Michelangelo a Carrara. Monta la polemica per la “stroncatura” di Artribune
Da “Il Tirreno” all’ufficio stampa delle Marble Weeks, la critica di Fabrizio Federici alla mostra “michelangiolesca” di Carrara non è andata giù. Il quotidiano ha messo molta carne al fuoco, ma è soprattutto l’organizzazione che ha risposto punto per punto. Quanto efficacemente ve lo raccontiamo qui sotto. Dove trovate replica e controreplica.
Leggiamo su Artribune l’analisi che Fabrizio Federici fa della mostra dedicata a Michelangelo allestita al Centro Arti Plastiche di Carrara.
Le critiche sono sempre ben accette ma quando hanno, appunto, il carattere di critica ed esprimono pertanto un giudizio sulla base di conoscenze consolidate di tutti gli elementi in gioco. Non sembra questo il caso di Federici che dimostra una metodologia debole per la sua parzialità nel considerarne solo alcuni sorvolando su altri rilevanti.
La mostra al CAP, inserita nell’iniziativa Carrara Marble Weeks, è una mostra didattica che mette a confronto, per la prima volta, le Pietà di Michelangelo. Pur essendo copie (ma nessuno dell’organizzazione ha mai parlato di originali) hanno principalmente lo scopo di mostrare, anche a chi non è un frequentatore abituale di mostre e musei, il percorso stilistico dell’autore, dando inoltre conto della fortuna delle copie e dei calchi in gesso che, nel tempo, hanno contribuito a decretarne la fama in ogni parte del modo.
La scelta di organizzare una mostra didattica si spiega facilmente: all’interno di una manifestazione come MW che richiama moltissime persone si è tenuto conto di tanti pubblici diversi. Non è un caso che le mostre legate tra loro siano tre: quella delle Pietà, quella del fotografo Massimo Siragusa e quella di Loris Cecchini. Inoltre è una formula espositiva molto praticata nei decenni scorsi e da rivalutare in tempi di risorse sempre più scarse- cosa che Federici pare dimenticare- come già stanno facendo alcuni dei maggiori musei del mondo con obiettivi autonomi e degnissimi, fuori dalle ambizioni voyeuristiche di tante altre iniziative commerciali.
L’ombra del bello, lo scritto di Giovanna Uzzani che accompagna la mostra, ricostruisce in maniera mirabile la fortuna delle riproduzioni michelangiolesche, tanto preziose come fonte di conoscenza per amatori, artisti e studiosi di ogni tempo, dichiarandone un valore storico-culturale degno di una loro sistemazione museale. Il tema della Pietà, e la conseguente moltiplicazione delle sue copie, inoltre, ebbe un radicamento sul territorio apuo-versiliese, allorquando conobbe una vasta diffusione nell’arte funeraria.
Un saggio, quello di Giovanna Uzzani, che riflette sulla proposta di esporre alcuni fra i più celebri calchi da Michelangelo, dando ragione di una pratica antica, codificata come fondamentale nei programmi didattici per i giovani delle Accademie di Belle Arti, da oltre tre secoli. La galleria dei gessi, nel contesto neoclassico, assumeva i il ruolo imprescindibile di iniziare gli allievi allo stile. Il contributo prosegue a verificare la vitalità di quei modelli nell’Ottocento romantico, poi decadentista, mentre nei laboratori i modelli valevano a soddisfare le richieste crescenti di arte sacra e funeraria, che chiedeva opere marmoree destinate a tutto il mondo. Il contributo prosegue entrando nel ventennio fascista, quando quella pratica di studio trovava conferme all’ombra di un Michelangelo rivisitato, nell’innesto fra slancio vitale e bellezza ideale, funzionale all’esaltazione della bellezza atletica dello sport, del gesto eroico del soldato e perfino del contadino, nuovo protagonista della ideologia autarchica. Lo scritto giunge al secondo dopoguerra, quando la scoperta della forma, attraverso i modelli di gesso, si esprimeva con inedita altezza di esiti e si coniugava con le nuove frontiere dell’astrazione. E arriva al presente in atto, per verificare che, pur mutati i codici, i valori, i linguaggi, nel segno della discontinuità il classico Michelangelo può incontrare efficacemente ancora la contemporaneità.
Ma veniamo ad altri aspetti della recensione:
1. Non è vero che le riproduzioni di disegni non hanno un filo logico: non vi è ordine cronologico, in quanto si procede per temi fogli attinenti agli studi per le Pietà; anche in questa circostanza un po’ più di attenzione da parte del recensore sarebbe stata auspicabile;
2. La presenza di copie di disegni custoditi in ogni parte del mondo è consona alla natura didattica della mostra e offre al visitatore la possibilità di vedere, in un unico spazio e nello stesso tempo, una serie di opere altrimenti mai visibili insieme;
3. Proprio per il suo carattere didattico l’esposizione del CAP si presenta come un manuale di storia dell’arte, in cui si accostano immagini diverse di opere diverse conservate in luoghi diversi;
4. La scelta del titolo: gli organizzatori erano consapevoli del fatto che il “qui” non si riferiva a Carrara, ma hanno comunque giocato sulla vaghezza del verso michelangiolesco;
5. I suggerimenti dati dal recensore su altre possibili alternative vanno considerati modelli curatoriali, che sarebbe bene mettere in parentesi quando si passa dal ruolo di curatore a quello di critico, ma ci sono due buoni motivi per metterli in discussione. Il primo, in riferimento ai progetti di Michelucci, è dovuto all’indisponibilità dei disegni prestati a Casa Buonarroti. Il secondo, in riferimento al Crocifisso di Massa, è una via impraticabile e inutile. Non solo perché quando ci si avventura in attribuzioni su opere del periodo giovanile di Michelangelo si percorrono sentieri scivolosi con il rischio di sollevare molto rumore per “il nulla” (emblematica, in tal senso, la vicenda del crocifisso acquistato recentemente dallo Stato Italiano), ma perché il Crocifisso di Massa , per il quale è meglio lasciare nel dimenticatoio l’attribuzione parronchiana a Michelangelo, non ha mai avuto una sola pezza d’appoggio documentaria che ne giustificasse la paternità. Alessandro Parronchi assegnò l’opera a Michelangelo sulla base di suggestioni, riconoscendovi il crocifisso scolpito per la chiesa fiorentina di Santo Spirito giunto a Massa non si sa bene attraverso quali canali e passaggi di proprietà; attribuzione disinvolta, dal momento che la croce si presentava con varie ridipinture e frammentaria. Oggi, a distanza di anni, il mistero è risolto: il crocefisso michelangiolesco per tanti secoli era rimasto nella chiesa agostiniana di Firenze, dove aspettava solo di essere ritrovato nel 1962 mentre per quello di Massa viene accettata l’attribuzione a Felice Palma. Dato che Federici si preoccupa dell’utilità delle mostre che stronca, si interroghi sull’ utilità del suo progetto espositivo, che vedrebbe omaggiare Michelangelo con un’opera di Felice Palma.
Poiché il dialogo con Michelangelo non si esaurirà con la mostra attuale, è nella volontà della città di Carrara progettare un’esposizione che insista sul tema della crocifissione e più in generale sull’arte sacra. In quella sede potrebbero essere contemplati anche i temi proposti da Federici , per questa edizione si è scelto il tema della Pietà.
Questo per quanto riguarda la sezione dedicata a Michelangelo, ma è nella parte relativa alle altre due sezioni che si evidenzia la lacunosità delle affermazioni di Federici: lascia un po’ stupefatti che un collaboratore di Artribune non sappia chi è Loris Cecchini, liquidato sbrigativamente senza citarne il nome. Inoltre l’aver pubblicato le foto di Massimo Siragusa scattate con un cellulare e illeggibili denota uno scarso rispetto del lavoro degli artisti.
Infine Marble Weeks non è un’iniziativa degli industriali: essa deriva da un progetto condiviso fra istituzioni, associazioni, privati e imprenditori che rappresenta una collaborazione pubblico-privato da imitare e non da criticare.
LA CONTROREPLICA
Brevemente (per non dare il colpo di grazia al lettore, già provato da questa lunghissima difesa d’ufficio):
– il Crocifisso della chiesa di San Rocco a Massa è citato nell’articolo a mo’ di esempio, come una delle opere da inserire in un’eventuale mostra sulle tracce lasciate da Michelangelo nel territorio apuo-versiliese, e non come la sola opera da esporre; pertanto tutta la ramanzina perde di validità (e comunque suggerirei un po’ più di rispetto per Parronchi e per un’opera di grande pregio, che, sia di Michelangelo, di Palma o Giambologna, vale molto di più di tutte le fotocopie messe insieme);
– sulle foto di Siragusa: è più irrispettoso proporre foto dell’allestimento (come ho fatto io) o esporre male le istantanee dell’artista (come mostrano, nelle mie foto, i riflessi sui vetri che le proteggono)?
– su Cecchini: il fatto che io non ne citi il nome (il che non vuole automaticamente dire che io ignori chi sia) deriva dal fatto che il mio articolo costituisce una panoramica sulle mostre del 450esimo a livello nazionale, e non si focalizza solo su Carrara. Ampio spazio è dedicato a iniziative un tantino più importanti a Firenze e a Roma; e nella parte su Carrara l’attenzione è concentrata sulla mostra michelangiolesca stricto sensu (come mi sembra ovvio, e anche perché mi occupo di arte del Cinque-Seicento, e non di arte contemporanea). Detto questo, ribadisco quanto affermato nell’articolo: mi sembra davvero peculiare inserire in un tris di mostre su “Michelangelo e Carrara” un’esposizione di opere che non c’entrano nulla né con l’uno, né con l’altra; e d’altra parte non si riesce a capire il carattere di necessità della presenza delle opere proprio di Cecchini (molta scultura contemporanea è agli antipodi di Michelangelo: perché, se si voleva “qualcosa di completamente diverso”, si è esposto Cecchini e non altri?);
– la scelta dei disegni riprodotti: non sono solo studi per le Pietà, ma sono presenti anche altri soggetti sacri (Crocifissioni, Resurrezioni, Madonne con il Bambino: in una delle foto si vede bene la riproduzione di un celebre, e meraviglioso, disegno raffigurante la Vergine con il Bambino in braccio). Le fotocopie, o scansioni, o stampe da file (poco importa) sono scelte arbitrariamente e disposte senza alcun criterio;
– infine, il punto principale attorno al quale ruota la difesa, che rivendica lo status di “mostra didattica” di A sculpir qui cose divine. Ah, allora è vero – mi verrebbe da dire come prima reazione – che l’anniversario è stato celebrato a Carrara “in tono minore”, come dicevo nell’articolo: massimo rispetto per le mostre didattiche, che però, rispetto alle mostre vere e proprie, di ricerca, con opere inedite o poco note, sono un’altra cosa. Inoltre, le mostre didattiche andrebbero presentate come tali: mi sembra invece che l’“evento” del CAP sia stato propagandato ora con una certa enfasi, e con tanto di ambizioso e fuorviante sottotitolo (“Michelangelo e Carrara”), ora in maniera un po’ fumosa (nella cartellonistica di Marble Weeks si parla di una esposizione di “modelli” (?) delle Pietà). Ma soprattutto: non bastano copie e fotocopie per qualificare una mostra come “didattica”, altrimenti qualunque bancarella gremita di riproduzioni del David e della Pietà vaticana potrebbe fregiarsi del titolo di “mostra didattica”. Occorre invece – scusate la banalità della considerazione – un apparato didattico: pannelli – o strumenti di comunicazione più moderni e sofisticati – che spieghino in maniera piana e completa quello che si ha di fronte, che non diano nulla per scontato, che magari offrano termini di confronto attraverso un corredo di immagini. Nella “mostra didattica” del CAP non c’è nulla di tutto questo: nessun cartellino per i calchi delle Pietà, stringate indicazioni (titolo, collocazione) per le riproduzioni dei disegni. “Eh, ma c’è il pannello introduttivo!”. Il saggio di Giovanna Uzzani è sicuramente interessante, ma per l’appunto è un saggio, da leggere comodamente seduti in poltrona, e non un pannello per uno spazio espositivo. Ma lo avete visto in foto? È un testo che prende a mazzate qualunque regola della comunicazione museale: è interminabile, e disposto su righe di una lunghezza tale che rincorrere il testo nel passaggio da una riga alla successiva diventa un’impresa. Soprattutto il saggio si distanzia molto dalla mostra, di cui si occupa solo nelle ultime righe (ammesso che il lettore ci arrivi): e si tratta di annotazioni scarne, in cui peraltro nessun accenno si fa ai disegni. Insomma, alla faccia della “mostra didattica”: il visitatore è lasciato completamente solo di fronte alle riproduzioni, mute. C’è da dire però che, anche spiegata nel migliore dei modi, la selezione di opere esposta potrebbe difficilmente avere una valenza didattica: le copie delle tre Pietà potrebbero – è vero – illustrare la diversa maniera in cui Michelangelo affronta, a distanza di anni, questo soggetto; ma non basterebbero a illustrare un tema di una certa ampiezza quale quello della fortuna dell’arte michelangiolesca attraverso i calchi in gesso (su cui invece si sofferma la Uzzani nel suo saggio). Ancor meno chiara mi è la valenza didattica di una selezione di riproduzioni di disegni del tutto arbitraria.
Mi sento dunque di poter confermare l’impressione che ho avuto al termine della visita: “Si doveva fare, e lo abbiamo fatto”.
Fabrizio Federici
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