I musei nell’era post-digital. Li racconta un convegno a Torino

Come sono cambiati i musei a contatto con le nuove tecnologie? Quali sono le opportunità e quali i rischi connessi all'uso dei computer e delle reti in questo settore? Sta per aprire a Torino, presso OGR, il convegno “Museums at The Post-Digital Turn”, due giorni di discussione con relatori nazionali e internazionali per comprendere il ruolo dei musei nel ventunesimo secolo. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Giusti, membro del Consiglio Direttivo di AMACI, che promuove l'iniziativa, e direttore del Museo MAN di Nuoro.

Cominciamo con il termine “post-digital”. Leggendolo, a qualcuno potrebbero venire in mente le parole della Canzone dei vecchi amantic’è voluto del talento per riuscire a invecchiare senza diventare adulti”. Qual è la tua valutazione sulla riflessione tra musei e digitale? A questo alludi quando pensi a una sfida generazionale?
Lo so, suona sempre un po’ pretenzioso utilizzare dei neologismi nei titoli. In particolare quelli che includono il prefisso “post”. Avevamo però bisogno di appoggiarci a un termine capace di esprimere la transizione che stiamo vivendo. La rivoluzione digitale c’è già stata e oggi ci troviamo in una fase successiva. “Post”, ovviamente, non significa “dopo la fine” del digitale. Post significa “dopo una prima fase”. Non è la negazione della prima fase digitale, è la sua normalizzazione. Il termine evoca un ambiente che dà per scontato i linguaggi digitali, abbracciando una fusione tra l’arte, la sua diffusione, la promozione e il design, per descrivere una condizione complessa degli oggetti contemporanei.
Ovviamente, come ogni categoria, anche questa ha dei limiti di approssimazione. Questi limiti ci sono comunque sembrati minori rispetto a quelli di “post-internet”, un altro termine molto diffuso e controverso, più strettamente riferito alle pratiche artistiche. Una definizione che con Nicola Ricciardi avevamo considerato all’inizio e su cui abbiamo comunque continuato a riflettere. Se pensiamo a quali sono i nodi tematici che si porta dietro ‒ processi di attenzione, collasso dello spazio fisico, riproducibilità e mutabilità dei materiali digitali, concetto di open source e di autorialità espansa ‒, la sfida generazionale che i musei si trovano ad affrontare dovrebbe apparirci abbastanza chiara. Stanno davvero cambiando molte cose.

La presenza di voci italiane al convegno è molto contenuta fra i relatori, museali e accademici. È segno di un’arretratezza delle istituzioni italiane? Mancano voci significative?
Non sono mancati anche in Italia momenti di sperimentazione, ma sono effettivamente poche le istituzioni che hanno dedicato a queste tematiche un’attenzione specifica, ed è per questo che, con i direttori dei musei AMACI, abbiamo sentito l’esigenza di aprirci a un discorso che, da un punto di vista teorico, non possiamo negare sia stato portato avanti soprattutto in altri contesti. Lo abbiamo fatto in una prospettiva di revisione del ruolo e delle modalità operative dell’associazione. Con l’obiettivo di sommare all’attività di messa in rete delle realtà museali e di diffusione dei linguaggi del contemporaneo, portata avanti da sempre dall’associazione, la produzione di contenuti aggiornati. Con questo preciso obiettivo abbiamo inaugurato Museo XXI, una piattaforma di indagine aperta alle diverse aree problematiche che coinvolgono il settore dei musei. Un percorso che inizia oggi con questo primo simposio internazionale dedicato al post-digital ‒ realizzato con OGR grazie al contributo della Fondazione CRT e alla partecipazione di Gail Cochrane e Pier Paolo Peruccio del Politecnico di Torino ‒ e che proseguirà in futuro con nuovi momenti di approfondimento su altri temi di attualità.

Si fa sempre più fatica a interpretare il reale e il virtuale come campi separati, come spazi distinti. Entrambi condizionano profondamente la nostra esistenza. Possono essere plasmati, manipolati e possono apparirci diversi da quello che sono”.

Qual è, dunque, l’obiettivo del convegno?
Vorrei sgomberare il campo da un possibile equivoco. Questo non è un convegno sulle “grandi opportunità” della tecnologia digitale per i musei. Non siamo dei fanatici del digitale né tantomeno dei venditori di soluzioni digitali per i musei. Abbiamo voluto analizzare una condizione esistente, trattandone le caratteristiche, le opportunità, ma anche le zone d’ombra e i rischi. L’intento è stato, sino dall’inizio, di affrontare l’argomento in maniera trasversale. E soprattutto di farlo in maniera critica. Del resto, insieme alle grandi opportunità, ci appaiono ormai palesi, direi evidenti, anche i rischi di internet e del digitale, su diversi fronti.

Quale definizione attribuisci tu, ad oggi, alle parole “virtuale”, “digitale”, “reale”? Quali possibili sovrapposizioni o ambiguità?
Si fa sempre più fatica a interpretare il reale e il virtuale come campi separati, come spazi distinti. Entrambi condizionano profondamente la nostra esistenza. Possono essere plasmati, manipolati e possono apparirci diversi da quello che sono. Entrambi sono spazi di lavoro, di espressione, di esperienza, di egemonia, di propaganda, di critica, di mercato, di controllo…

Il focus di AMACI è il contemporaneo, ma credi che il museo che ha per oggetto collezioni di altre epoche o di altra matrice non sia interessato con il medesimo peso dal “digitale”?
Certamente. Oggi la visione online di qualsiasi tipo di opera d’arte precede quasi sempre quella dal vero, o spesso la sostituisce del tutto, e questo è qualcosa che interessa tutte le tipologie di museo. Gli effetti a lungo termine di operazioni ormai diffuse, come ad esempio la messa online da parte dei musei di immagini in alta definizione delle opere della collezione, sono ancora da verificare. Nell’immediato è facile pensare a un ritorno in termini di visibilità e reputazione, ma quando tutto sarà fruibile tramite uno schermo che fine faranno i musei? Avremo ancora interesse per la materialità dell’opera? Ne avremo di meno? O forse di più? E come la percepiremo? Attraverso cosa? Attraverso quali esperienze? Indubbiamente stiamo parlando di un tema tornato a essere chiave.

Oggi la visione online di qualsiasi tipo di opera d’arte precede quasi sempre quella dal vero, o spesso la sostituisce del tutto, e questo è qualcosa che interessa tutte le tipologie di museo”.

Separiamo i due fronti: il digitale nell’ambito della produzione dell’arte, e il digitale come strumento di fruizione del pubblico (con genesi indipendente o messo a disposizione dal museo). Quali sono le riflessioni specifiche per ciascuno?
Parlando della produzione, senza dubbio oggi un numero sempre maggiore di opere d’arte sembra essere realizzato appositamente e in alcuni casi esclusivamente per una visione attraverso lo schermo. Boris Groys, che aprirà il convegno, ritiene che internet e il digitale abbiano portato alle estreme conseguenze la necessità dell’arte contemporanea di farsi flusso, di abbandonare l’oggetto artistico per performare la propria finitezza, abbracciando così la totalità materiale di quello che chiama “il flusso”. E allora dobbiamo chiederci: qual è il modo giusto per mostrare le opere digitali negli spazi fisici? E le opere online negli spazi offline? E in relazione a tutto questo, quali risultati ‒ in termini di consenso e incidenza dei progetti museali ‒ è legittimo attendere in un sistema di visione e ratifica sempre più esterno allo spazio fisico del museo? Questi saranno alcuni dei temi principali del simposio.

Legislazione, copyright, riproduzione e disseminazione delle immagini delle opere: quali i passi da fare perché la legislazione sia allineata con i processi già in atto?
Questo non è un aspetto di cui tratteremo direttamente nella due giorni di Torino, pur essendo un tema fondamentale. Il campo della legislazione, del copyright e della riproduzione dell’opera d’arte può essere indagato in termini teorici ma, avendo delle specificità territoriali, necessita di un approccio differente. Mi riprometto di dedicargli un focus negli atti che pubblicheremo all’inizio del nuovo anno.

Marco Enrico Giacomelli

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