Arte contemporanea italiana. L’opinione di Raffaele Gavarro

Il dibattito sull’identità e la storia dell’arte contemporanea italiana non si spegne. Raffaele Gavarro risponde alle riflessioni di Gian Maria Tosatti e di Christian Caliandro.

Cos’è e com’è l’arte italiana, la cultura italiana, oggi?
Non saprei dire quante volte ho letto, in risposta a questa domanda, e negli ultimi venti anni almeno, tentativi di definizione o di messa a regime dei due sfuggenti soggetti in un verso che fosse in qualche modo di tipo identitario nazionale.
Anche io, ovviamente, sono stato più e più volte irretito dalla questione, in definitiva dimostrando un’incapacità o, cedendo a una spero comprensibile autoindulgenza, un’impossibilità a giungere a qualche conclusione convincente.
In ogni caso, e venendo al punto, come dare torto a Tosatti quando dice che l’identità dell’arte contemporanea italiana corrisponde alla definizione di un’idea di sé, a quella di una nazione o meglio di un popolo e che quindi, mancando quest’ultima, non può esserci la prima. Si tratta di una formula antica, e quindi ampiamente convalidata, per risolvere la questione, e mi pare di averne parlato anch’io più o meno negli stessi termini in diverse occasioni. Naturalmente ciò che si oppone a questo tipo di considerazioni è il fatto che stiamo vivendo un’evoluzione sempre più meticciale, tra globa- e gloca- lizzazione, non disgiunta da una faticosa costituzione di un’identità europea, senza dimenticare la pressione, più psicologica che reale, di una migrazione che inevitabilmente è anche culturale nel senso più ampio.
Quindi dire cosa sia la cultura, e nello specifico l’arte italiana, oggi non è così scontato, se vogliamo affrontare, anche se magari non risolvere, questioni decisamente complesse. A meno che non si dica, come dice la nostra politica, che la nostra identità è, o deve essere, fondata (unicamente) sulla nostra storia artistico culturale, gloriosissima, e soprattutto su una bellezza diventata il brand concept (turistico) del nostro Paese?
Del resto, e in linea di principio, non sono meno d’accordo con le parole di Caliandro, che invece rivendica una priorità culturale e artistica per l’identità del popolo italiano. Forse sarebbe da definire meglio cosa sia “una certa percezione visiva” o la “disposizione d’animo” e la conseguente “qualità di immagine”, ma più o meno possiamo intuirne il senso che tra l’altro e forse, se capisco bene, non è molto distante dalla definizione dell’Italia di Tosatti come “espressione culturale”.

“Dobbiamo dunque arrenderci a condizioni così avverse tanto dal punto di vista delle nostre politiche culturali nazionali, che da quelle economiche imposte dal sistema internazionale? Dobbiamo rinunciare al tentativo di dare una forma critica al flusso esorbitante, disordinato e deregolato qual è oggi l’arte attuale?”.

Ma veniamo al presente, che ci riguarda tutti e sul quale ognuno ha maturato una propria convinzione e ha cercato di costruire non solo un’identità culturale individuale, perlomeno, e anche un minimo di certezza esistenziale. Come Tosatti e come Caliandro, potrei anch’io fare un elenco di artisti, alcuni coincidenti e altri no con quelli da loro elencati, accusando l’uno o l’altro di più o meno gravi dimenticanze. Ma non servirebbe a molto. Conosciamo gli uni degli altri il lavoro critico, curatoriale e artistico, ed è evidente che non è la differenziazione delle squadre a determinare la diversità e la qualità del gioco. Individuare un “pensiero comune” e una conseguente “formula critica”. Questo sembra invece essere il vero problema e questo dovremmo riuscire a fare, secondo Tosatti e in un certo modo anche secondo Caliandro, che per la verità individua nella “precarietà” e nella “spettralità della realtà”, il sentire comune e contemporaneo degli artisti italiani. Richieste e riflessioni più che legittime, magari non condivisibili negli esiti in parte o in tutto, ma in entrambi i casi intellettualmente oneste. Quello di cui mi pare difettino è invece, e in entrambi, di un realismo fondato nel nostro quotidiano.
Dire che la precarietà o la spettralità del reale sia una condizione identitaria è una cosa tanto vera da essere una ovvietà che non aiuta, purtroppo, a sciogliere alcun nodo problematico e a suggerire una chiave interpretativa comune, collettiva, perlomeno non nei termini che auspica Tosatti, che cerca più pragmaticamente un riferimento, trovando analogie, nelle vicende dell’Arte Povera e del Neorealismo cinematografico, fino a quelle del Realismo Magico. Tutti fatti fondamentali della nostra storia recente e meno, ma tutti nati da e in realtà che non hanno nulla a che fare, nemmeno alla lontana, con quella che stiamo vivendo. L’Arte Povera poi ha avuto una complementarietà internazionale, colta con indubitabile sensibilità e capacità dai suoi protagonisti, che ne ha senza dubbio favorito lo sviluppo e il successo. Non dico nulla di nuovo affermando che la situazione internazionale, nei termini con i quali si è imposta come sistema, è ben poco suscettibile agli stimoli della sensibilità ed eventualmente della capacità. Il sistema dell’arte è infatti saldamente basato su un modello economico di tipo finanziario che presuppone una frammentazione del prodotto, che è meglio gestibile nella sua unicità, escludendo quindi formulazioni collettive, se non occasionali.
Giova notare che la mancanza di fenomeni di inquadramento basati su riflessioni critiche è una condizione internazionale e non solo italiana, che trova solo un’apparente controtendenza nelle periodiche valutazioni di scene nazionali o continentali, come è ad esempio oggi per l’Africa, evidentemente causate da ragioni speculative temporanee, quando va bene.

Riconoscere la frammentarietà e riconoscere i frammenti (artistici) non solo come tentativi di corrispondere alla realtà in cui si è, ma più propriamente come l’inevitabile essere parte costitutiva di essa, mi pare un punto di partenza essenziale”.

Dobbiamo dunque arrenderci a condizioni così avverse tanto dal punto di vista delle nostre politiche culturali nazionali, che da quelle economiche imposte dal sistema internazionale? Dobbiamo rinunciare al tentativo di dare una forma critica al flusso esorbitante, disordinato e deregolato qual è oggi l’arte attuale?
Certamente no. Ma io ritengo, e in questo mi associo senz’altro a Caliandro, che adottare modelli interpretativi e formativi provenienti dal passato possa rappresentare una ingenuità, se non proprio un errore. Riconoscere la frammentarietà e riconoscere i frammenti (artistici) non solo come tentativi di corrispondere alla realtà in cui si è, ma più propriamente come l’inevitabile essere parte costitutiva di essa, mi pare un punto di partenza essenziale. In quest’ottica aggettivazioni negative spesso riferite all’arte attuale come autoreferenziale, episodicità e specificità tematica, assumono invece e di contro un senso non banale di una testimonianza partecipata, più che di una semplice corrispondenza, con la morfologia del reale in cui siamo e che contribuiamo a formare. Cercare una qualche forma di continuità tra le parti, tra i frammenti che compongono il tutto, e quindi, secondo la lezione aristotelica, individuando le relazioni che lo tengono insieme componendo un sistema, non può a questo punto che passare attraverso la comprensione di quale sia il senso della nostra stessa realtà. All’interno di questa non semplice messa a fuoco è il ruolo che destiniamo oggi all’arte a poterci fornire una qualche forma d’identità.
Concludo con una citazione che per me ha da sempre avuto il senso di un monito. È tratta da la Teoria Estetica di Theodor W. Adorno, che inizia il suo saggio incompiuto su La perduta ovvietà dell’arte. “È diventato un’ovvietà il fatto che nulla di quello che concerne l’arte sia più ovvio, né in essa né nel suo rapporto con l’intero, nemmeno il suo diritto ad esistere”.

Raffaele Gavarro

P.S. Io invece, come al solito, le cinquemila battute le ho ampiamente superate.

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