All you can eat. Enrico Robusti al Labirinto della Masone di Parma

Il punto di vista non è certo convenzionale: le prospettive si ribaltano, i soggetti si deformano e il grottesco prende il sopravvento. Così facendo, Enrico Robusti, nel Labirinto della Masone e Fontanellato, ci costringe a osservare i suoi dipinti e i suoi soggetti con sguardo diverso.

Parma vanta di essere una città Unesco. Vero, tuttavia – nonostante le emergenze monumentali non manchino, e basti pensare al complesso Duomo-Battistero o ancora alle due incredibili cupole affrescate da Correggio – non annovera un riconoscimento di Patrimonio dell’Umanità, bensì l’iscrizione alla rete delle “Città creative della gastronomia”, assieme a Bergamo come altra rappresentante italiana. Del resto il cibo da queste parti è a dir poco venerato. Così carni, pesci e frutti non potevano non diventare anche i soggetti di una serie di dipinti di Enrico Robusti, parmigiano Doc classe 1957, che ora è protagonista di una mostra allestita nei locali del Labirinto della Masone, significativamente intitolata Pittura iperproteica.

IL CIBO SECONDO ENRICO ROBUSTI

Quel che di questi dipinti si nota al primo sguardo sono le prospettive distorte e vertiginose, cifra inconfondibile di Robusti, e che affondano le loro radici nell’Autoritratto allo specchio di Parmigianino del 1524 circa – con quella visione originale delle deformazioni prospettiche – e ancor più negli affreschi già citati di Antonio Allegri da Correggio che, tra 1520 e 1530, costruì due strabilianti e inediti sistemi illustrativi che precorsero il Barocco e che ancora oggi lasciano a bocca aperta. Quella bocca che potrebbe riempirsi, fino a ingozzarsi e a strozzarsi, con il bendidio raffigurato nelle cucine e sulle tavole evocate da Robusti. Tuttavia il risultato non va affatto nella direzione di una resa invitante e rassicurante del cibo e del gesto – anzi, del bisogno primario – dell’alimentarsi. Mangiare, per le donne e gli uomini grotteschi, colorati, esagerati che l’artista ha immaginato e dipinto sulle tele, diventa una pratica volgare, a tratti addirittura disgustosa. Nessun’acquolina per chi li osserva banchettare, anzi più probabilmente un disturbante fastidio o lo sguardo divertito che si riserva al grottesco.

Enrico Robusti, Bar Italia, 2001, olio su tela, 100x120 cm

Enrico Robusti, Bar Italia, 2001, olio su tela, 100×120 cm

IL RACCONTO DI ROBUSTI

Sono le parole dello stesso artista a guidarci nella comprensione di questa interpretazione quasi horror della gastronomia padana. Nell’intervista di Camillo Langone, che firma il saggio in catalogo, confessa ad esempio che il dipinto La maialata (2002) “mi è stato commissionato da Franco Maria Ricci e si basa sui miei ricordi: da bambino mi portavano a mangiare la testa di maiale lessa e non avevo nessun problema, anzi trovavo divertente che qualcuno staccasse il naso, qualcun altro addentasse le orecchie, poi mi ricapitò una maialata a diciott’anni e mi fece un’impressione incredibile, con quella grossa testa rosa, quasi umana, in mezzo alla tavola. Col cambio di sensibilità i commensali mi parvero lupi famelici, predatori feroci”.

NON SOLO CIBO PER ENRICO ROBUSTI

Da un lato, quindi, lo stereotipo emiliano che si snoda tra salami (non sfuggano i lunghissimi titoli delle opere, come Strombazzata funebre in onore del vecchio salame a cui hanno mozzato la testa e per giunta obliquamente affettata!), punte di parmigiano, pezzi di torta fritta, rane fritte, angurie, il tutto a comporre altari laici “dove si celebrano i riti quotidiani del nostro vivere, le liturgie legate alla preparazione dei cibi”, per citare ancora Robusti. Dall’altro lato una messa in discussione, non esente da affettuoso sarcasmo, della divinizzazione di ciò che dovrebbe essere nutrimento e piacere, ma che può superare i limiti e diventare oggetto di un divorare famelico senza fine e senza scampo.
Non solo cibo, tuttavia: in mostra vi sono anche opere di diverso argomento e, tra sprazzi di poesia e visioni di un dolore profondo, il viaggio artistico di Robusti prosegue esagerato e agitato tra balli popolari, giri sulle montagne russe e partite di calcio balilla.

‒ Marta Santacatterina

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Marta Santacatterina

Marta Santacatterina

Giornalista pubblicista e dottore di ricerca in Storia dell'arte, collabora con varie testate dei settori arte e food, ricoprendo anche mansioni di caporedattrice. Scrive per “Artribune” fin dalla prima uscita della rivista, nel 2011. Lavora tanto, troppo, eppure trova sempre…

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