Inpratica. Nuove noterelle sull’Italia (VI)

Collegare cervelli vivi, farli avanzare, farli evolvere attraverso una lingua morta è un’operazione impossibile. Se volessimo citare Nanni Moretti, “le parole sono importanti”. Ed è sulla lingua che si concentra questa sesta puntata del saggio di Christian Caliandro.

Pochi […] intendono che l’8 settembre 1943, e non il 10 giugno 1940, è il vero giorno dell’entrata in guerra degli italiani. Per una significativa combinazione, questo giorno fatale segna non uno, ma due rifiuti del popolo italiano: quello di continuare la guerra contro il vecchio nemico, e quello di iniziarla contro il nuovo, l’alleato di ieri. Ma ciò che il popolo italiano non ha potuto rifiutare, perché non dipendeva dalla sua volontà, è di iniziare la guerra contro se stesso, guerra di espiazione e di purificazione, sanguinoso esame di coscienza di una moltitudine di Caini di fronte al Signore” (Salvatore Satta, De profundis [1945], Adelphi, Milano 2003).
Oggi come oggi qualcosa – i fatti, gli eventi: la Storia – non esiste se non la “chiamiamo”, la nominiamo. Altrimenti sprofonda nell’indefinito, nell’anonimato. Non accede alla realtà.  Dunque: il nome; la civiltà; la cultura (con i suoi necessari attributi-corollari: anticultura, sottocultura, controcultura…).
Ma la lingua italiana e occidentale non definisce né determina più: evaporando, celebra la sua sconnessione rispetto alla realtà (sociale, politica, economica, culturale) che deve “dire” e interpretare. Al di fuori del senso, c’è solo frastuono; fuori dall’organizzazione linguistica e concettuale, il rumore bianco. La lingua utilizzata unicamente come strumento di potere e non di comprensione intima, profonda, storica, non è solo un’“arma spuntata” (le ineliminabili metafore belliche…) o strumento inutile; è in pratica il veicolo più autodistruttivo che esista. Infatti, una lingua che non dice più (che si rifiuta anzi categoricamente di dire, camuffando per di più questo rifiuto sotto il velo della superfetazione, dell’euforia espressiva: l’afasia che si traveste da ecolalia); che altera, per esempio, il rapporto tra concetti e termini, al punto che tutto equivale a tutto e al suo contrario (“qui lo dico e qui lo nego”, sintesi sublime e atroce dell’approccio mentale italiano a ogni questione o argomento, dal tifo calcistico alla geopolitica…); è una lingua morta.
E collegare cervelli vivi, farli avanzare, farli evolvere attraverso una lingua morta è un’operazione impossibile. Quale cambiamento si è introdotto, dunque, nella società italiana a tutti i livelli – dalla classe dirigente al popolo (o a ciò che ne resta)? La terza fase della mutazione pasoliniana coincide allora, in definitiva, con un salto inedito dell’umano su scala globale. L’erosione linguistica riverbera l’accesso ai territori inesplorati dell’antiumano, del non-umano, del non-più-umano.

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Annibale Carracci, Mangiafagioli, 1584-85 - Galleria Colonna, Roma

Annibale Carracci, Mangiafagioli, 1584-85 – Galleria Colonna, Roma

Guerra così non significa più nulla (anche e soprattutto, forse, quella “contro se stessi”), come del resto giustizia sociale, ripresa, ripartenza… E diritti – da difendere o da conquistare. Parole e termini come gusci vuoti, bucce scatole che non contengono più nulla, e non comprendono più nulla. Che vengono lanciati in alto e per terra. Che non si connettono più tra loro in periodi di senso compiuti. Produrre il senso è l’operazione più difficile in questo momento – immaginari che crollano, e niente a sostituirli – solo lampi episodici (nella migliore delle ipotesi), oppure la semplice triste grigia manutenzione visiva del presente: “- Conosce le lingue, un po’ di storia romana? – Hello, madame, fifty euro… Della storia, le assicuro, non importa a nessuno, ai giapponesi, agli slovacchi. Arrivano sotto il Colosseo sfranti di stanchezza e chiedono cinque minuti di simpatia. Vengono da noi come si va in una spa del benessere. In quindici anni di mestiere ho fatto ridere un milione di turisti” (Corrado Zunino, L’ira del centurione sfrattato dal Colosseo. “E ora chi mi dà 2mila euro al mese?”, “la Repubblica”, 27 novembre 2015).
E non siamo un po’ tutti come questo centurione del Colosseo? “Vengono da noi come si va in una spa”: la cultura, la cultura italiana, la cultura di oggi, è diventata una spa. Da questo molto probabilmente discendono tutti gli equivoci i fraintendimenti le sovrapposizioni le incrostazioni che negli ultimi anni intaccano la percezione diffusa della cultura, i camerieri di lusso nei ristoranti di lusso che declamano il lussuoso menu delle eccellenze italiane (sempre e solo passate), i beni culturali come “deposito dell’umanità” (con buona pace di Riegl) che si portano dietro di riflesso tutte le retoriche del giacimento e del petrolio e del volano e del tesoro e del forziere e dell’indotto…
Tutto questo, in un quadro abbastanza spaventoso – ma non inedito – di semplificazione, infantilizzazione, deresponsabilizzazione, atomizzazione, precarizzazione, diseducazione, antialfabetizzazione (che si sostanzia appunto in una comunicazione ideologica concentrata esclusivamente sulle immagini, sui messaggi immediati e sull’abolizione del testo, della lingua parlata e scritta). E infine accentuazione della dimensione “castale” di un’intera società, raggiungendo e attualizzando un punto indefinito tra il Seicento della Controriforma e l’Ottocento preunitario, con chiusura ulteriore di queste caste entro i vecchi nuovi confini tribali e familistici.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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