Performance, poesia e memoria. Intervista a Regina José Galindo

Le sue performance mettono in luce senza mezze misure le problematiche più attuali. Proprio come accade nella mostra al PAV di Torino, dove emerge la questione della riapertura delle centrali a carbone. Lei è Regina José Galindo e le abbiamo chiesto di raccontarci il suo lavoro

Poetessa e performer, Regina José Galindo (Città del Guatemala, 1974) utilizza da sempre il suo corpo e la sua voce per evidenziare e denunciare le ingiustizie più cruente e i drammi profondissimi dell’umanità. Lontana dall’esibizionismo del dolore, crea performance dall’estetica minimalista dove ogni elemento colpisce la coscienza dello spettatore in maniera forte e chiara.
Tierra, la mostra allestita al PAV di Torino, mette in risalto le opere di Galindo incentrate sul tema della terra, appunto, fondamento vitale e poetico che però sta alla base di continue violenze, guerre e abusi di potere. Curata da Marco Scotini, la mostra ripercorre la ventennale carriera dell’artista, esaltando la capacità estrema di Galindo di empatizzare con il suo pubblico in pochi semplici gesti: concede ai passanti di urinare sul suo corpo nudo, accovacciato al suolo e ricoperto di carbone (Piedra, 2013); nascosta in un campo di grano, attende che quattro uomini lo sterminino a colpi di machete (Mazorca, 2015).
Il percorso espositivo culmina in una nuova performance, pensata appositamente per l’istituzione torinese, dove l’artista viene lentamente ricoperta da un cumulo pesante di carbone, che ne lascia scoperto solo il volto. Coal to Light a Fire denuncia la scelta di molti Paesi europei di riaprire le centrali a carbone, il materiale a più alta emissione di CO2, per sopperire ai tagli energetici della Russia. L’invasione della Russia in Ucraina, ci spiega l’artista, è una partita a scacchi tra una potenza e tutte le altre, che evidenzia quanto troppi Paesi dipendano dalle superpotenze e scelgano, ancora una volta, di abusare della loro terra piuttosto che stipulare accordi.

Regina José Galindo, Mazorca, 2014. Photograph, glossy print on dibond, 150 x 100 cm. Courtesy the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani, Milan-Lucca

Regina José Galindo, Mazorca, 2014. Photograph, glossy print on dibond, 150 x 100 cm. Courtesy the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani, Milan-Lucca

INTERVISTA A REGINA JOSÉ GALINDO

Ci siamo incontrate due anni fa a Roma, in occasione della tua performance Lavarse las manos alla Real Academia de España. Fa impressione pensare a quanto la situazione mondiale sia cambiata in così poco. Innanzitutto, non c’era ancora stata una pandemia globale.
La pandemia è stata una crisi umanitaria che ci ha scaraventati in uno dei momenti più oscuri dell’umanità. Forse, però, la tragedia più grande è stata vedere che umanamente non siamo migliorati, che non c’è stato alcun cambiamento sostanziale nella nostra etica, quando invece era quello che ci aspettavamo. Si ripeteva spesso che la pandemia ci avrebbe avvicinati apportando dei cambiamenti positivi nelle società, in parte pensavamo addirittura che si sarebbero superati i conflitti. Ti devasta renderti conto che dopo anni di pandemia l’umanità è ancora più egoista di prima.

E infatti è scoppiata una nuova guerra.
L’invasione della Russia in Ucraina genera un conflitto europeo, del primo mondo, per questo è così importante. È una partita a scacchi, dove una potenza fa pressione a tutte le altre, mentre noi, soprattutto dalle Americhe, restiamo a guardare passivamente. Non è la nostra guerra. Gli effetti collaterali, però, come l’impennata dei prezzi degli alimenti e delle materie prime, li viviamo sulla nostra pelle.

Avendo vissuto in Guatemala un conflitto che portò, fra le altre tragedie, al genocidio del popolo Maya, come vivi l’attuale crisi?
Ricordati che tutto gira intorno all’economia. Le grandi potenze, nel nostro sistema patriarcale e capitalista, avranno sempre il potere economico nelle loro mani e quindi il potere in generale. È facile: il pesce grande mangia il pesce piccolo. Per noi è una guerra aliena, ma non per questo ci lascia indifferenti. Qualsiasi conflitto ci avvicina all’oscurità e l’oscurità si condivide. La tragedia europea, come quella degli Stati Uniti, prima o poi arriva a noi del terzo mondo perché dipendiamo dalle grandi nazioni. Ancor più, però, c’è un’empatia da parte dei guatemaltechi, del terzo mondo, verso i popoli invasi, verso la morte, la guerra, il fuoco.

Regina José Galindo, Tierra, 2013. Photograph, lambda print on dibond, 90x135 cm. Courtesy the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani, Milan-Lucca

Regina José Galindo, Tierra, 2013. Photograph, lambda print on dibond, 90×135 cm. Courtesy the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani, Milan-Lucca

LA MOSTRA DI REGINA JOSÉ GALINDO A TORINO

La mostra si chiama Tierra e indaga la terra come bene vitale, ma anche elemento cardine nelle politiche di guerra. Tra le opere c’è pure Raíces, presentata a Palermo nel 2015, dove la terra è simbolo di resistenza. Nell’attuale conflitto, però, il terreno si lega alla guerra, alla fame di conquista.
Tutti i conflitti nascono dalla terra. Qui si concentra l’importanza economica dell’umanità, il valore del mondo. Pensa solo al Guatemala, dove la guerra inizia dalla terra espropriata alle comunità indigene, accusate come copertura di aver formato delle guerriglie clandestine. Parte tutto dal furto della terra, i grandi interventi nelle colonie ne sono un altro esempio. Le migrazioni più grandi iniziarono nel 1992 con l’intervento spagnolo e di altre grandi potenze nella nostra nazione.

Per questo hai deciso di affrontare in questa mostra, in questo momento storico, il tema della terra?
Sì, sono partita dal conflitto tra Russia e Ucraina, che ovviamente nasce dalla volontà di conquistare terreno e dunque acquisire valore e potere economico.

Le tue performance creano uno stretto dialogo con il luogo in cui si inseriscono. Ci troviamo a Torino, importante capoluogo dell’industria, e qui presenti il nuovo lavoro Coal to Light a Fire, che mette in luce l’enorme problematica del carbone e il fatto che molti stati stiano per riaprirne le fabbriche. Ce ne parli?
Più che Torino in sé, analizzo la situazione europea e le politiche adottate dalle varie nazioni in relazione al conflitto. La performance è comunque pensata come site specific per il PAV, che mi ha invitata, e l’Italia ha la sua parte: anche qui, infatti, si parla di riaprire le centrali a carbone. L’opera gira intorno al depauperamento delle risorse naturali e dunque all’abuso sulla terra. Questo sistema diventa inevitabilmente sinonimo dello sfruttamento dell’essere umano, che lavora la terra e ne deve trarre nutrimento. In atto c’è anche una riflessione sulla dipendenza dei Paesi piccoli rispetto al potere delle grandi nazioni. Per sopravvivere ai tagli all’energia da parte della Russia, le nazioni europee si sono viste “obbligate” a un ritorno al carbone, in modo da sostenere l’uso di gas quest’inverno. La Germania, per esempio, ha già autorizzato l’apertura di 27 centrali! Sono tantissime e altri Paesi stanno andando verso la stessa direzione: Italia, Paesi Bassi e Francia, tra gli altri, hanno approvato misure simili. La performance parla dell’Europa di oggi, in questa crisi.

Il carbone è il combustibile a più alta emissione di CO2, motivazione preponderante che aveva portato alla dismissione generalizzata di questo fossile. Ancora una volta la terra, ambiente e radice, viene messa in secondo piano rispetto all’economia. Davvero non c’erano altre soluzioni per affrontare la crisi?
Chiaro. Nuovamente la terra e il valore umano che ricopre sono poste su un livello inferiore. Una volta ancora si va a violentare la terra, ad abusarne ancora per qualche anno, perché in fondo è proprio lì la fonte delle maggiori ricchezze e risorse. Dunque, ciò che è parso più ovvio è stato risolvere il conflitto sfruttando la terra, invece che raggiungere una negoziazione economica e politica.

Questa incapacità, o mancanza di volontà, di trovare un accordo per non dover sfruttare negligentemente la terra evidenzia come ancora molti Paesi facciano fatica a sopravvivere senza le superpotenze.
Certo, rende evidente il problema della dipendenza nelle relazioni economiche dell’attualità, in questo caso dell’Europa verso la Russia. Mi chiedo: cosa resta della libertà, dell’autonomia e dell’indipendenza in questo scenario? Questo è quello che genera la globalizzazione: la non indipendenza, la non autonomia.

Questa riflessione sulla mancanza di libertà mi ricorda quello che mi dicesti qualche anno fa sulla relazione tra l’utilizzo smodato della terra e l’idea di possesso e uso del corpo. Come sono legati?
Deriva tutto dal patriarcato. È da quando inizia il possedimento della terra che comincia l’idea di possesso del corpo della donna. Questo perché quando la terra diventa proprietà inizia a essere usata e sfruttata e, di pari passo, si instaura l’idea dell’appropriazione del corpo della donna, utile per la generazione della famiglia che si prenderà cura di questa terra. Il capitalismo e la brama di possedimenti sono strettamente connessi al patriarcato. Proprio la conquista e il possesso della terra hanno condotto al possesso della donna.

L’ATTUALITÀ SECONDO REGINA JOSÉ GALINDO

Nel 2003, con la performance ¿Quién puede borrar las huellas?, hai tracciato un percorso di impronte umane insanguinate dalla Corte Costituzionale al Palazzo Nazionale della Città del Guatemala, luoghi simbolo del potere. Condannavi, così, la ricandidatura dell’ex dittatore José Efraín Ríos Montt, autore di più colpi di stato e complice del genocidio Maya, definendo la tua nazione un “Paese senza memoria”. Penso ora all’Italia, che ci ha appena dimostrato di essere vicina alla cultura dell’oblio: le recenti elezioni hanno visto la vittoria della destra storica, che da tempo strizza l’occhio alle politiche neo-fasciste. Se la compariamo alla Germania, sembra ancora più evidente come anche l’Italia sia un Paese senza memoria.
Credo che l’Italia non abbia elaborato a sufficienza questa memoria. Hai ragione, in Germania ci sono delle leggi che proibiscono il ritorno di quella storia e ci lavorano di continuo, soprattutto nel sistema educativo. È una memoria che genera vergogna, uno stigma con cui la società tedesca deve convivere. In Italia non è così! Qui non c’è uno stigma che grava sui sistemi, è come se tutto quello che è successo con Mussolini fosse stato assorbito in maniera quasi naturale; tantomeno queste elezioni sono la prima volta in cui il Paese si riavvicina alla destra. La tragedia della memoria italiana non è mai stata gestita ed elaborata con dignità.

Alla base delle tue opere vi è la volontà di generare empatia nel pubblico affinché possa entrare nel cuore delle urgenti questioni che presenti. Ciò avviene soprattutto grazie alla semplicità visiva che accompagna le tue performance, nonostante i temi trattati siano sempre strazianti ed estremi. Come prepari le performance, come giungi al punto finale?
Credo sia il risultato di essere poetessa. L’esercizio della poesia è come il giardinaggio: continui a potare, a tagliare, a levare tutto quello che è in più, una fogliolina qui e una lì, ogni piccolo seme che non ti serve. Così, arrivi allo scheletro, alla materia prima e quindi arrivi alla verità. Questa pratica e questa precisione mi hanno accompagnato nella creazione delle mie immagini dall’estetica minimalista, come dici tu. Penso anche che, costruendo così l’immagine, con la quantità minima di elementi, essa resista più a lungo nella memoria del pubblico… non ti assorda.

Qual è la parte più difficile in tutto questo?
Per me è la cosa più difficile trovare questa semplicità. Ci vuole molto lavoro per riuscire a pulire le idee, lasciare solo lo scheletro. Il momento più complesso delle mie performance arriva proprio quando devo concretizzare le mie immagini e riflessioni, pulirle, levare via tutto quello che forse distoglierebbe l’attenzione.

Irene Marchetti

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