Intervista a Jago: artista del marmo (e della comunicazione!)

Quando lo paragonano a Michelangelo, lui sorride, eppure Jago negli anni ha ottenuto una visibilità mediatica da capogiro. Mentre a Bologna ha appena inaugurato la mostra che lo affianca Banksy e TvBoy. Ne abbiamo parlato con lui

Dotato di forte senso imprenditoriale, artista e comunicatore di se stesso, in questa lunga chiacchierata Jacopo Cardillo, meglio conosciuto con il nome Jago (Frosinone, 1987), si racconta tra progetti e riflessioni che gli hanno consentito di raggiungere da autodidatta importanti traguardi in Italia e all’estero, non ultima la collettiva Jago, Banksy, TvBoy e altre storie controcorrente, in corso al Palazzo Albergati di Bologna.
Dal suo recente incontro con Tim Cook, amministratore delegato di Apple, ai follower che testimoniano il forte legame con il pubblico, Jago misura il suo tempo, la produzione e soprattutto le parole, che mantengono un equilibrio ben studiato, pensato e pesato.
Il Figlio Velato (2019) ispirata al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, Look Down (2020) installata in piena pandemia in piazza del Plebiscito a Napoli, città dove tra l’altro ha sede il suo studio, la Pietà (2021) in cui sostituisce la figura, il volto della Vergine per fare spazio al suo, sprigionando così tutto il dolore dell’uomo, e poi Habemus Hominem (2011), commissionata nel 2009 dal Vaticano, poi rifiutata perché “non rispecchiava i canoni prestabiliti”, sono solo alcune tra le sue opere più importanti. Reduce dalla prima grande personale, Jago. The Exhibition, a Palazzo Bonaparte a Roma, lo abbiamo intervistato.

Jago. Ph. Dirk Vogel

Jago. Ph. Dirk Vogel

INTERVISTA A JAGO

Con oltre 140mila visitatori, la mostra sembra essere stata un trionfo. Te lo aspettavi?
Ho imparato a non farmi mai aspettative. Nella mia testa è tutto bellissimo, ma poi vengo categoricamente disilluso, allora su cosa potevamo concentrarci? Sulla qualità, cercando di offrire un’opportunità sempre condivisa con tutti quelli che hanno partecipato al mio lavoro. Dopo sedici anni di comunicazione per una crescita collettiva, questo ha evidentemente prodotto un risultato che non voglio definire ovvio, ma giusto, in quanto chi è venuto a vedere la mostra è venuto a vedere cose che lo riguardavano da anni. Non sarei mai stato in grado di misurare questo risultato e in realtà non so quali siano i numeri buoni o meno buoni, ma ho imparato, in questa occasione, che si tratta di un grande risultato.

Quando hai realizzato che qualcosa stava davvero cambiando nella tua carriera?
In questo lungo lasso di tempo mi è capitato di incontrare persone che magari non frequentavo quotidianamente e mi facevano notare che effettivamente c’era stata una crescita. Per me quella crescita era la realizzazione di una prospettiva e gradualmente mi avvicinavo a quelli che erano i miei progetti. L’aspetto che mi interessa nella mia operazione artistica sta nella condivisione delle cose che faccio, perché la mia scultura è compiuta nella sua comunicazione: nel modo in cui è condivisa, in cui si relaziona agli altri, in cui gli altri hanno partecipato, hanno visto e seguito la sua realizzazione in ogni fase del dietro le quinte. I social mi hanno permesso di misurare un andamento che tecnicamente si misura in numeri, ma dietro quei numeri ci sono delle persone con cui cerco di stare in contatto umanamente il più possibile, perché quelle stesse persone sono in grado di dare tutto il valore all’opera.

A proposito di arte e social network, il successo di un artista oggi sembra necessariamente, o quasi, legato anche al numero di follower. Quanto è vero nel tuo caso?
Ciò che dici è sicuramente giusto, questa è l’immagine che ci arriva perché è un qualcosa che si misura con i numeri, con i follower. Ma oggi l’artista non è chiamato a essere il tizio che misura il proprio risultato con quel tipo di numeri, perché te li puoi anche comprare, bisogna vedere quello che c’è lì dentro. Oggi l’artista è chiamato a essere anche imprenditore.
In questo modo può misurare il proprio lavoro, quindi tornare a essere una figura indipendente che non ha bisogno di nessuno che parli per lui, che sappia presentarsi al pubblico, che sia in grado di interloquire con qualsiasi soggetto di carattere istituzionale e che sappia misurare il proprio impatto a livello sociale. L’opera e l’operazione artistica hanno sempre un impatto sociale e partecipano alle dinamiche di riqualificazione, della politica addirittura. L’artista è chiamato a dover essere in grado di poter condividere l’impatto sociale che ha la sua opera: che cosa stai producendo? In che modo stai partecipando al progresso?

Jago, Habemus Hominem

Jago, Habemus Hominem

ARTE E COMUNICAZIONE SECONDO JAGO

Con quasi 800mila follower solo su Instagram, hai un team che ti segue per la comunicazione?
Come i follower che crescono, a un certo punto quando cresci diventi un’azienda. Sono accompagnato infatti da gente di estrema fiducia, anche di famiglia, e questo è un valore aggiunto. Mi interessa molto poco l’applauso fine a se stesso per la mostra, perché per natura sono cose che iniziano e finiscono; a me interessano invece le cose che rimangono. Mi interessa il mio percorso culturale, mi interessa poter diventare una risorsa per gli altri e creare posti di lavoro. Questo è quello che so di poter fare e quello che voglio fare. A me interessa l’aspetto imprenditoriale di tutto questo, perché è la nuova dimensione della poesia.

Perché hai scelto di non essere rappresentato dalle gallerie d’arte?
La galleria è un sistema fatto di persone: hanno un loro gusto e partecipano a determinate dinamiche perché hanno un loro mercato. Durante un breve periodo, mi è capitato di intercettare questo mondo, ma ho compreso ancor meglio che non potevo farne parte. Inizialmente, quando ho frequentato le scuole che poi ho lasciato, l’idea generale era quella di studiare e poi di cercare qualcuno che ti rappresentasse, ma non è l’unico sistema, a meno che tu non ne sia attratto e abbia bisogno di un servizio che parli per te.
In quel periodo, però, già facevo cose che non corrispondevano minimante a quello che poteva funzionare nelle gallerie, quindi capii ben presto che quella non poteva essere la mia strada.

Che cosa accadde quindi?
Appena lasciata l’accademia, se volevo sopravvivere, avrei dovuto creare un sistema diverso, così decisi di considerare i social network un’opportunità: una galleria virtuale, con un clic potevi arrivare nel mondo, “gratis”.
In questo modo, tutto quello che una galleria avrebbe potuto fare per te, lo potevi fare te per te stesso, quindi l’investimento è stato molteplice perché mi mettevo nella condizione di diventare tutte quelle figure professionali che altrimenti avrei dovuto cercare altrove e dalle quali probabilmente sarei dovuto dipendere. Ho creato un altro mercato, un altro sistema che oggi pare essere quasi ovvio. Le cose poi trovano la giusta dimensione e sono molto felice di poter dire che quello che c’è oggi è totalmente autogenerato.

Dalla stampa sei stato spesso definito “il nuovo Michelangelo”, cosa rispondi in proposito?
Che si sono sbagliati! Mi fa sorridere questa cosa, però l’analisi è quella della comunicazione: quando c’è un fenomeno, una novità o un qualcosa che accade, umanamente creiamo delle associazioni e lo facciamo un po’ tutti per vari motivi. Ma sono convinto che chi lo ha detto la prima volta, o continua a dirlo, non lo dice perché ne è convinto. Magari le persone neanche hanno idea della storia di Michelangelo, quindi non pensano che io sia la versione contemporanea del grande maestro, ma così possono dire velocemente che scolpisco il marmo come ha fatto lui. Senza andare in profondità, perché chiaramente non c’è paragone!

Jago, Pietà. Ph. Massimiliano Ricci

Jago, Pietà. Ph. Massimiliano Ricci

JAGO E NAPOLI

Da alcuni anni il tuo studio si trova nella chiesa barocca di Sant’Aspreno ai Crociferi, nel borgo dei Vergini nel rione Sanità a Napoli. Perché questa scelta? Com’è il tuo rapporto con il territorio?
Perché nel quartiere Sanità c’è il futuro, c’è terreno fertile e creatività. Ho scoperto persone che si danno da fare; sono scultori dell’umanità, sono persone che plasmano materiale umano. Ho scoperto questa energia durante la mia frequentazione avvenuta in un determinato periodo e mi sono reso conto che era un luogo dove si potevano fare cose molto importanti proprio perché è mosso da questa fame di posizionamento e di riqualificazione. È un luogo che ha tutte le carte in regola per essere uno dei centri culturali più importanti d’Italia, perché è una realtà che sta già vincendo tutto dal punto di vista della qualità e dell’accoglienza. Ho conosciuto persone fantastiche e lì poi scegli: o investi e fai un gesto e partecipi, oppure torni da turista, quindi, dopo New York, ho deciso semplicemente di trasferirmi a Napoli e iniziare un percorso che continua.

Recentemente hai incontrato Tim Cook, amministratore delegato di Apple, che ha ricevuto la laurea honoris causa all’Università Federico II di Napoli. Come mai questo incontro nel tuo studio? Cosa vi siete detti?
Abbiamo parlato di tantissime cose ed è stato bellissimo poterlo ospitare. Le domande che mi fai tu me le ha fatte lui ed è stata una bella lezione di imprenditorialità; è un grande manager e grande ascoltare perché fa le domande giuste, ti mette nelle condizioni di farti delle domande con lo spirito di chi è curioso e proiettato verso il futuro. Loro si occupano di persone e di creatività e non mi sento lontano da questo principio.
In qualche modo facciamo la stessa cosa perché creiamo in quantità diverse anche delle opportunità; come in un’opera d’arte, esattamente anche nello smartphone puoi mettere da una parte i tuoi contenuti e dall’altra i tuoi punti di vista, i tuoi significati e questi sono sempre gesti di restituzione. Quando fai una cosa del genere poi la condividi, quindi ti circondi di persone che possano darti dei punti di vista diversi sul tuo lavoro. È stato un bel momento, che ha aperto prospettive personali, culturali.

Quindi presto ci sarà una collaborazione con Apple?
Magari già esiste, chi lo sa! Non posso sbilanciarmi. Utilizzo i loro dispositivi da tantissimo tempo. Quando ho iniziato a occuparmi di comunicazione, avevo bisogno di realizzare anche i video, ma con il computer era scomodo, così capii che se utilizzavo uno smartphone, il migliore era quello per occuparmi di tutto. Lo comprai con i soldini che al tempo avevo messo da parte, quindi ci sono molto affezionato.

Spesso le tue sculture trovano spazio nelle chiese, anche in riferimento al soggetto che scegli di plasmare nel marmo. Qual è il tuo rapporto con la religione?
Ho un rapporto con la spiritualità, la religione invece è molto più intima e si va su un terreno che probabilmente non mi riguarda. La spiritualità riguarda tutti quanti: credere, avere fiducia in se stessi e in quello che si può fare; a me interessano questi valori, che si ritrovano in ogni religione, raccontati con parole e concetti diversi. Questo non ha niente a che vedere con la Chiesa.

Jago, Airavata, 2015, marmo statuario e ferro

Jago, Airavata, 2015, marmo statuario e ferro

ARTE E PROTESTA SECONDO JAGO

Con lo scopo di lanciare un’asta di beneficenza e un messaggio contro il razzismo, con Sono pronto al flagello (2022), esposta sul Ponte degli Angeli a Roma, hai subito un ennesimo sfregio alla tua produzione. Come interpreti questi gesti? Bisogna fare ancora molto per tutelare l’arte, soprattutto da parte dei giovani?
Mi ricordo che, quando ero bambino, per capire le cose le rompevo, poi ho trasformato questo gesto in uno creativo perché si può rompere anche per creare, ma anche rompere per rompere. Alcune persone magari non hanno superato quella fase e quindi continuano a fare quei gesti per capire nel tentativo di dire qualcosa. Ci sono dei video in cui sette ragazzi hanno gambizzato l’opera e credo che abbiano sicuramente cose da dire, mi incuriosisce saperlo. Vorrei conoscerli per ascoltarli, perché quel gesto ha un grande valore, nonostante possiamo dire delle cose in merito al danneggiamento, ma c’è energia dietro tutto questo. Sarei stato uno stupido se non avessi immaginato un’azione del genere, ma questo partecipa al racconto: il significato di quell’opera si arricchisce del loro gesto e sarebbe interessante capire perché lo hanno fatto.

Ultimamente le proteste degli attivisti nei musei sono sempre più frequenti. Un artista come dovrebbe porsi per contribuire alla sensibilizzazione sulle emergenze sociali e ambientali?
Questo è un fatto un po’ diverso perché ci sono delle regole, stai entrando in una “casa” e non va bene. Ci sono tanti modi per raccontare le cose, lì c’è solo il desiderio di attirare attenzione. Sono cresciuto ad Anagni e, a casa mia, quando dicevano “quello fa l’artista”, volevano dire “quello non sa che fare nella vita” e sono cresciuto con questa idea. Quindi se faccio un gesto artistico deve poter avere una funzione che non sia solo quella di ricevere applausi.
Il gesto creativo contribuisce ad aumentare i valori all’interno del vocabolario delle nostre emozioni.

NFT: cosa ne pensi? In futuro realizzerai opere digitali?
La parola NFT è ancora sinonimo di “vendere”, ma secondo me questa è l’ultima parte, quindi intanto osservo e studio. Capisco anche che c’era un settore americano di persone con grandi capitali, magari della Silicon Valley, che erano molto poco interessate al mondo dell’arte, così, costruendo un prodotto nuovo e tecnologico, che potesse essere appetibile per quei miliardari, si è creato un mercato nuovo. Però basta fare una ricerca per vedere il livello, la deriva, che abbiamo raggiunto. Ma credo che sia un linguaggio interessante. In questo momento non ho nessuna esigenza di fare qualcosa perché la fanno gli altri.

Recentemente è stata inaugurata la collettiva Jago, Banksy, TvBoy e altre storie controcorrente a Palazzo Albergati a Bologna. Come nasce la scelta di associare la tua produzione in marmo con l’arte urbana?
Realizzata con Arthemisia, la mostra riunisce, oltre alle mie opere, anche quelle di TvBoy e Banksy; è una collezione italiana e secondo me è molto interessante che la visitino anche i galleristi per vedere il tenore del collezionismo in Italia in questo momento.
Non vedo nessuna differenza tra la mia arte e la loro. Mi capita spesso di leggere “lo street artist Jago”, quindi osservo molto quello che si comunica e che si genera automaticamente, non da me; il gesto di installare un’opera in marmo in strada non lo vedo minimamente diverso dal fare un graffito su un muro. Sarebbe bello poter dire di trovarsi nel bel mezzo dell’evoluzione, ma in fondo l’evoluzione non si ferma mai, quindi tutto quello che noi facciamo può diventare pretesto per aggiungere delle cose o leggerle in modo diverso.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Non è visibile, ma ho appena finito di scolpire a Napoli l’opera Aiace e Cassandra, in cui si parte da una scena storica, mitologica, anche per raccontare altro. Poi sto lavorando a una serie di nuove sculture e dal 2017 continuo il progetto del David. Le altre cose non te le dico, le scoprirai all’improvviso!
Vorrei realizzare quasi un’opera all’anno, quella giusta, ma non sono ancora in quella condizione, ho una produzione un po’ più grande, ma sempre molto limitata. Io faccio poche cose e, quando morirò, probabilmente avrò fatto poche opere, ma spero saranno quelle giuste.

Fabio Pariante

https://jago.art/it/

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Fabio Pariante

Fabio Pariante

Docente e giornalista freelance, è laureato magistrale in Lingue e Comunicazione Interculturale in Area Euromediterranea con tesi in Studi Interculturali dal titolo "La Primavera Araba nell’era del web 2.0: il ruolo dei social network". Nel 2011, con il patrocinio della…

Scopri di più