Musei e digitale. Parola al Metropolitan Museum of Art di New York

Torna la rubrica dedicata al rapporto fra musei e digitale. E torna in grande stile, con una intervista a Sofie Andersen, Head of Digital Content and Editorial del Metropolitan Museum of Art di New York

Quanto è importante la strategia digitale per un museo del calibro del Met di New York? E in quali strumenti o attività si concretizza? Lo abbiamo chiesto a una esperta in forze al museo della Grande Mela, la digital strategist Sofie Andersen.

Sofie Andersen

Sofie Andersen

Quanto è importante lo sviluppo digitale per un museo? Siamo arrivati a una svolta?
Sì, gli ultimi diciotto mesi hanno decisamente accelerato e consolidato l’importanza del digitale per via dell’impatto di tre eventi globali interconnessi: la pandemia di Covid-19, le difficoltà economiche e il bisogno di giustizia sociale. È una linea nella sabbia per i musei; non esiste più una strategia del “reparto digitale” come funzione separata e non è più sensato metterne in discussione il valore generale. Il digitale è essenziale per gli obiettivi, il coinvolgimento e l’impatto ed è fondamentale per relazionarsi con i pubblici sia nelle sedi fisiche sia online.

Il Met ha grande attenzione per la dimensione online delle sue collezioni e per la sua diffusione gratuita in Rete…
L’adozione dell’Open Access da parte del Met, che rende accessibili gratuitamente 240mila opere d’arte e 409mila immagini con licenza Creative Commons, ha quasi cinque anni e continua a essere uno degli strumenti più importanti per portare l’arte al pubblico dove si trova. È stato un enorme sforzo, lanciato da Loic Tallon e supportato da molti dipartimenti nel museo. Grazie a questo, abbiamo visto più di 250 milioni di persone ogni anno interagire con la collezione tramite Wikipedia, abbiamo raggiunto nuovi studenti in tutto il mondo con piattaforme come FlipGrid di Microsoft, abbiamo permesso ai giocatori di fare curatela sulla collezione del Met all’interno di Animal Crossing e di esplorare le nuove gallerie create dall’esperienza virtuale con Unframed di Met x Verizon. Il più grande successo del programma Open Access non è solo che possiamo diffondere più facilmente storie sulla collezione e i relativi sforzi di ricerca, ma che chiunque può trovare un’opera per ispirarsi e remixarla con altre. Si realizza così la mission del Met di essere a museum of the world, by the world, and for the world.

Andy Warhol, Mona Lisa, 1963. Acrylic and silkscreen on canvas. 44 x 29 in. The Metropolitan Museum of Art, New York © 2020 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. / Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York.

Andy Warhol, Mona Lisa, 1963. Acrylic and silkscreen on canvas. 44 x 29 in. The Metropolitan Museum of Art, New York © 2020 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. / Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York.

IL MET E IL PUBBLICO DIGITALE

Ti ho sentita parlare di un pubblico locale raggiunto online durante il lockdown.
Ci sono molti incredibili nuovi sviluppi in corso, dalle esperienze a 360 gradi alle innovazioni nello storytelling, ma la pandemia ci ha ricordato quanto sia importante essere informati sulle reali esigenze del pubblico. Quando il museo ha chiuso i battenti nel marzo 2020, abbiamo immediatamente dedicato i nostri canali a mettere in evidenza la collezione permanente. Essendo una grande istituzione, con una lunga storia di investimenti nel digitale, siamo stati fortunati nell’avere già pronti ricchi archivi da cui attingere; abbiamo notato enormi picchi di fruizione in particolare nella Timeline of Art History e nei nostri contenuti Met Kids.

Ci sono due mondi separati là fuori? Uno online e uno offline, gestiti con diversi tipi di competenza?
Così come non c’è una storia da raccontare su un’opera d’arte, non c’è una modalità di vivere i musei. Dovremmo valutarli come un ecosistema di contenuti e ciò significa adottare un approccio olistico che consideri insieme i canali online e le esperienze di persona. Mentre differenti approcci possono dare forma diversa all’education in presenza o alla produzione di un video, ad esempio, tutte le narrazioni che proponiamo sono interconnesse e dovrebbero costituire la risposta alle medesime domande: “In che modo questo contenuto o esperienza aiuta il nostro pubblico a capire, connettersi, confrontarsi o contestualizzare un’opera? È questo il modo migliore per raccontare questa storia?”. È il concetto di “museo ibrido”: in verità tutti noi stiamo sperimentando in questa direzione da tempo; la sfida ora è assicurarsi che ognuno di questi sia un modo ugualmente autentico di vivere la cultura, anche nei musei.

Cosa pensi del conflitto tra l’“agency” degli oggetti e l’esperienza digitale?
Credo che l’esperienza artistica possa essere trasformativa e i musei possano essere spazi di incontro (tra arte, persone e idee) per creare nuove forme di significato. Musei e gallerie possono anche essere considerati tra i pochi spazi pubblici in cui possiamo riunirci in modo informale e riflettere su noi stessi e sul mondo che ci circonda, senza aver sempre bisogno della mediazione o degli schermi che frammentano così tanto la nostra vita. Ma non penso a queste esperienze come se fossero contrapposte; esistono invece diverse modalità per le diverse esigenze dei visitatori o tipologie di opere/oggetti.

Héctor Zamora, Lattice Detour, 2020. Courtesy the artist. Credits: The Metropolitan Museum of Art. Photo Anna-Marie Kellen

Héctor Zamora, Lattice Detour, 2020. Courtesy the artist. Credits: The Metropolitan Museum of Art. Photo Anna-Marie Kellen

I PROGETTI DEL MET DI NEW YORK

Raccontaci del tuo rapporto con il Met. Quali sono i tuoi progetti preferiti?
Sono al Met da quasi tre anni, ma questa è in realtà la mia seconda volta qui! Mi sono trasferita a New York per lavorare per il Met e altri musei principalmente intorno a New York, da esterna, e per dieci anni ho creato audioguide interpretative e app. Credo fermamente nel potere della narrazione, in particolare dell’audio, di connettersi con l’arte – ovviamente con l’audio non ci sono distrazioni dovute allo schermo, ed è un mezzo da cui possiamo attingere ovunque ci troviamo.

Puoi dirci qualcosa sul progetto Met Stories?
È stato uno dei miei primi progetti al ritorno al Met. Originariamente concepita per il nostro 150esimo anniversario nel 2020, la serie di video è progettata per portare le voci di tutta la nostra comunità a parlare dell’importanza del Met; siamo rimasti sbalorditi dalla risposta alla serie, che ha risuonato anche di più durante la pandemia, e ha davvero messo in evidenza le connessioni emotive che così tante persone provano con l’arte.

Consiglieresti un libro stimolante per i colleghi italiani?
Poiché sono una digital strategist, condividerò con voi una mostra provocatoria, un progetto di Alain de Botton e John Armstrong: Art as Therapy. Il catalogo è fantastico. Porta con sé temi che ho sentito come importanti durante tutta la mia carriera, quali la proprietà trasformativa dell’arte, ma adoro il modo spensierato e accessibile in cui il progetto tiene insieme l’interpretazione con i dilemmi quotidiani che molti di noi affrontano. Forse l’arte può aiutare.

Maria Elena Colombo

https://www.metmuseum.org

Versione aggiornata dell’articolo pubblicato su Artribune Magazine #64

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