Città critiche: Torino. Il racconto di Francesco Poli

Il nostro viaggio è iniziato a Roma, città raccontata da Maurizio Calvesi a Lorenzo Canova e da Ludovico Pratesi a Luca Arnaudo. Doppio dialogo sul filo dei decenni, che è proseguito a Milano, con la doppia coppia Tommaso Trini & Alberto Zanchetta e Roberto Pinto & Stefano Castelli. Poi siamo andati verso sud, a Napoli: qui il microfono è passato a Renata Caragliano, all’ascolto di Angelo Trimarco, e ad Antonello Tolve, in ascolto di Stefania Zuliani. La quarta tappa si fa a Torino: e si comincia con Francesco Poli intervistato da Elena Volpato.

Critico, curatore, docente, studioso, Francesco Poli (classe 1949) rappresenta uno sguardo privilegiato per comprendere l’itinerario dell’arte a Torino. Con lui abbiamo ripercorso la scena culturale dalla fine degli Anni Sessanta alla fine degli Ottanta. Sotto il segno della necessità di “frequentare tutti i livelli del mondo dell’arte. Perché bisogna sapere anche cosa fanno i corniciai per capire a fondo il sistema”.

All’inizio degli Anni Settanta Torino era una città molto diversa, una città nera di fumo. Tu che ricordi hai dell’epoca?
Il centro storico era abitato da poveri e immigrati. Via Po e Piazza Vittorio non erano considerate dalla borghesia torinese. Io studiavo Filosofia a Palazzo Nuovo [la sede delle facoltà umanistiche, N.d.R.]. Si pensava soprattutto alla politica.

Quel clima influenzava anche l’ambiente artistico?
C’è un riverbero generale, e poi c’erano casi d’impegno più diretto: Piero Gilardi, in una certa misura Gilberto Zorio e Mario Merz, anche se Merz aveva un’attitudine più anarchica e libertaria.

Diego Novelli è il sindaco dal 1975 al 1985. Che contributo ha dato alla vita culturale?
Per dieci anni l’assessore alla Cultura è stato Giorgio Balmas: un anticipatore che ha dato vita a iniziative importanti come Settembre Musica. Il contributo è stato meno determinante per l’arte contemporanea, soprattutto perché c’era un problema nel museo dove siamo adesso, la Galleria d’Arte Moderna.

Quale?
Dopo la morte di Aldo Passoni [il padre dell’attuale vicedirettore della GAM, Riccardo Passoni, N.d.R.] non è stato più nominato un direttore. Il museo era gestito da un comitato che lavorava sulla ricerca storica e filologica, senza apertura internazionale.

Prima la situazione era molto diversa.
Alla GAM – l’unico museo d’arte contemporanea in Italia, insieme alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma durante la gestione di Palma Bucarelli – si sono tenute mostre importanti curate da Luigi Carluccio: nel 1967 Le muse inquietanti, nel 1973 Combattimento per un’immagine [curata insieme a Daniela Palazzoli, N.d.R.]. E poi mostre per il grande pubblico – ancora non si chiamavano blockbuster – di Francis Bacon (1962) e Graham Sutherland (1965). Ma soprattutto, grazie proprio a Passoni, alla GAM si è tenuta nel 1970 Conceptual Art, Arte Povera, Land Art curata da Germano Celant: una mostra importantissima, all’avanguardia a livello internazionale.

Mostre a cui contribuiva l’Associazione Amici dell’Arte Contemporanea.
Sì, ma la presidentessa Marella Agnelli non si è mai degnata di dare una lira, mentre dai giornali sembrava che fosse una grande mecenate. Il fatto positivo è che ha contribuito a creare un clima di moda e interesse intorno all’arte contemporanea.

La mostra di Mario Merz da Tucci Russo nel 1976

La mostra di Mario Merz da Tucci Russo nel 1976

Com’era il panorama delle gallerie private?
Negli Anni Settanta ci sono state gallerie importanti che avevano preso il relais di Sperone, che nel 1972 si trasferisce a Roma e poi a New York. Gallerie aperte da persone che con Sperone avevano lavorato, come Tucci Russo. Nel 1970 apre anche Multipli di Giorgio Persano. La galleria principale era però quella di Christian Stein, che aveva inaugurato nel 1966 e che è stata la galleria per eccellenza dell’Arte Povera: lì si è tenuta la prima mostra di Boetti.

Un ruolo fondamentale lo svolse l’Unione Culturale con Edoardo Fadini, sia nel campo del cinema sperimentale che in quello teatrale.
Lui ha portato Jonas Mekas all’UC nel 1967…

…e fa nascere la comunità dei cineasti indipendenti a Torino.
Chi erano i più bravi?

C’erano Tonino De Bernardi, Renato Ferraro, Ugo Nespolo, Paolo Menzio, Plinio Martelli
…e Michelangelo Pistoletto. I due poli di questa scena erano Torino e Roma. Il grande merito di Fadini riguarda l’ambito teatrale: fra Anni Sessanta e Settanta, col Teatro degli Infernotti, chiama a Torino Carlo Quartucci, con spettacoli che hanno scenografie di Paolini e Kounellis, e poi il Living Theatre…

Da ventenne ti rendevi conto che Torino era stata una città privilegiata – come ci ha raccontato la mostra Un’avventura internazionale. Torino e le arti 1950-1970?
Ho iniziato a percepirlo intorno al 1974-75, quando comincio a occuparmi di arte contemporanea stretta. Torino, al contrario di Milano, ha la coscienza dei propri limiti. Così, o si rinchiude in maniera semi-provinciale, oppure si apre a livello internazionale.

Che ruolo ha giocato l’Einaudi in questo scenario?
Einaudi pubblicava volumi coltissimi di storia dell’arte, ma – grazie proprio a Giulio Einaudi – in quegli anni stampa anche alcuni libri d’arte contemporanea che sono rivelatori. Giulio Paolini, ad esempio, l’ho scoperto grazie a Idem (1975). Sono stati pubblicati libri di Melotti, Munari, Fabro, Mulas, Penone… Che una casa editrice così importante facesse una collana di libri di questo genere fu una legittimazione importante.

Cosa ti ha spinto a scrivere, proprio in quegli anni, un libro su arte e mercato?
Era la mia tesi di Sociologia dell’arte, fatta con Luciano Gallino. Mi interessava l’interazione fra strutture culturali e strutture economiche. Volevo capire in che modo le condizioni concrete di esistenza dell’arte e della produzione artistica fossero un pezzo della storia dell’arte. Il libro si intitolava Produzione artistica e mercato: una critica del sistema dell’arte, ma non una critica moralistica.

A metà dei Settanta i poveristi conoscono la loro maturità. Erano egemoni?
Sì. A Torino erano massimamente in auge da un lato Giulio Paolini e dall’altro Mario Merz. Ogni mostra dei poveristi alla Galleria Stein era un evento. I dissidenti che avevano avuto stretti rapporti col gruppo erano invece Alighiero Boetti, Piero Gilardi e Gianni Piacentino. Poi c’erano i pop-artisti che facevano da contraltare: innanzitutto Ugo Nespolo, ma anche gli Specchi di Pistoletto sono stati letti in quella chiave, gli stessi Gilardi e Boetti, e Aldo Mondino. Una fase pop che in seguito quasi tutti hanno ripudiato.

Guido Curto - photo Giorgio Perottino

Guido Curto – photo Giorgio Perottino

Come si collocava in quegli anni l’Accademia?
Era un luogo reazionario, dove era egemone il post-casoratismo. Gli artisti di punta insegnavano al Liceo Artistico: Penone, Zorio, Gastini, Mainolfi… L’apertura dell’Accademia nei confronti delle novità è avvenuta molti anni dopo con la direzione di Guido Curto.

Nel 1979 inizia il ciclo Arti visive proposte, in cui sei direttamente implicato.
L’Unione Culturale, che nasce nell’immediato dopoguerra e ha una storia gloriosa, era un luogo d’avanguardia, ma non per le arti visive. Così nasce l’idea di fare una verifica degli artisti più giovani. Siamo andati avanti per dieci anni, con dieci mostre all’anno. Nel 1994, insieme a Beatrice Merz, abbiamo poi fatto una mostra che si intitolava Torino anni ’80 e che ricapitolava tutta questa operazione. Era allestita all’Unione Culturale e ai Docks Dora. Ricordo che ci fu un litigio formidabile.

Uno scontro generazionale?
Una cosa psicoanalitica! Gli artisti più giovani avevano un complesso di inferiorità nei riguardi dell’Arte Povera, considerata come un tappo che impediva loro di accedere alle gallerie sospirate.

Nel frattempo però erano nate altre gallerie che seguivano quel tipo di lavoro: penso a Weber, a Paludetto…
Franz Paludetto è stato un grande gallerista. Ha fatto mostre importanti di artisti d’area tedesca, e poi Joseph Beuys… Ma dal punto di vista organizzativo, diciamo così, non è stato molto soddisfacente. Comunque a Torino c’è stata una resistenza nei confronti della svolta rappresentata dalla Transavanguardia, del ritorno alla pittura e alla scultura – fatta eccezione per Nicola De Maria, che ha subito iniziato a lavorare con Giorgio Persano. Le gallerie più affermate avevano rapporti internazionali, mentre le altre non avevano peso nemmeno a livello nazionale, e infatti sono stati pochissimi gli artisti torinesi invitati in quegli anni alla Biennale di Venezia.

L’unica eccezione è stato Pierluigi Pusole, invitato ad Aperto 90.
Non dimentichiamo poi la galleria di Guido Carbone, che aveva in Corrado Levi un grande sostenitore. Intorno a lui si erano riuniti i “medialisti”, con lo stesso Pusole, e Bruno Zanichelli, che era molto bravo.

Che ruolo hanno avuto?
Grazie a Corrado Levi avevano un certo legame con Milano. Erano influenzati dal Village della seconda metà degli Anni Ottanta, il cui clima era stato portato in Italia proprio da Levi, che si era riscoperto lui stesso giovane artista. Nel suo studio in via San Gottardo a Milano aveva organizzato una serie di mostre con giovani artisti sia milanesi che torinesi. Il punto di riferimento a Torino di tutta quest’attività era Guido Carbone – che all’inizio lavorava alla gloriosa Galleria Il Fauno di Luciano Anselmino.

Il Castello di Rivoli

Il Castello di Rivoli

1984, nasce il Castello di Rivoli. Cosa si aspettavano i giovani artisti?
La nascita del Castello di Rivoli ha raddoppiato la loro incazzatura! La Regione aveva da un lato la necessità di restaurare i monumenti storici, ma dall’altro non sapeva cosa farsene. L’idea brillante venne a Giovanni Ferrero, che allora era l’assessore alla Cultura della Regione: “Facciamoci un museo di arte contemporanea internazionale”. Per evitare scontri e polemiche, fu chiamato uno straniero, Rudi Fuchs, che era direttore del Van Abbemuseum e aveva curato la Documenta nel 1982. Lui arriva e fa un’ipotesi di museo senza collezione, con un’attenzione particolare all’internazionalità, all’Arte Povera e in parte alla Transavanguardia.

Qual era il rapporto con Torino?
La svolta avviene nel 1989. Tieni presente che la Fiat nel 1983 aveva comprato Palazzo Grassi a Venezia e faceva lì le sue mostre. Io avevo chiesto a Cesare Annibaldi, il direttore delle relazioni esterne, perché non facessero nulla con il Castello e lui, ridendo, mi rispose: “Ci accusate sempre di essere dappertutto”. Ma appena le cose hanno iniziato a funzionare, ecco che all’inaugurazione della mostra Standing Sculpture [curata dallo stesso Poli con Rudi Fuchs e Johannes Gachnang, N.d.R.] si presenta Marella Agnelli. Significava che la Fiat era interessata, e infatti iniziarono a contribuire economicamente e Annibaldi divenne il presidente del Castello di Rivoli. È stato un fenomeno interessante dal punto di vista della sociologia culturale: da allora in poi, non andare alle inaugurazioni del Castello significava essere tagliati fuori. I francesi lo chiamano esprit de mouton!

Quali sono state le ricadute sulla città?
Qui entriamo nel campo della politica culturale dell’arte. La riconversione postindustriale della città si è basata sull’incentivazione del turismo, in particolare quello culturale. In questo senso il Castello di Rivoli ha avuto un ruolo importante, così come la riattivazione del Museo Egizio o della Reggia di Venaria – e l’arte contemporanea è stata individuata come uno degli elementi identitari della città. Ed è questo il motivo per cui a Torino c’è l’unica fiera d’arte finanziata con denaro pubblico: per fare sistema.

Elena Volpato

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #34

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