Oltre i canoni dell’architettura: intervista allo studio Maetherea

La nostra indagine sul panorama dell’architettura emergente prosegue con Maetherea, studio impegnato nello sviluppo di interventi a carattere semipermanente: dispositivi ecologici e fenologici, concepiti come strumenti per esplorare il paesaggio e interagire con esso

Lo studio multidisciplinare Maetherea ha sede a Londra, ma le due direttrici sono italiane: Cristina Morbi e Aurora Destro, di origine padane – la prima di Crema e la seconda di Venezia –, portano nei loro progetti la fascinazione del territorio dove sono cresciute, tra paesaggi nebbiosi e vie d’acqua. Il loro lavoro si sviluppa principalmente in Europa e nel Regno Unito; la loro ricerca e le loro opere si muovono tra arte pubblica e architettura del paesaggio. Grande è l’attenzione nei confronti del carattere performativo dei fenomeni naturali e artificiali: considerano al pari tutti gli organismi viventi, dai più microscopici all’essere umano. Ogni progetto nel paesaggio è un nuovo elemento dal carattere semipermanente che si inserisce in un microcosmo del quale farà parte, trasformandosi nel tempo. Dal 2016 collaborano con università e scuole di design sui temi del cambiamento climatico e dei “paesaggi performativi”, portando avanti l’indagine dello spazio effimero e del time-based design. Entrambe si sono formate al Politecnico di Milano, svolgendo però parte degli studi in Oriente: in Cina, Cristina, e in India, Aurora. Oltre allo studio dedicano entrambe il loro tempo alla docenza universitaria, alla ricerca e alla curatela di workshop, performance e mostre. 

Maetherea - Cristina Morbi Aurora Destro, Sundial per Department of Culture and Education of Salzburg. Photo Giulia Maretti
Maetherea – Cristina Morbi Aurora Destro, Sundial per Department of Culture and Education of Salzburg. Photo Giulia Maretti

Intervista alle fondatrici di Maetherea 

Partiamo dal vostro nome, evocativo come il vostro lavoro. 
Maetherea nasce dalla fusione di due parole e da due identità fondamentali per il nostro lavoro: matter, materia, ed ethereal, etereo. Tutti i luoghi e le architetture sono una combinazione della parte fisica e di quella più eterea ed effimera, il nome vuole parlare della coesistenza di queste due diverse anime. 

Com’è nata la volontà di aprire il vostro studio? 
Maetherea nasce nel 2018 a Londra con me, Cristina, a seguito del workshop interdisciplinare co-creato dal Politecnico di Milano e lo studio Martha Schwartz Partners (in cui lavoravo) tra il 2017 e il 2019. La prima edizione del workshop l’ho seguita da interna allo studio; nel secondo avevo fondato Maetherea. 

È un punto di partenza molto interessante: un lavoro di ricerca che porta alla creazione di una nuova realtà. Raccontaci di più di questo workshop. 
Si chiamava Climate Performance. Nasceva dal tema dei paesaggi performativi progettati usando la dimensione del tempo come strumento, sul quale lavoravo dal 2013 tra Pechino e Milano e che continuavo ad indagare anche con Martha Schwartz Partners. Le premesse hanno portato a un workshop interdisciplinare incentrato sull’esplorazione di soluzioni progettuali che utilizzassero gli effetti collaterali del cambiamento climatico nell’ambiente costruito, concentrandosi su un aspetto molto caro alla mia ricerca: come il cambiamento può essere terreno fertile per nuovi linguaggi. Oltre 200 studenti hanno sviluppato ipotesi per nuove soluzioni per l’ambiente dell’antropocene. I risultati sono stati esposti alla XXII Esposizione Broken Nature, alla Triennale di Milano, nel 2019. Da qui ho iniziato a lavorare tra ambiente accademico come docente e di ricerca applicata nello studio. 

Dal 2020 Aurora Destro è entrata a far parte di Maetherea. Come vi siete conosciute ed avete deciso di portare avanti insieme lo studio? 
Ancora una volta il Politecnico di Milano è stato protagonista in questo: una collega mi ha parlato di Aurora e delle sue ricerche, intuendo che il nostro linguaggio andava nella stessa direzione. E così è stato. 

I progetti dello studio multidisciplinare Maetherea 

Concentriamoci sulle vostre installazioni; sono opere temporanee o permanenti? E come considerate il loro rapporto con gli ecosistemi dove vengono inserite? 
Con una sola eccezione, sono tutte opere pensate per una durata minima di dieci anni, quindi considerate permanenti. La maggior parte dei nostri lavori si inseriscono all’interno di spazi naturali e con essi dialogano. Per esempio Iron Reef, una struttura metallica che si sviluppa armoniosamente verso il cielo, interagisce con le maree, accogliendo la ciclicità del fenomeno. L’opera stessa muta e viene disegnata del vento e dell’acqua portando alla creazione di una evoluzione performativa. 

Come vivete la variabile trasformativa del tempo? Qual è la sua percezione da parte della vostra committenza? 
Accogliamo totalmente la trasformazione, ma allo stesso tempo cerchiamo di prevederla il più possibile, in modo che le strutture possano mutare ma mantenendo le caratteristiche originali che ne permettano la fruizione. A monte c’è un grande studio. Utilizziamo, per esempio, una weathering machine per analizzare il comportamento dei materiali e sottoponendoli a raggi UV, all’umidità e a tutte le forze di stress coinvolte. Solitamente però questa macchina viene utilizzata per minimizzare il cambiamento, noi invece cerchiamo di capire il cambiamento, senza rifuggirlo. Questo approccio può spaventare il committente, perché c’è un margine di imprevedibilità (estetica, non in termini di sicurezza, che invece è ben calcolata). Dopo averli rassicurati, sono poi i primi a cogliere la profondità di questa occasione: la creazione di oggetti a scala architettonica dove il cambiamento è parte della poetica, di strutture che crescono, cambiano o si dissolvono. 

E il cambiamento non passa solo dagli agenti atmosferici e dal mondo vegetale… 
Proprio questo è quello che ci interessa: per noi l’ecologia è considerare la relazione tra tutti gli esseri viventi e il loro spazio; tutte le nostre installazioni prendono in considerazione la correlazione tra le forme di vita e come queste hackerano le nostre opere, in un’ottica simbiotica tra forme vegetali, microrganismi, animali ed esseri umani. Molte specie interagiscono da sempre con le strutture umane, come i nidi di varie specie di uccelli per esempio: noi torniamo a considerare l’architettura e la natura parte di un mondo esteso di cui l’uomo fa parte, integrando tutta la parte fenomenologica. 

Il metodo di lavoro di Maetherea 

La vostra vision è chiara e i vostri lavori molto coerenti. Come riuscite a creare la sinergia di lavoro che porta a questo risultato? 
Tra di noi c’è grande unione di intenti. Anche se spesso lavoriamo da remoto (Cristina a Londra e Aurora dall’Italia) siamo in grande sintonia. Ci avvaliamo inoltre di una rete di collaboratori consolidata, come artisti che si occupano della community engagement e consultazione delle comunità locali nei progetti, e poi ingegneri per la messa a punto dell’ingegnerizzazione e fabbricazione. Nello studio accogliamo spesso stagisti, sempre fonte di nuove contaminazioni. 

Qual è il limite per voi, se esiste, tra arte e architettura? 
Partiamo dal fatto che entrambe siamo un po’ fuggite dall’architettura “canonica”. Progettiamo spazi nell’intersezione tra arte, paesaggio ed architettura, perché crediamo sia il luogo dove è possibile lavorare con un cambiamento di scala estremo, considerando per l’opera dal più piccolo microrganismo ai cicli solari. Lavoriamo per committenze di arte pubblica: il nostro lavoro è architettura perché è generatrice di spazi, che siano punti di osservazione, landmark o luoghi dello stare. Però parlano di integrazione con la natura, di elementi che non hanno una funzione netta come ci si aspetterebbe, la loro funzione è di esistere e di generare nuovi linguaggi. Per cui il limite forse non esiste e allo stesso tempo è infinito. 

Chiudiamo con uno sguardo positivo verso il futuro: chiedo ad entrambe un augurio per l’architettura del domani. 
Cristina Morbi: Spero nel ritorno alla parte radicale e al tempo stesso vernacolare dell’architettura, sperimentando sui materiali e riappropriandosi dei linguaggi ecologici e performativi del tempo. Credo che oggi ci sia troppa distanza tra la progettazione e il fare, anche a causa della difficoltà da parte della committenza di accettare alcune sfide che vadano al di fuori degli schemi. Mi auguro che in futuro si riesca ad essere radicali nella sperimentazione e che si accolga la possibilità dell’imprevedibilità. 
Aurora Destro: Mi auguro che ci sia sempre più spazio per la progettazione degli spazi non solo strettamente funzionali, ma anche quello degli spazi poetici dove fermarsi, osservare, stare, per generare una qualità della vita più alta. 

Silvia Lugari 

https://maetherea.com/ 

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Silvia Lugari

Silvia Lugari

Organizza viaggi ed eventi culturali nell’ambito dell’architettura. Una vocazione che è nata dalla sua formazione universitaria, trasformata in professione. Collabora con Casabella formazione e ProViaggiArchitettura, per i quali si occupata dell'organizzazione di mostre, conferenze e workshop nazionali e internazionali, anche…

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