Per una Storia dell’arte italiana contemporanea. L’editoriale di Gian Maria Tosatti

Gian Maria Tosatti riflette sull’arte italiana dell’ultimo decennio a partire dal nuovo libro pubblicato da Ludovico Pratesi. Sottolineando la responsabilità di artisti e critica nella costruzione di un panorama dell’arte italiana attuale.

Perché l’Italia abbia un’arte contemporanea bisogna che abbia, prima, un’idea di sé, un’identità di nazione o di comunità o, in fin dei conti, di popolo.
Per avere un’arte contemporanea bisogna avere una idea filosofica di sé. Questa idea l’Italia non ce l’ha. L’Italia ‒ è triste dirlo – non ha neppure, ormai, una “ideologia” di sé.
Parlo dell’Italia perché il libro di Ludovico pone l’accento su questo simulacro di identità nazionale. Oggi, però, bisognerebbe chiedersi, piuttosto, cosa sia l’Italia in un mondo globalizzato in cui a rispondere al concetto di “stato-nazione” sono rimasti soltanto i governi, ossia i “padroni di questo concetto”, il popolo, di contro, se ne è già andato altrove da un pezzo e nella pratica ha già realizzato tutti quegli ideali europei che le istituzioni nazionali o comunitarie sono ancora ben lontane da incarnare.
Dico questo solo per dare una cifra all’endemico ritardo dell’olimpo della politica ‒ che in questo libro si evoca in apertura come forza primigenia e poi come deus ex machina di questa tragedia culturale ‒ ritardo, dicevo, rispetto al popolo, cioè a noi che qui stiamo discutendo e che siamo i primi responsabili del nostro destino.
Ma torno alla domanda iniziale: “cos’è l’Italia?”.
Per il principe Metternich, in piena Restaurazione, si trattava di una “espressione geografica”.
Oggi, in un nuovo orizzonte globale, c’è, addirittura, il rischio che questa definizione possa suonare realistica. Personalmente, non credendo, come ho già detto, nel concetto di stato-nazione, preferisco, però, definire l’Italia come una “espressione culturale”.
Ci tengo a precisare che, a differenza degli stati-nazione, o delle “espressioni geografiche”, le “espressioni culturali” non riconoscono alcuno ius soli. Per farne parte bisogna aderirvi, intimamente, volontariamente, attivamente.
È questo il modo in cui viviamo la nostra Italia?
Non mi sembra. Per cui diciamo che se ci interessa ancora parlare di Italia, come fa Ludovico nel suo libro, allora è il caso che prima di tutto iniziamo a viverla attivamente e, possibilmente, a ricostruirne l’identità declinandola – giocoforza – al presente. E, in ragione del fatto che riconosciamo l’Italia come una “espressione culturale”, l’unico modo per farlo è quello di interrogare la sua produzione culturale, che, pur precaria, indebolita, scoraggiata, sabotata, non è comunque mancata.
Sono mancate, piuttosto, le connessioni, le fotografie di gruppo, le comparazioni. Sono mancati i libri, ma non le produzioni.

Un popolo non si riconosce in un solo artista o in una manciata di artisti presi singolarmente, ma solo nel pensiero comune di una generazione di artisti”.

Il fatto che, come dicevo prima, l’Italia non abbia adottato una sua filosofia, una sua idea di sé, non vuol dire che idee, in questi anni, non siano state prodotte.
C’è una generazione culturalmente italiana che in questi anni ha continuato a lavorare con un impegno titanico, forse, addirittura, incomparabile con il passato, perché lo ha fatto, nell’inaudito silenzio di ogni orizzonte morale e politico in senso alto, disturbata, dall’interno, da un mondo dell’arte modaiolo e nepotista. E questa generazione non si è mai fermata. Ha lavorato, ha fatto del suo meglio, in mezzo a questa confusione. Non dico che non abbia, ogni tanto, avuto qualche giramento di testa, qualche défaillance, nella decadenza in cui è cresciuta. Ma sta facendo un lavoro commovente, nello strappare a questa morte della civiltà l’ultima goccia di splendore, come diceva Mutis.
Penso alle architetture flebili di Eugenio Tibaldi, penso alla maniacale ripetizione dei fondamenti archetipi di Roberto Cuoghi, penso ai ragazzini col fiato sospeso di fronte alla crescita tumorale delle metropoli disegnati recentemente da Giuseppe Stampone, penso alla cucitura chirurgica tra classicità e inquietudine contemporanea di Luigi Presicce che a me, di contro, fa venire in mente il realismo di Sironi. Penso alle macchine di Arcangelo Sassolino, la cui agonia incombe su di noi come una profezia infausta. Penso alla titanica produzione cinematografica di Andrea Mastrovito che si è preso tre anni per realizzare una sola opera ‒ da quanto non avevamo notizia di una cosa del genere?! – un’opera che consta di 35.000 disegni e che ha una complessità iconologica pari a quella di un affresco della Sistina. Penso alle opere di Silvia Giambrone, esposte qui alla Galleria Nazionale, che definiscono con allarmante precisione una linea del fronte domestica, una faccenda privata che è però male oscuro nella materia molle di questo Paese. E forse, qualcuno, penserà anche alla mia maceria dorata, abbandonata sulla spiaggia di Calais, unica testimonianza rimasta di quella che fino a oggi è stata la prima e la sola grande epopea di una città fondata dai migranti nel cuore dell’Europa e rasa al suolo dall’Europa, quell’Europa politica, ritardataria, ritardata, di cui dicevamo prima.
Tutte queste vicende artistiche, e certo ancora altre, se osservate con attenzione, dimostrano una intrinseca e fortissima coerenza, votata alla costruzione di un nuovo realismo di lancinante lucidità, che pure NESSUNO ha definito criticamente, nessuno ha mai messo a sistema, nessuno ha mai inserito in un paradigma o in un panorama critico ordinato.
Per me che ne sono parte, che la vivo sulla mia pelle, questa generazione credo mostri linee di coerenza talmente solide da poter essere paragonate a quelle dell’Arte Povera, del Realismo Magico o, se vogliamo andare in un altro ambito, del Neorealismo cinematografico.
Ma se lo dico, sono sicuro di non trovare in voi l’espressione dell’ovvia certezza, quanto quella dello stupore, del dubbio, come a dire: “Tosatti, l’ha sparata grossa adesso”. Ma non è Tosatti ad averla sparata grossa, è che nessuno, colpevolmente, in questi anni, ci ha realmente pensato.
E dico questo fondatamente perché non c’è letteratura a riguardo. Non è stato pubblicato, in Italia, un solo libro, da dieci anni a questa parte, che cercasse di compiere un’analisi comparata del lavoro degli artisti della mia generazione, che ormai non è più nemmeno tanto giovane.

C’è una generazione culturalmente italiana che in questi anni ha continuato a lavorare con un impegno titanico, forse, addirittura, incomparabile con il passato, perché lo ha fatto, nell’inaudito silenzio di ogni orizzonte morale e politico in senso alto, disturbata, dall’interno, da un mondo dell’arte modaiolo e nepotista”.

Se vi domando qualcosa sugli artisti che oggi hanno trenta o quarant’anni, mi risponderete citando dei nomi.
Ma mai un pensiero comune, una dinamica collettiva, che pure ci sono, e forti!
Ecco il problema. Perché un popolo non si riconosce in un solo artista o in una manciata di artisti presi singolarmente, ma solo nel pensiero comune di una generazione di artisti. È lì che sta l’Italia che chiamate in causa, l’Italia come “espressione culturale”. E, in questa prospettiva, vivere attivamente l’Italia e promuovere questa generazione dell’arte contemporanea, diventano elementi coincidenti.
È questo il cambio di prospettiva che qui vorrei suggerire. Perché, fin quando non troveremo delle formule critiche capaci di leggere la generazione e continueremo a identificare gli artisti singolarmente, parleremo, appunto, di fatti personali, di storie private, e non di un fatto che ci coinvolge tutti, autori e pubblico.
Perché parlare di Neorealismo, per esempio, non significa parlare solo di De Sica, Zavattini, Rossellini e compagnia bella, ma significa parlare dell’Italia di quegli anni, dei rimasti a piedi o degli imbarcati, dei sommersi e dei salvati, delle famiglie di quell’Italia.
Ecco allora che torniamo al discorso iniziale. Se ci interessa l’arte italiana non la troveremo nelle stanche mostre collettive che ruotano attorno a un’idea del curatore o peggio ancora attorno a un titolo evocativo, ma nelle connessioni, nelle idee che vanno indagate e seguite fino agli intrecci che generano tessuto, dando corpo a una identità collettiva.
Può non piacerci, possiamo trovarla debole e inadeguata, ma conoscere l’idea di sé che ha l’arte di questo Paese è un dovere di ferro. Senza quell’idea unitaria, senza quella ricerca di una coerenza che c’è, ma forse non si vuol vedere, abbiamo solo storie di artisti e non una storia dell’arte.
E siccome Luciano Fabro diceva che la storia di questo Paese è sempre stata, essenzialmente, la sua storia dell’arte, penso che senza una storia dell’arte italiana contemporanea non vi sia nemmeno la possibilità di una storia dell’Italia contemporanea.

Gian Maria Tosatti

Discorso pronunciato il 7 novembre 2017 alla Galleria Nazionale di Roma, in occasione della presentazione del libro di Ludovico Pratesi intitolato “Perché l’Italia non ama più l’arte contemporanea?” (Castelvecchi, Roma 2017).

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