Daniel Libeskind e Milano. L’intervista

Attesa per la seconda metà del 2020, la Torre Libeskind completerà una delle più significative (e discusse) operazioni immobiliari promosse in questi anni a Milano. Un’analisi dello scenario e un’intervista all’architetto polacco a cura di Alessandro Benetti.

All’inizio del 2018, mentre i resti di Expo 2015 baluginano ancora nei retrovisori degli automobilisti sulle autostrade Mi-To e dei Laghi, le grandi operazioni immobiliari che nell’ultimo decennio hanno rivoluzionato ampie porzioni di Milano possono dirsi definitivamente “passate”. Passate perché appartengono a una visione della città in crescita che affonda le sue radici a monte della crisi economica, e che proprio dall’esposizione universale ha (fortunatamente) tratto le energie necessarie a non rimanere per sempre interrotta; passate perché nuovi temi hanno progressivamente occupato il dibattito sull’urbanistica e l’architettura milanese, prima fra tutti la grande incognita degli scali ferroviari; passate, infine, perché ormai sostanzialmente complete delle principali infrastrutture ed edifici previsti dai rispettivi P.I.I. (Piani Integrati d’Intervento).
Le downtown “rivali” di Porta Nuova e CityLife sono certamente i lasciti più imponenti e visibili della vivacità immobiliare milanese dei primi anni Duemila, e proprio a CityLife resta da completare l’ultimo dei grandi grattacieli promessi dai render dell’epoca. Il “curvo”, membro ritardatario di un trittico che sembra preso in prestito da un testo di Enzo Jannacci e che comprende anche il “dritto”, di Arata Isozaki, e lo “storto”, di Zaha Hadid. Paradossalmente, dopo tanti rinvii e tante sedicenti visualizzazioni contestualizzate nei paesaggi della città, il grattacielo progettato dallo studio di Daniel Libeskind appartiene oggi al futuro di Milano tanto quanto alla sua memoria collettiva.

Daniel Libeskind, CityLife Central Tower. (c) Struttura Leggera

Daniel Libeskind, CityLife Central Tower. (c) Struttura Leggera

I GRATTACIELI DI MILANO: INGOMBRANTI O “TOCCO DI CLASSE”?

Di Porta Nuova e CityLife si è detto e si è scritto molto. È stata messa in dubbio la capacità di questi interventi di costruire il common ground della città contemporanea: certo, l’abbondanza di attività commerciali, l’iper-programmazione dei suoi spazi (tra piste di pattinaggio e mercatini di Natale) e la localizzazione strategica allo snodo dei flussi tra l’Isola e corso Como ha fatto di piazza Gae Aulenti la piazza di Milano, ma a costo d’imporre al suo contesto una “prova di forza” spaziale (Marco Biraghi) che comprende due interminabili rampe d’accesso, scale fisse e mobili, ascensori. La tipologia architettonica del grattacielo, che pure a Milano può contare sul fortunato precedente del Pirelli di Gio Ponti, è stata guardata con sospetto perché considerata poco “autoctona”, e da contenitore si è fatta capro espiatorio del suo contenuto. Così, nel gennaio del 2017, quando il sindaco Beppe Sala ha giustamente invocato uno stop alla costruzione di “case a 10mila euro al metro quadro”, gran parte della stampa ha frainteso la sua ragionevole richiesta di alloggi per i ceti meno abbienti, e i titoli del giorno hanno recitato un perentorio “stop ai grattacieli”. Che, dal canto loro, non hanno faticato a trasformarsi nelle nuove icone di Milano (su tutte, la Torre Unicredit e la sua spire). Cionondimeno, il nuovo skyline super-corporate ha fatto sorgere diffuse perplessità sull’evidente “privatizzazione” del paesaggio urbano, tanto che nel febbraio 2018 un sito d’informazione sempre attento all’attualità come Urbanfile poneva ai suoi lettori il curioso quesito: “Opinioni. Le insegne sulle torri: ingombranti o tocco di classe?”.

Daniel Libeskind, CityLife Central Tower. (c) Struttura Leggera

Daniel Libeskind, CityLife Central Tower. (c) Struttura Leggera

VERSO LA TORRE LIBESKIND

Dopo la citata Unicredit, BnP Paribas, Allianz e Generali (Urbanfile cita a proposito anche l’antica insegna Martini sulla Torre Diaz di Luigi Mattioni), sarà la società di servizi PwC ad apporre il proprio logo sulla Torre Libeskind, al suo completamento nella seconda metà del 2020. L’annuncio è stato dato alla stampa lo scorso 19 febbraio, alla presenza dello stesso progettista. In quell’occasione, Libeskind ha condiviso in esclusiva con Artribune alcune considerazioni sul futuro di Milano e dell’Italia, chiamando in causa concetti “pesanti” come storia e contesto, governance pubblica e partecipazione, tradizioni passate e future. Le sue dichiarazioni, che sono sensate e condivisibili, e testimoniano sicuramente dello spessore intellettuale di un architetto che fa già parte della Storia, restano troppo spesso sospese in un registro “generico”, entusiasta ma prudente come uno slogan. È una situazione non troppo dissimile da quella di molti suoi progetti degli ultimi anni, tra cui la stessa torre milanese, che richiama alla mente un interrogativo inquietante espresso di recente da Salvatore Settis: “Ma se Dubai è cresciuta imitando Londra, a quale meta aspirano le città europee che oggi imitano Dubai?”.

L’INTERVISTA

Negli Anni ’80, lei ha vissuto per alcuni anni (dal 1986 al 1989) a Milano. Com’è cambiata la città da allora?
Milano è cambiata enormemente, e non è soltanto una questione di infrastrutture e di edifici. Piuttosto, è un tema più generale di cultura della città: trent’anni fa, Milano era completamente rivolta verso il passato, mentre negli ultimi anni si è trasformata in una città dinamica, proiettata verso il futuro. Non è una coincidenza che oggi sia considerata come un caso eccezionale non solo in Italia, ma anche a livello europeo.

Quali sono, a suo parere, le condizioni fondamentali che hanno reso possibile la crescita della città negli ultimi anni?
Al di là dei fattori economici e politici, ritengo ancora una volta che si tratti di una questione soprattutto culturale, che ha a che fare strettamente con la storia della città. Milano ha una lunghissima tradizione di vitalità urbana, che si è sviluppata per secoli ed è stata costantemente supportata e mantenuta attiva dagli stessi cittadini. A differenza di quanto accade in altri luoghi, i milanesi s’interessano alla loro città, hanno una forte coscienza di quello che accade e partecipano con grande coinvolgimento al suo sviluppo. Questo, a mio parere, è l’elemento fondamentale che permetterà a Milano di proseguire il percorso di crescita che ha intrapreso nell’ultimo decennio.

In poco più di dieci anni, il paesaggio di Milano è cambiato enormemente, e CityLife è uno dei poli di questo rinnovamento. Cosa ne pensa?
Quando s’intraprende un’operazione di grande rilievo come CityLife, in un contesto prezioso come quello di Milano, la questione fondamentale che si pone è come riuscire a trovare un equilibrio tra due poli, solo apparentemente opposti. Da un lato bisogna ascoltare e rispettare il passato della città, la sua storia, la sua struttura, le necessità e le richieste che emergono dal contesto. Contemporaneamente, però, non bisogna aver paura di prefigurare il futuro della città: e non parlo di un futuro mediocre, ma di un futuro audace, coraggioso, senza complessi d’inferiorità rispetto al passato.

Daniel Libeskind. Photo (c) Stefan Ruiz

Daniel Libeskind. Photo (c) Stefan Ruiz

Quali attori partecipano alla costruzione di questo futuro?
Architetti, urbanisti e designer hanno certamente un ruolo molto importante, ma non basta. È necessaria una forte leadership civica. Il ruolo delle amministrazioni, in questo senso, è fondamentale per evitare che si creino delle “isole” sparse nel tessuto urbano ma che, al contrario, tutti i nuovi interventi entrino a far parte di una rete connessa. Non parlo solo della creazione di percorsi (pedonali, ciclabili e del trasporto pubblico), che sono solo il layer più superficiale di questa rete, ma mi riferisco soprattutto più in generale alla possibilità di configurare un’esperienza urbana continua e di qualità per tutti. È un lavoro complesso, che richiede tempo.

A sessant’anni dal suo completamento, il grattacielo Pirelli è ormai considerato unanimemente come parte della tradizione architettonica milanese. Succederà lo stesso per le torri degli anni Duemila?
Certamente. Sono convinto che in meno di vent’anni anche questi edifici entreranno a far parte di una nuova tradizione dell’architettura della città.

Da molti punti di vista, Milano è considerata come un’eccezione rispetto al resto d’Italia. Allargando lo sguardo a tutto il Paese, quali sono secondo lei i temi più urgenti su cui lavorare?
Lavorare con il patrimonio ereditato dal passato pone certamente una grande sfida. Ho riflettuto molto su questo tema, anche perché nei prossimi mesi farò parte della giuria di concorso che valuterà i progetti proposti per il recupero del Castello di Santa Caterina, a Favignana. A mio parere, l’heritage non ha a che vedere solo con il passato, ma anche e soprattutto con il futuro. L’unica condizione per lavorare con efficacia sul patrimonio architettonico, l’unico modo per trovare a esso un significato contemporaneo, è immaginarlo nel futuro. È inutile lavorare sulla facciata degli edifici, al puro scopo di “conservarli”. È necessario chiedersi quale può essere il ruolo di questa immensa eredità materiale, come può preservare una funzione vitale, un valore sociale. Questo deve essere il ruolo dell’architettura contemporanea, molto più che costruire edifici per il puro gusto di farlo.

Alessandro Benetti

https://libeskind.com/

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Alessandro Benetti

Alessandro Benetti

Alessandro Benetti è architetto e curatore. Ha collaborato con gli studi Secchi-Privileggio, Macchi Cassia, Laboratorio Permanente, viapiranesi e Studio Luca Molinari. Nel 2014 ha fondato Oblò – officina di architettura, con Francesca Coden, Margherita Locatelli ed Emanuele Romani. Ha contribuito…

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