È morto David Bowie, il Duca Bianco della musica

È morto ieri, 10 gennaio 2016, il Duca Bianco. Lottava da un anno e mezzo contro un tumore. E pochi giorni fa aveva pubblicato l’album “Blackstar”. Ecco il nostro primo ricordo.

Con un gesto mitologico – la costruzione e la pubblicazione nel giorno del suo ultimo compleanno di un disco, Blackstar, che è certamente il migliore e il più innovativo in assoluto dai tempi di Earthling, e che parla non a caso di morte: che è la morte, in un certo senso – se n’è andato David Bowie (Londra, 1947-2015).

Un artista che ha influenzato in profondità l’immaginario collettivo e trasformato la realtà culturale che lo circondava, attraversando molteplici epoche e contribuendo a plasmarle. L’invenzione del glam rock nei primissimi Anni Settanta rappresenta un inno alla trasformazione dell’identità, che impone una vertiginosa accelerazione alle sottoculture musicali dopo e durante l’approfondimento della psichedelia. Ziggy Stardust insegna ai giovani occidentali (insieme almeno ai Roxy Music), che si possono benissimo tenere insieme la sperimentazione più radicale, il look e l’attenzione al pop e alla cultura di massa. Se si pensa che una delle immagini-chiave, incastonata esattamente alla metà del decennio, è quella dei teppistelli che saranno i futuri Sex Pistols che si intrufolano a un concerto del Duca Bianco e addirittura fanno in modo di fregarsi gli amplificatori, si inizia a comprendere la capacità di penetrazione di Bowie nei cervelli di più generazioni.

Se infatti i Pink Floyd, per esempio, insieme in generale a tutto il virtuosismo rock fatto di brani lunghissimi e superiorità esibita sembrava fatto apposta per essere preso di mira dal neonato punk (“I hate Pink Floyd”, recitava una delle luride leggendarie magliette di John Lydon-Johnny Rotten), David Bowie è stato sempre una sorta di fratello maggiore per tutti i nuovi gruppi che man mano si affacciavano sulla scena e scoprivano se stessi. Se infatti all’altezza sempre del 1975 lo si trovava alle prese con i revivalismi e le nostalgie di Young Americans (analoghe a quelle che, in modo e misura differente, animeranno proprio il punk inteso come riscoperta delle origini del rock’n’roll contro le sofisticazioni e gli eccessi dei supergruppi), nel giro di qualche mese già si era introdotto nella realtà sociale, politica, culturale più aliena e alienante dell’Occidente (mentre, contemporaneamente, interpretava al cinema il protagonista di L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg): Berlino divisa dal muro e isolata in uno spazio mentale che aveva generato la musica oscura e robotica del krautrock.

Insieme a Brian Eno e a Robert Fripp, Bowie dà allora vita in un pugno di anni (1977-79) all’epica trilogia berlinese, composta da Low, Heroes e Lodger: semplicemente, uno degli atti fondativi della cultura contemporanea, e l’oggetto seminale di tutto ciò che verrà dopo in termini musicali. Il post-punk che proprio in quel giro di anni muoveva i primi passi si fondava sul medesimo schema e sugli stessi presupposti: oscurità, dissonanza, ricerca e esplorazione di nuovi orizzonti sonori e atmosfere inedite, grandi brandi popolari in grado di incistarsi nell’immaginario popolare. I Joy Division faranno immediatamente tesoro di questa preziosa lezione (il loro primo nome era proprio Warszawa, in omaggio al titolo uno dei brani più sorprendenti di Low), sviluppandola e portandola alle estreme conseguenze. Ma sono innumerevoli i gruppi post-punk che seguono l’esempio di Bowie, cercando di emularlo: dai Japan ai Duran Duran, dai Bauhaus ai Tubeway Army di Gary Numan agli Ultravox di John Foxx.

Il passaggio agli Anni Ottanta, con le ambiguità e le tensioni da “ritorno all’ordine” che peraltro caratterizzano tutti i territori artistici extramusicali – dalle arti visive al cinema alla letteratura – è stato raccontato perfettamente da Todd Haynes in Velvet Goldmine (1998), un film che andrebbe rivisto molto attentamente per come riesce a fotografare e a restituire alcune mutazioni fondamentali della cultura postmoderna nell’ultimo trentennio. Della produzione più recente di Bowie, occorre per brevità segnalare almeno due autentici gioielli, vale a dire il concept album fantascientifico 1. Outside (1995) e Earthling (1997).

Fino alla nera sorpresa di Blackstar, pubblicato tre giorni fa e anticipato dall’omonimo singolo: un album che contiene un tesoro di consapevolezza, indicando una strada assolutamente plausibile e percorribile – a patto di essere animati dallo stesso coraggio e da una pari visionarietà – non solo per chi si occupa di musica popolare. Blackstar fa parte infatti, come è stato già notato da più parti, di quella schiera molto rilevante (anche se spesso “sotterranea”) di opere d’arte capaci di cristallizzare questo presente spettrale e il XXI secolo che avanza, con il loro negare forma e struttura in favore della costruzione di una forma differente, più complessa, non-lineare: aliena. Ma questo è un discorso che andrà ripreso, anche in onore a David Bowie, più avanti.

Christian Caliandro

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

Scopri di più