Centrale Fies: un nuovo polo di ricerca permanente per le arti performative

Dal festival alla ricerca. È questo il percorso compiuto da Centrale Fies, a Dro, polo di eccellenza nel campo delle arti performative. Ne abbiamo parlato con i curatori.

Un lavoro di mutamento in corso fin dall’ultima edizione del festival, una decisione maturata in anni di lavoro e riflessione. Abbandonando la forma festivaliera a cui eravamo abituati, oggi, 28 maggio, Centrale Fies inaugura il suo centro di ricerca permanente. La scelta è quella di favorire gli aspetti di produzione e sostegno agli artisti, accogliendo il pubblico non più una sola volta durante la stagione estiva ma con più appuntamenti frastagliati lungo tutto l’anno. I temi attorno a cui maturano i progetti riflettono la complessità del presente con maggiore forza e pregnanza in questa forma rinnovata: dalle migrazioni alle questioni di genere, dal significato di famiglia a temi più prettamente artistici come quello della conservazione della performance.
Confermando la volontà di una curatela collettiva, sotto la direzione di Barbara Boninsegna, questa intervista a più voci è volta a mettere in luce i punti di svolta e i cambiamenti in corso.

Centrale Fies. Curatori Agitu Fellowship. Photo Roberta Segata. Courtesy Centrale Fies

Centrale Fies. Curatori Agitu Fellowship. Photo Roberta Segata. Courtesy Centrale Fies

L’INTERVISTA COLLETTIVA A CENTRALE FIES

Quale riflessione e processo vi hanno portati al cambiamento in atto?
Barbara Boninsegna: Abbiamo sentito l’esigenza e la necessità di aprire al pubblico la nostra parte più fragile, quella quotidiana e fallibile, per mostrare e condividere il processo, non solo il finale ben confezionato e comunicato ma quello che accade dentro: la ricerca, il tempo, lo studio. Questo vuol dire che da maggio in poi Centrale Fies si aprirà durante dei fulcri di lavoro annuali: le residenze artistiche, i meeting con musei, teatri e festival europei, Free School…

Thank you for coming è il titolo di questo primo weekend di apertura al pubblico che curi con Barbara Boninsegna. Quale esortazione volevate rivolgere a chi verrà ad assistere al programma?
Marco D’Agostin: Desideravamo ringraziare anticipatamente lo spettatore e immaginare un suo stare dolce, quieto. Il programma si compone di esperienze che possono essere vissute a discrezione e che immergono in uno spazio di intimità, estremamente confidenziale; gli oggetti più spettacolari invece mettono in primo piano elementi biografici che chiedono di essere ascoltati come segreti, dialoghi privati. Gli appuntamenti musicali, immersi nel paesaggio, offrono un luogo di riposo e commozione.

Come si è evoluto e come è cambiato Live Works in questa nona edizione, che si definisce “summit”, nei confronti di artisti e spettatori? Cosa ci dici della nuova fellowship dedicata ad Agitu Ideo Gudeta?
Simone Frangi: Fin dallo scorso anno, anche per rispondere alle esigenze della pandemia, le occasioni di residenza nella struttura e nelle strutture partner si sono triplicate, il budget di sostegno è raddoppiato e l’accompagnamento curatoriale si è strutturato come una consulenza produttiva sul lungo termine. Direi che il modo in cui abbiamo reagito alle condizioni di emergenza ha reso il progetto ancora più forte e forse necessario in un panorama di “festivalizzazione” delle pratiche degli artisti e di erosione dei contributi economici e strutturali. A rafforzare ulteriormente questa filosofia di presa di responsabilità profonda, la fellowship dedicata ad Agitu si focalizza sulla possibilità di sfruttare determinate dinamiche istituzionali per azioni affermative (affermative action) anti-razziste.

Marco D'Agostin, Saga. Photo Alice Brazzit

Marco D’Agostin, Saga. Photo Alice Brazzit

MIGRAZIONE E FEMMINISMO A CENTRALE FIES

In che modo i tuoi studi e le tue ricerche nell’ambito della filosofia politica, attorno ai temi del razzismo, delle migrazioni, dei colonialismi, incontrano e hanno incontrato Live Works?
Mackda Ghebremariam Tesfaù: Live Works è uno spazio di sperimentazione all’interno del quale questi temi sono già attraversati. Quello che abbiamo aggiunto con la fellowship è un focus sull’Italia. E il voler lavorare affinché vengano implementati modelli di inclusione. Questo nasce dalla consapevolezza che il razzismo è un fenomeno strutturale, per rispondere al quale abbiamo bisogno di strumenti dedicati.

In che modo la tua pratica artistica, che attraversa performance e new media, incontra il lavoro curatoriale per Live Works? Il Black History Month Florence, da te fondato in Italia, cosa indaga/produce?
Justin Randolph Thompson: La mia pratica artistica e il mio lavoro come attivista, educatore, curatore sono tutti ancorati a una problematizzazione delle narrazioni storiche, alla ricerca di strategie per la fruizione della collettività e di un approccio tattico. La collaborazione con Live Works è un’estensione di questa visione. A Firenze la mia pratica spinge per una ricalibrazione del valore sociale, economico e metaforico attorno a persone e culture afrodiscendenti in Italia.

Quali sono state le riflessioni che hanno condotto la rete APAP a dare una direzione “femminista” al proprio operato, attraverso soprattutto il Feminist Futures Festival che sarà ospitato da Centrale Fies? In che modo avete lavorato?
Filippo Andreatta: Ci siamo interrogati su come ciascuna istituzione potesse scardinare dinamiche di potere tipiche del nostro settore. Una conseguenza è che APAP ora è un network europeo in cui non sono esclusivamente le istituzioni a proporre gli/le artisti/e che ne fanno parte ma gli/le artisti/e stessi/e. Da questo trapela un femminismo che non si limita a questioni di genere, ma vuole essere uno strumento intersezionale con cui affrontare la realtà. APAP Feminist Futures Festival è un progetto itinerante, composto da undici momenti europei. A Centrale Fies accogliamo il primo passo.

Immagine coordinata ideata da Centrale Fies per il progetto quadriennale Feminist Future della rete europea APAP

Immagine coordinata ideata da Centrale Fies per il progetto quadriennale Feminist Future della rete europea APAP

IL FUTURO DI CENTRALE FIES

La collezione di opere performative di Centrale Fies da te curata aprirà al pubblico in inverno con una nuova mostra. Può una collezione raccontare l’esperienza e l’essenza della performance?
Denis Isaia: Con gli artisti ci siamo chiesti se è possibile esplorare altre modalità di riattivazione della performance rispetto a re-enactment e testimonianza fotografica. Le risposte sono state diverse, con due tendenze: sintetizzare la performance in un messaggio che evochi una presenza o una condizione; ibridare l’oggetto e l’evento, caricando l’oggetto di caratteristiche performative.

INBTWN è una galleria virtuale a cui lavori da quasi un anno per Centrale Fies. A quali bisogni risponde il progetto?
Claudia D’Alonzo: L’idea nasce dall’esigenza di sperimentare su formati compatibili con le forti limitazioni che da marzo 2020 hanno caratterizzato la produzione artistica. Da una parte la riflessione sul corpo e su come le tecnologie influenzino le relazioni tra corpi e ambiente, dall’altra lavori creati per il web, reimmaginando di volta in volta il layout e la navigazione del sito. L’edizione 2021 sarà incentrata sul suono, sulle dimensioni invisibili dei corpi, dopo un anno in cui abbiamo sperimentato la capacità degli schermi e della visione frontale di irreggimentare i corpi e i modi di sentire.

Chiara Pirri

www.centralefies.it

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Chiara Pirri

Chiara Pirri

Chiara Pirri (Roma, 1989), residente a Parigi, è studiosa, giornalista e curatrice, attiva nel campo dei linguaggi coreografici contemporanei e delle pratiche performative, in dialogo con le arti visive e multimediali. È capo redattrice Arti Performative per Artribune e dal…

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