Capricci (IV). Gusto, essenza e privazione

Il concetto di gusto italiano è strettamente connesso a quello di privazione, inteso come essenzialità. Oggi, in un momento storico-culturale in cui al reale preferiamo il “fare come se”, potremmo sfruttare il senso di precarietà per ampliare lo sguardo e ragionare sull’essenza.

Stoccolma, 7 luglio. Il potere italiano ha sempre una qualità untuosa e torbida. Voglio dire, proprio i volti dei potenti, i loro corpi e i loro gesti – rilasciano costantemente questa qualità.

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Il “gusto” italiano discende da una forma di privazione. È collegato strettamente alla vita, all’esperienza esistenziale – fuso con essa, con i suoi limiti e con le sue altezze. Così il gusto migliore, il “saper vivere”, discende da una memoria biologica di povertà come essenzialità, come riduzione agli elementi fondamentali. Questo in arte, in architettura, nel design, nel cinema, nella moda – e persino in letteratura. Laddove ci allontaniamo da questa essenzialità, ciò avviene immancabilmente perché stiamo imitando qualcun altro e il suo sistema di valori.
Gli altri viaggiatori si accontentavano di tesori più aleatori, che ben difficilmente potevano essere condivisi: dopo cinque o dieci millenni, qualunque rinascimento sociale o artistico era ormai finito. A volte le idee di quei movimenti potevano essere trasmesse, ma lontano dal tempo e dal luogo dov’erano sorti, invece di essere dei mezzi potenti, capaci di dare l’avvio a nuove rivoluzioni, risultavano spesso una delusione. Rakesh non aveva percorso migliaia di anni luce per tornare a casa con una manciata di blandi slogan di seconda mano” (Greg Egan, Incandescence, Mondadori 2010, p. 27).

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Carlo Carrà, L'ovale delle apparizioni (1918)

Carlo Carrà, L’ovale delle apparizioni (1918)

La precarietà di queste nostre esistenze influisce in maniera profonda e diretta sulla riflessione, sul pensiero, sulle idee e sulla loro concatenazione. È perfettamente inutile, quindi, “fare finta di niente”: vale a dire, fare come se ci trovassimo negli Anni Sessanta o Ottanta, costruire quel tipo di discorsi (che rispondono, inevitabilmente, a quel tipo di domande), aggiornati solamente dal punto di vista del look o delle parole d’ordine. Con il look e con le parole d’ordine non si interpreta la realtà, né si interviene su di essa. “Fare-come-se” è un modo (efficace, certo: ma distruttivo) di negare il punto in cui siamo e in cui viviamo; di negare la radice profonda della nostra identità così come si viene formando, di chi stiamo diventando giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Significa cioè riferirci a dei noi stessi totalmente fittizi, creati nella speranza di poterci interfacciare con un mondo che pretende da noi livelli sempre più alti di efficienza e di simulazione, in assenza di qualunque garanzia minima. Occorre invece rifiutare la finzione, opporre attrito a un’efficienza dislocata e dissociata, e scavare invece i livelli di un’efficienza molto più vasta, imprevedibile, significativa. L’efficienza che emana da un’altra forma di vita rispetto a quella comunemente accettata; l’efficienza propria di una ricerca che scarta costantemente, che distrae e che si distrae, che ci porta dove non credevamo di andare e dove non volevamo neanche andare, in zone oscure, luoghi luminosissimi che a loro volta vengono creati da questa strana forma di efficienza inefficiente, di concentrazione assente, di pensiero non orientato ma vagante e attraversante i confini tra territori – fino al punto di annullare la stessa idea di confine. Abitare il bordo e il margine, renderli casa propria, vuol dire in definitiva non riconoscerli più neanche come tali, considerarli in modo diverso, approfondire la visione e moltiplicarla…
Puro e calmo, libero dalle convenzioni, non schiavo di formule, aperto, libero, non turbato da formalità, in grado di agire con franchezza e indipendenza; innocente, semplice ma non insensibile, inesauribile, illimitato. Non si lega più a nulla, ha spezzato l’attaccamento alla vita, ai beni terreni” (Taisen Deshimaru).
Pane / prosciutto / prugne denocciolate / pinoli / fette biscottate / acqua / pomodori / due cipolle rosse / vino / mezzo chilo di petto di pollo / riso basmati.

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Sherrie Levine, After Walker Evans, 3 (1981)

Sherrie Levine, After Walker Evans, 3 (1981)

Stoccolma, 8 luglio. Ieri all’Acquario con O. (7 anni) e B. (10 anni), mentre la giovane addetta dava da mangiare ai pesci rari. Tutti questi piccoli cervelli, questi cuccioli di esseri umani che bevevano curiosi le parole e i gesti della ragazza con la polo azzurra. Le differenze madornali con altre zone dell’Europa (il Sud Italia, per esempio) e del mondo, in cui i bambini e i ragazzi non bevono proprio niente, in cui non ci sono acquari da visitare né biblioteche in cui prendere bei libri in prestito, luoghi in cui la vita è spesso una lotta dura e sofferente fin dai primi anni di vita, inconsapevole per giunta della propria condizione, e in cui l’intelligenza serve al massimo per acuire questo senso di sopravvivenza – ma non migliora se non di pochissimo l’esistenza e la sua qualità, la sua temperatura. Il luogo in cui si vive non dovrebbe mai determinare come si vive. E com’è che qui cose banali sembrano funzionare quasi da sole, com’è che l’intera città è uno spazio confortevole da attraversare e abitare? Forse perché sono e furono e saranno PROTESTANTI?

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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