Biennale di Venezia. L’opinione di Ludovico Pratesi

Si potrebbe sottotitolare: “Rondò veneziano. Appunti di un flâneur tra Biennale e dintorni”. Perché qui Ludovico Pratesi non si limita a isolare alcuni passaggi chiave delle mostre di Okwui Enwezor, ma si concede anche una incursione ragionata fra i Padiglioni nazionali e tra le decine di mostre collaterali alla Biennale di Venezia.

DON’T SKIP INTRO
I futuri del mondo assomigliano alla cella buia di un carcere, dove bisogna muoversi con incredibile attenzione per non cadere nelle mille tagliole nascoste dall’ombra. Come? Attraverso la consapevolezza delle sofferenze del pianeta, che troppo spesso i Paesi industrializzati dimenticano, storditi dall’imperativo del consumo e affannosamente impegnati a produrre denaro al ritmo vorticoso e forsennato imposto dalla tecnologia.
Così, dall’Arena si diffondono nel Padiglione Centrale voci, canti, lamenti, parole, mantra, cantilene e accompagnano il visitatore mentre osserva le installazioni di Robert Smithson, le opere di Fabio Mauri, il video di Christian Boltanski, il confronto tra i volti segnati nelle fotografie di Walker Evans e i modelli delle sculture di Isa Gentzken. Equilibrio, luce, densità: qui la mostra ha un carattere aulico, quasi classico. È una sinfonia polifonica a tratti malinconica ma mai rinunciataria: perfino le cupe bandiere nere di Oscar Murillo davanti alla facciata sottolineano il tono di questa introduzione puntuale e necessaria al doloroso caos dell’Arsenale.

Biennale di Venezia 2015 - Monica Bonvicini, Latent Combustion, 2015

Biennale di Venezia 2015 – Monica Bonvicini, Latent Combustion, 2015

IMMAGINI DAL CARCERE
Lame di coltelli affilati, orsi bianchi scuoiati vivi, mucchi di macerie e calcinacci colorati, sacchi di iuta stracciati, volti alienati di lavoratori dei cinque continenti, bare e seghe elettriche, torture filmate e disegnate, armi di ogni genere, corpi maschili perfetti e gigantesche figure capovolte. Come in una mise en scène teatrale, lo spazio delle Corderie è stato triplicato in percorsi labirintici affollati di opere complesse, che chiedono tempi e attenzioni ben diversi da quelli normalmente concessi durante i tre giorni di vernice.
Inutile dire, questa Biennale costringe a tornare, non a vedere ma a guardare e poi a pensare. Immagini crude, stridenti, dolorose aumentano la sensazione di una mostra concepita come il suono di un allarme, che coglie sempre alla sprovvista. Non rassicurante, ma pungente. Non sfuggente ma strutturata, non accondiscendente ma rabbiosa. Una rabbia silenziosa e tangibile che si diffonde tra i corridoi, simili alle Carceri di Piranesi o ai Piombi di Venezia, da dove Casanova riuscì a evadere nel 1755.

Biennale di Venezia - Padiglione Albania - Aramando Lulaj

Biennale di Venezia – Padiglione Albania – Aramando Lulaj

PAVILIONS TOUR
Lo scheletro di un grande cetaceo fuoriesce dalla recente storia europea come un monito, nel fantasmatico padiglione albanese di Armando Lulaj. La vasca color rosa pallido è il cuore liquido del padiglione svizzero, che Pamela Rosenkranz ha trasformato in un corpo contemporaneo. Frammenti di sculture classiche dentro cassette per generi alimentari suggeriscono preoccupanti riflessioni sul futuro del patrimonio artistico, nel padiglione danese di Danh Vo. Gli scuri inserti architettonici di Heimo Zobernig cancellano le pesanti citazioni storiche del padiglione austriaco, costruito nel 1934 da Hoffmann.
Il senso di disfatta dell’Ellade contemporanea è reso poetico dal negozietto di pellami ricostruito da Maria Papadimitrou nel padiglione greco. Il candido rettangolo vuoto rivela l’assurda prosopopea del grande dipinto L’apoteosi degli slavi (1926) di Alphonse Mucha, visibile soltanto attraverso il sottile spazio che separa l’opera da uno specchio, nel magistrale intervento di Jiri David nel padiglione ceco. L’opera video Halka di Jasper e Malinowska nel padiglione polacco rivela la forza dell’impossibile che ha portato gli artisti a costruire un teatro nelle montagne di Haiti.
Il profumo delle rose damascene si diffonde nel padiglione olandese, dove la natura conquista la cultura nelle opere poetiche e sottili di herman de vries. Dipingere il futuro attraverso il passato è la perversa abilità di Adrian Ghenie nel padiglione rumeno. Il padiglione Usa trasformato da Joan Jonas in un paesaggio incantato popolato da fantasmi e bambini è un territorio magico dove far riposare corpo e mente.
Mirabile l’intervento di Christodoulos Panayiotou nel padiglione di Cipro a Palazzo Malipiero, in un’efficace e stimolante riflessione sull’archeologia, il tempo e la storia. Nell’atmosfera funerea e inutilmente monumentale del padiglione Italia si staccano gli interventi di Allis/Filliol, Antonio Biasiucci e Marzia Migliora, riusciti a sfuggire in modo diverso al triste mood generale.

Mario Merz. Città irreale. Venezia Gallerie dell'Accademia

Mario Merz. Città irreale. Venezia Gallerie dell’Accademia

PERDERSI A VENEZIA
All’interno delle sale di Palazzo Cini, la luce del meriggio veneziano fa brillare gli alabastri di Ettore Spalletti, in una mostra rarefatta e poetica a pochi passi dalle Gallerie dell’Accademia, dove gli igloo di Mario Merz abitano il cortile del museo con la forza dignitosa e mordace dell’Arte Povera.
A Palazzo Fortuny Proportio è un esempio da non perdere di equilibrio tra opere, allestimento e genius loci. Nelle sale di Palazzo Benzon, India e Pakistan 4 a 1: le installazioni di Shilpa Gupta sono riflessioni sul senso del confine geografico, mentre i video di Rashid Rana non possiedono la stessa forza concettuale. A Punta della Dogana Danh Vo ha allestito una mostra collettiva difficile e intensa, dove le opere possiedono una forza evocativa impressionante nonostante le loro dimensioni minime, che le rendono a volte quasi invisibili, ma cercarle vale sempre la pena.
Quelle di Danh Vo spesso assomigliano nella loro essenzialità alle sculture di Jimmie Durham alla Fondazione Querini Stampalia, che trasformano gli scarti delle fornaci di Murano in sottili annotazioni in vetro colorato delle mille anime di Venezia, in una personale equilibrata e luminosa. Nelle sale di palazzo Grassi la dimensione innovativa tra Pop Art e Nouveau Réalisme di Martial Raysse si dispiega in tutta la sua potenza, a discapito degli ultimi dipinti, assai meno riusciti.

Riuscirà l’arte a salvare un mondo così malmesso, insicuro e instabile? Enwezor non ne è sicuro, ma almeno ci rende più consapevoli degli enormi rischi che corriamo tutti i giorni, e di questo non possiamo che ringraziarlo.

Ludovico Pratesi

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Ludovico Pratesi

Ludovico Pratesi

Curatore e critico d'arte. Dal 2001 al 2017 è stato Direttore artistico del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro Direttore della Fondazione Guastalla per l'arte contemporanea. Direttore artistico dell’associazione Giovani Collezionisti. Professore di Didattica dell’arte all’Università IULM di Milano Direttore…

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