Presente e futuro di Magazzino Italian Art, l’istituzione che porta l’arte italiana in Usa

Parola a Vittorio Calabrese, direttore dell’istituzione americana che dal 2017 offre al pubblico statunitense l’opportunità di ammirare la collezione di Nancy Olnick e Giorgio Spanu. Un punto di riferimento per l’arte italiana oltreoceano

Per Magazzino Italian Art, museo di arte italiana a circa 80 chilometri a Nord di New York, è tempo di bilanci di fine anno e progetti per il futuro. L’istituzione culturale, nata nel 2017 per rendere accessibile al pubblico la collezione messa insieme negli anni dall’americana Nancy Olnick e dal marito di origini sarde, Giorgio Spanu, è ormai un punto di riferimento imprescindibile nel panorama della cultura italiana d’oltreoceano. Con quattro anni di intensa attività alle spalle e una pandemia superata senza troppi contraccolpi, il museo si prepara a espandersi, mentre si rafforza il rapporto con la comunità locale e crescono le collaborazioni con le istituzioni culturali newyorchesi. Ne abbiamo parlato con il direttore Vittorio Calabrese.

INTERVISTA A VITTORIO CALABRESE

Magazzino è una realtà ancora relativamente giovane, ma nel giro di pochi anni si è conquistata uno spazio importante con una programmazione che continua a espandersi. Qual è la mission dietro tutte queste iniziative?
Magazzino nasce davvero come un magazzino d’arte. All’inizio non sapevamo se il territorio avrebbe raccolto la sfida: un museo di arte italiana nella Hudson Valley sembrava una follia. Ma il pubblico è arrivato, sia quello locale che quello di New York, e queste sono oggi le nostre due comunità di riferimento: quella più immediata di Cold Spring e quella della città che, con la pandemia, è diventata ancora più vicina perché tante persone si sono trasferite da New York nella Hudson Valley. La visione dei due fondatori, che sono collezionisti e mecenati, è di creare un’istituzione che possa presentare l’arte italiana in un contesto globale ma con radici forti sul territorio. Siamo un museo americano che sviluppa una programmazione con alla base l’arte italiana ma in costante dialogo con il contesto americano e internazionale. La formula è: arte di qualità accessibile a tutti. L’aspetto filantropico del progetto, il voler condividere la programmazione con il pubblico, è importante. L’altro aspetto è quello della ricerca e delle scholarship accademiche: vogliamo essere un incubatore per progetti curatoriali e programmi di ampio respiro.

Siete arrivati in questo territorio con una presentazione dedicata a una corrente, l’Arte Povera, che in America non è certo la prima cosa cui si pensa quando si pensa all’arte italiana. Che visione portate su questo lato dell’oceano? E quali strategie di promozione della cultura italiana negli USA animano la vostra programmazione?
Magazzino è un museo che parte dall’Arte Povera per fare un discorso più ampio. L’Arte Povera è l’ultima avanguardia italiana, un movimento che si è sviluppato come comunità ma ha anche dato forma a delle individualità in un momento storico di cambiamento che possiamo mettere in parallelo con quello che stiamo vivendo. I temi che emergono dalla collezione costruiscono le basi della programmazione: un approccio comunitario che va oltre il linguaggio convenzionale, l’impegno politico e la riflessione sulla storia e la dimensione della memoria. I nostri programmi di ricerca mirano a generare una riflessione su temi non ancora esplorati dell’Arte Povera, per creare un linguaggio con cui poter poi parlare di arte contemporanea qui negli USA. E farlo con voci nuove, scardinando il controllo della narrativa sull’arte italiana, creando approcci curatoriali inediti.
È un modello aperto, collaborativo e indipendente dall’idea storicizzata di arte italiana. Calare nell’ambito newyorchese, che è ancora il più globale e avanzato, un discorso sul linguaggio con cui si affrontano certi temi significa inserire un approccio italiano in un contesto globale. Non vogliamo essere una colonia dell’arte italiana negli USA, ma un ponte e una risorsa per il contesto internazionale, sia accademico sia curatoriale.

Namsal Siedlecki, Trevis Maponos, 2021. Magazzino Italian Art in Cold Spring, New York. Photo Marco Anelli. Courtesy Magazzino Italian Art

Namsal Siedlecki, Trevis Maponos, 2021. Magazzino Italian Art in Cold Spring, New York. Photo Marco Anelli. Courtesy Magazzino Italian Art

L’ARTE ITALIANA NEGLI STATI UNITI

L’influsso di Magazzino sulla cultura e l’arte italiane a New York è di ampio raggio. Collaborate con il Consolato e l’Istituto di Cultura, con la Casa Italiana NYU, con l’Italian Academy. In che modo pensi che la presenza di Magazzino arricchisca il panorama della cultura italiana a New York?
Noi siamo gli ultimi arrivati, ma siamo qui per restare. Nel mondo diplomatico c’è un forte turnover e frequenti cambiamenti di leadership e approccio. Noi vogliamo essere un riferimento stabile. Da poco abbiamo un nuovo ambasciatore a Washington e un nuovo console e un nuovo direttore dell’Istituto qui a New York, con cui confermiamo la collaborazione mentre ci facciamo testimoni dell’importanza di legarsi al territorio. Ci interfacciamo con l’Italia con un modello americano. Vogliamo aiutare ad aprire delle finestre in contesti in cui l’arte italiana può fungere da soft power, per mostrare il meglio dell’Italia, con continuità. Con le università, poi, il rapporto è naturale perché lavorare con gli studenti è complementare alla nostra missione. Molti dei dipartimenti di italiano sono sbilanciati su letteratura e cinema, noi vogliamo completare con l’arte visiva.

Tra le iniziative in collaborazione con l’Istituto la più recente è la mostra di Namsal Siedlecki appena conclusasi. Come è nata?
Tre anni fa, avevamo invitato Namsal a lavorare con il nostro team curatoriale per realizzare una mostra a New York con lavori inediti. Il progetto si inserisce all’interno della nostra programmazione in collaborazione con la Casa italiana NYU mirata a giovani artisti che non hanno mai esposto a New York e segue le mostre di Renato Leotta, Alessandro Piangiamore, Ornaghi & Prestinari. La pandemia aveva già ritardato il progetto. Quest’anno, con la NYU ancora chiusa al pubblico per via del Covid, non abbiamo potuto realizzare la mostra da loro e così abbiamo creato questa triangolazione coinvolgendo l’Istituto, che nel frattempo è stato rinnovato dalla nuova direzione e abbiamo quindi approfittato della nuova sala appena creata. Il progetto si è evoluto con il momento storico. È una riflessione sull’idea di tempo e di viaggio.

Poco prima, sempre questo autunno, avevate portato a New York Cristian Chironi e la sua Fiat 127…
La performance di Chironi fa parte della programmazione legata all’idea di comunità. È un programma biennale partito con Michelangelo Pistoletto nel 2017 e poi Marinella Senatore nel 2019. L’obiettivo è portare l’arte fuori dai musei e alle persone, come dice Pistoletto stesso. Chironi era poi interessante anche per il legame con Nivola, di cui è in corso la mostra a Magazzino [entrambi sono originari di Orani, e Chironi ha un legame familiare con Nivola al cui lavoro ha fatto più volte riferimento nei suoi progetti, N.d.R.]. I colori della carrozzeria della 127, che Cristian modifica a ogni performance, in questo caso erano ispirati a uno dei primi totem sand casting policromi di Nivola. Ma il lavoro di Chironi ha una vita separata da Nivola.

Ovvero?
Con i suoi giri in auto, Chironi crea una sorta di spazio domestico mobile attraverso cui, in questo caso, ha esplorato la comunità artistica e italiana di New York, quella di Springs, dove abitava e lavorava Nivola, e quella di Cold Spring, che è la comunità di Magazzino. La ricchezza di storie che ne è derivata è incredibile: le conversazioni in macchina hanno spaziato dall’architettura alla Sardegna alla Fiat. Abbiamo registrato tutto per farne poi un film. Erano settimane di grande fermento e rilancio a New York e la città ha dato il suo meglio, tanto che la 127 quasi cinquantenne ha rischiato di cedere al traffico newyorchese. Ma siamo riusciti a sistemarla grazie a un gruppo di esperti queer di auto europee storiche. Questa commistione e ricchezza di umanità è alla base di New York e anche di quello che cerca di fare Magazzino, che vuole creare un contesto vivo che mette le persone al centro.

In che modo?
Per i nostri fondatori, al centro ci sono l’artista e la comunità. Magazzino nasce anche dal fatto che Giorgio e Nancy ospitavano artisti a New York. L’idea è di ridare centralità all’artista, che spesso è schiacciato dal mercato o da altre dinamiche. Gli artisti devono avere delle piattaforme per sognare.

Cristian Chironi, New York Drive, 2021 performance. Photo Alexa Hoyer. Courtesy Magazzino Italian Art

Cristian Chironi, New York Drive, 2021 performance. Photo Alexa Hoyer. Courtesy Magazzino Italian Art

PROGETTI E OBIETTIVI DI MAGAZZINO ITALIAN ART

Da una parte portate artisti italiani dall’Italia, dall’altra create spazi anche per gli artisti italiani di base qui per essere visti e scoperti dalla cultura americana, come avete fatto con Homemade ma anche con artisti del passato, come Nivola. Secondo te ha ancora senso oggi perseguire delle politiche culturali identitarie o nazionali?
Crediamo nell’idea di una cultura italiana e di alcuni aspetti che caratterizzano la struttura del mondo dell’arte italiano, i messaggi forti che determinano la nostra italianità: la dimensione storica, della comunità e della politica. L’attenzione a questi aspetti determina la nostra programmazione. Non credo in un’idea di arte italiana come arte di passaporto tout court. Prendiamo Namsal: dal nome non si direbbe che sia un artista italiano, ma poi nella metodologia di lavoro, nei riferimenti, nella curiosità, vedi dei tratti che si determinano come generazionali per un gruppo di artisti italiani che hanno sviluppato temi simili. Ci sono aspetti e valori che portiamo avanti che vengono dalla missione del nostro spazio. Cos’è della nostra programmazione che si connota di più come italiano? Direi una proiezione verso la globalità e la volontà di comunicare linguaggi che vanno oltre l’Italia, una foga di connettersi che è anche forte nell’Arte Povera, un superare i limiti geografici e di linguaggio e allo stesso tempo fare un’arte impegnata che determina una comunità, che si fa voce ed elemento di cambiamento.

A proposito di cambiamento, negli ultimi anni la cultura americana è stata attraversata da potenti trasformazioni che la stanno portando a riconoscere la mancanza di spazi nella cultura per le minoranze etniche. In che modo Magazzino ha interiorizzato questo dibattito?
Per noi questa è una cosa molto seria, anche perché siamo in un territorio che è molto più diversificato di quello che sembra e che ha ancora dei problemi. Cold Spring ha questa facciata da sogno americano, da casa delle bambole, sono i luoghi in cui è nata l’America, siamo di fronte all’accademia militare di West Point e allo stesso tempo a cinque minuti da Magazzino c’era il Ku Klux Klan. Per cui viviamo nel quotidiano le questioni della rappresentazione, della diversità e dell’equità. Guardando al pubblico del museo, la demografia ci dice che c’è una specifica prevalenza e quindi siamo consapevoli che ci sia un problema strutturale, non solo nei visitatori che riusciamo ad attirare ma anche tra gli operatori.

Quali soluzioni ci sono?
Bisogna lavorare per rendere il sistema più diversificato ed equo all’origine e noi ci siamo posti il problema ancora prima di aprire. Bisogna partire dall’infrastruttura, non mi improvviserei su temi sbilanciati senza avere la struttura, non si può partire dalla programmazione, ma dall’istituzione, dalle politiche interne, dal modo in cui si lavora. Abbiamo identificato programmi per il nostro team per assicurarci di avere il linguaggio giusto per parlare di questi temi e per poter realizzare l’equità nel concreto. In qualche modo noi qui siamo stranieri, quindi abbiamo dovuto studiare per portare nel contesto americano un’esperienza italiana che parli di questi temi, con le dovute distinzioni, ma con un linguaggio e un approccio americano. In questa direzione va l’iniziativa Pensiero Plurale, sviluppata con la curatrice Ilaria Conti: una serie di incontri con diversi protagonisti delle social justice e della black Italia. Vogliamo raccontare il paese reale con gli strumenti che ci sono in America per parlare di questi temi; riscoprire narrative nuove con il linguaggio appropriato. L’Italia ha un problema di linguaggio e, anche se non ci si può fermare lì, il linguaggio è importante.

Magazzino Italian Art, Cold Spring, New York. Courtesy Magazzino Italian Art, New York. Photo Javier Callejas

Magazzino Italian Art, Cold Spring, New York. Courtesy Magazzino Italian Art, New York. Photo Javier Callejas

L’ESPANSIONE DI MAGAZZINO ITALIAN ART

A fine 2020 avete annunciato l’apertura di un nuovo padiglione. Sono iniziati i lavori? A che punto siete?
Il cantiere è aperto. Al momento c’è un grosso buco, il solco per le fondamenta, e stiamo iniziando a immaginare la nuova ala in negativo: non vediamo l’ora. Il nuovo padiglione ospiterà la programmazione temporanea, mentre quello già esistente consoliderà la collezione di Arte Povera. Avremo anche una galleria dedicata al design e una sala per la didattica per i piccoli. E poi la cosa gustosa è che avremo finalmente un caffè, una zona ristoro. La programmazione seguirà le trasformazioni dello spazio: avremo una mostra annuale importante cui si aggiungeranno mostre del contemporaneo e ultra contemporaneo, con artisti mid career fino ai più giovani, avremo mostre di vetri di Murano [una parte importante della collezione Olnick Spanu, N.d.R.], e, nel giardino, opere site specific e i famosi asinelli sardi che ormai sono diventati sedici e sono una delle nostre principali attrazioni. Stiamo creando uno spazio più versatile, un autentico campus, realizzando quasi completamente la visione di Nancy e Giorgio.

Con l’espansione si consolida la vostra presenza nella Hudson Valley, una zona con una forte vocazione verso l’arte contemporanea che, come dicevi anche tu, diventa culturalmente sempre più vicina alla città. Avete avviato collaborazioni con altre istituzioni culturali dell’area? Esiste una strategia o una visione condivisa?
Ci stiamo lavorando e quest’anno avremo un’importante collaborazione con un’istituzione locale su un progetto legato al design. E già siamo elemento di supporto e raccordo in una programmazione locale che include l’arte italiana. Promuoviamo artisti italiani nelle istituzioni artistiche locali e collaboriamo costantemente con la leadership della nostra comunità. E il pubblico sta crescendo con noi e ci manda un continuo feedback di interesse e coinvolgimento. Anche il progetto di espansione è parte di un investimento nella comunità e ha effetti sull’economia locale: raddoppiare l’esperienza a Magazzino significa più turismo, più persone impiegate, significa generare indotto e ottimismo, non solo rispetto al progetto ma anche rispetto al contesto e alla domanda di cultura che cresce costantemente. Già ora nei fine settimana abbiamo il parcheggio pieno, abbiamo bisogno di più spazio e il Robert Olnick Pavilion sarà un modo per assorbire tutte queste energie.

Quando dovrebbe essere completato?
Nella seconda metà del 2023, ma non lo possiamo dire con certezza perché dipenderà molto dall’inverno che avremo quest’anno. Se il tempo reggerà andremo avanti con i lavori, altrimenti dovremo fermarci e aspettare la bella stagione.

Quindi per tutto il 2022 andrete avanti con gli spazi esistenti. Cosa avete in programma?
Consolidiamo il programma espositivo, con una mostra storiografica di un artista contemporaneo vivente molto importante e rilevante in questo momento storico. Purtroppo non posso dire di più. In autunno avremo poi una mostra di un artista più giovane e una programmazione che toccherà anche il design.

Maurita Cardone

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro. Dal 2011 New York è…

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