Roma. Provo un amore profondo e sento di avere grande affinità con l’Italia, è naturale per me organizzare una mostra qui.

Può spiegarci il titolo I Believe in Miracles?
Cerco sempre di essere il più possibile sincero e onesto e, allo stesso tempo, di individuare titoli capaci di fornire indicazioni sul processo seguito per le fotografie, sul modo in cui le vedo. Non si tratta solo di tecnica o preparazione, nel mio lavoro c’è molta intuizione, specialmente per le persone con cui scelgo di collaborare, condividendo con loro la fede, in un’epoca, peraltro, nella quale ci si allontana sempre più da Dio, dalla chiesa, dalla spiritualità.
Nonostante le mie opere diano l’impressione di essere pianificate, queste immagini sono decisamente spontanee, veri e propri atti di fede; per realizzarle ci spostiamo e lasciamo che le cose accadano, in cerca di un momento sacro, un miracolo, quasi. Credo fermamente nei miracoli, ho avuto esperienze che possono considerarsi tali, ho pensato dunque che il titolo in questione fosse appropriato, brutalmente onesto; per trattare argomenti simili, con tutta la vulnerabilità del caso, ci vuole un po’ di coraggio. Fotografare è un gesto assolutamente naturale per me, nel compierlo avverto la necessità di rappresentare concetti quali divinità, infinitezza del mondo, famiglia spirituale, vita dopo la morte, del tutto ovvi per quanto mi riguarda, parlarne però è difficile, bisogna essere coraggiosi.

In che modo la pandemia ha influenzato la sua visione?
Il Covid mi ha fatto capire quanto sia importante per me la fede, avvicinandomi ulteriormente a Dio, spingendomi a riconsiderare il passato con uno sguardo critico rispetto a come ho vissuto, alle scelte fatte, per capire come trasformarmi nella versione migliore di me stesso.

David LaChapelle, Our Lady of the Flowers, Hawaii 2018 © David LaChapelle

David LaChapelle, Our Lady of the Flowers, Hawaii 2018 © David LaChapelle

FOTOGRAFIA E SPIRITUALITÀ SECONDO LACHAPELLE

Il periodo 2005-2006 è stato cruciale per lei, sostiene di aver avuto delle rivelazioni fondamentali, com’è accaduto tutto ciò? C’entra la visita alla Cappella Sistina di quegli anni?
C’è stato un momento in cui ho sentito il bisogno di cercare qualcosa di più profondo, del resto ho sempre voluto vivere in una capanna nel bosco, così da sentirmi vicino a Dio e alla natura. Fin da piccolo pregavo per raggiungere tre obiettivi: potermi mantenere con la fotografia, permettermi cibo vegetariano e, appunto, avere una casa nel bosco.
Nel 2005 ricordo di aver pregato Dio, dicendogli di sentire il bisogno di una casa in un posto del genere; sei mesi dopo le mie preghiere sono state esaudite, perché mi trovavo alle Hawaii e ho visto delle capanne in vendita. Per un po’ ho pensato di mettere da parte la fotografia, credevo di non avere più nulla da dire, invece ho ritrovato l’ispirazione grazie alla Cappella Sistina, che ho potuto visitare in completa solitudine; ci ero già stato da bambino, restando impressionato dal silenzio che aleggia lì, visitandola di nuovo l’effetto è stato ancora più potente.

Ho notato nella collezione alcuni ritratti di Andy Warhol, che com’è ovvio ha avuto un grande impatto sulla sua carriera. Cosa ricorda di lui? Si porta dietro qualcosa di quell’esperienza?
Quel periodo mi è stato di enorme aiuto per la fotografia, però ho anche visto un mondo che, prima di allora, non prendevo in considerazione. Andy allora non veniva celebrato com’è poi accaduto una volta morto, riceveva critiche negative, lì ho capito quanto fossero false le persone dell’ambiente; gli stessi che rifiutavano l’arte di Warhol, dopo la sua scomparsa, sono corsi a celebrarla. Solamente a distanza di due anni dalla morte ha raggiunto l’obiettivo che si era sempre prefissato, cioè venire omaggiato con una mostra al MoMA. Il settore dell’arte era fissato con l’esclusività, la rarità, lui da vivo veniva considerato troppo “disponibile”, nel momento in cui è diventato raro, semplicemente perché è morto, hanno cominciato a vederlo con occhi diversi. Non è stato apprezzato come avrebbe meritato, tutto ciò mi ha segnato profondamente.

LA CONTEMPORANEITÀ DI DAVID LACHAPELLE

Il fashion system ama lo stile di LaChapelle, qual è stata la reazione di questo mondo al suo cambio di rotta verso la spiritualità?
Noto che le persone vengono ispirate dai miei lavori e cercano di replicarli nei magazine, trovo però che non si riesca a percepire un vero sentimento di fondo, non si avverte la realtà né la devozione. Non capisco a cosa pensino questi autori quando replicano ciò che ho fatto, specialmente considerando l’odierna ossessione della moda per il senso di oscurità, per il demoniaco. L’arte riflette da sempre i valori della società, e questo dice molto di noi, della nostra ossessione per la violenza, più forte che mai.
Negli Anni Sessanta e Settanta la cultura era piena di colori, luci, gioia, i testi delle canzoni erano all’insegna della positività, legati alla fede, pure i film raccontavano storie edificanti, adesso su Netflix è difficile trovare prodotti che non parlino di morte oppure omicidi. È stato tutto previsto dalla Bibbia, anche se si pensa alla tecnologia, questo è un periodo notevole per essere vivi e assistere a ciò che avviene.

Guardando a Spree e al messaggio che vuole dare ai suoi estimatori, quali sono in questo senso i progetti più importanti e forti?
Credo viviamo nell’era della distrazione, distratti continuamente dalle celebrità e dai gossip, senza concentrarci su ciò che accade davvero là fuori. La nave da crociera rappresenta il “piacere dell’affondare”, del carnevale, e l’oceano è come il Covid, ha fermato tutto.
Ognuno ha il suo percorso, ma siamo tutti sommersi e inghiottiti dalla realtà che si sta distruggendo, dal materialismo; ci vuole una grande forza per proteggersi da tutto ciò, la natura può sicuramente aiutare, idem la solitudine; dove abito io non ci sono cellulari, sto vivendo allo stesso modo in cui sono cresciuto, da solo, per avere la possibilità di farmi domande e mantenermi sul giusto percorso, senza venire risucchiato dal mondo esterno.

Federico Poletti

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Federico Poletti

Federico Poletti

Eclettico, nomade e multitasking: questi sono gli aggettivi che meglio definiscono l’orizzonte creativo e professionale di Federico Poletti. Milanese di adozione, parte da una formazione accademica nell’arte (laureato in Conservazione dei Beni Culturali) per arrivare a una visione della moda…

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