Imparare dagli errori altrui: parliamo di integrazione oltre i pregiudizi e il politically correct

Una riflessione sul valore culturale ed economico delle risorse umane che parte dagli scontri che hanno polarizzato negli ultimi giorni la società francese. L’Italia si impegni per l’integrazione

Negli ultimi giorni ha destato particolare attenzione mediatica la notizia degli scontri rapidamente diffusisi in Francia. A far esplodere la rivolta, l’omicidio di un ragazzo di 17 anni a opera di un poliziotto durante un fermo stradale. È chiaro, tuttavia, che la questione sia ben più complessa e non possa essere ricondotta alla semplice rabbia causata da un evento traumatico. Essa va piuttosto inquadrata all’interno di un quadro più ampio, sia di natura economica, che di natura culturale e politica. Un quadro che è quanto mai necessario approfondire, soprattutto per il nostro Paese, considerate le dinamiche demografiche e l’esigenza di migranti in entrata. 
La questione è tra le più delicate che possano esserci nel dibattito pubblico, ma è quanto mai necessario affrontarla, malgrado questi temi siano divenuti un territorio minato. 
Per affrontare il tema, tuttavia, bisogna abbandonare ogni forma di pregiudizio: liberarsi in primo luogo del pregiudizio razziale negativo, che in un mondo globalizzato come il nostro non dovrebbe più aver senso di esistere; liberarsi anche di ogni pregiudizio razziale positivo, che miri a difendere tutti a spada tratta senza alcun tipo di lucidità; liberarsi infine della spinta al politically correct, il cui risultato è semplicemente una censura non costruttiva.

La separazione urbanistica. Il quartiere che diventa la città

Dunque, la condizione in Francia è ben nota: nata con una spinta industriale espansiva, e realizzata secondo logiche urbanistiche segreganti, presenti del resto anche nel nostro Paese, la condizione di “separazione” tra la città-stato parigina e molte comunità che orbitano intorno al tessuto urbano è evidente.
Tale separazione non colpisce soltanto Parigi: è uno schema che ha colpito molte delle città “cosmopolite” del XX secolo. Si pensi a Londra o a New York, in cui fino a qualche tempo fa c’erano aree in cui l’inglese non sembrava essere la prima lingua.
Questa separazione crea un impoverimento economico, culturale e sociale, all’interno del quale è frequente assistere alla crescita di fenomeni di micro-criminalità, e all’affermazione di un contesto che non presenta facili opportunità di crescita personale e collettiva.
Un elemento essenziale di questa equazione è la “separazione urbanistica”. Separazione che, avviata per motivi specifici nella seconda metà del Novecento, oggi viene tuttavia anche attivamente ricercata dalle persone che appartengono a determinate comunità.
È un fenomeno naturale: si pensi a quanti italiani che sono andati all’estero per trovare lavoro si siano inizialmente appoggiati a connazionali prima di poter prendere un locale in affitto.
Ma è un fenomeno che tende necessariamente a crescere nel tempo e ad autoalimentarsi: ci si reca in uno specifico quartiere per poter trovare iniziale sostegno (condizione che, nel caso degli immigrati clandestini è ancora più essenziale); all’interno di quel quartiere si trovano opportunità di lavoro (legale o illegale che sia), si creano relazioni, amicali e amorose, e alla fine il quartiere finisce con il divenire la città. Condizione che tutto sommato sperimenta chiunque viva all’interno di una città di grandi dimensioni, ma che può divenire un confine neanche troppo invisibile per determinate aree. Si tratta di condizioni osservabili anche nel nostro Paese, benché le dimensioni del fenomeno siano chiaramente diverse, per numero e per distribuzione, rispetto a quanto osservabile in altre realtà europee. 
Il fatto che la separazione, ad esempio, non coinvolga esclusivamente i grandi centri urbani, ma si distribuisca anche nei territori agricoli, non necessariamente “semplifica”: richiede anzi una strategia diffusa, che tenga conto delle numerose differenze che sussistono tra territorio e territorio, sia sotto il profilo economico che sotto il profilo sociale e culturale.

“Se le persone non sono parte del territorio che abitano, allora quel territorio semplicemente non si evolve: non cresce economicamente, culturalmente, né demograficamente”

Il valore delle risorse umane

Strategie che partano da un presupposto chiaro: il nostro Paese deve decidere se divenire l’ospizio del Mondo, con le sue bellezze naturalistiche, con il patrimonio culturale, con le prelibatezze enogastronomiche, oppure riprendere a crescere. Se si intende crescere, è necessario comprendere che l’attuale dimensione demografica non può essere sufficiente e che, come del resto è sempre stato nella storia, a fronte di tale condizione bisogna ricorrere a persone che provengano da altre nazioni: siano esse attratte dalle imprese, siano esse provenienti autonomamente con mezzi di linea o di fortuna.
Queste persone vanno interpretate come “risorse”, così come risorse sono le persone che sono nate nel nostro territorio. Ma possono essere risorse soltanto se “integrate” perché altrimenti non contribuiscono allo sviluppo del territorio. 
Se queste persone non sono parte del territorio che abitano, allora quel territorio semplicemente non si evolve: non cresce economicamente (perché le persone tenderanno a inviare i soldi guadagnati alle loro famiglie), non cresce culturalmente (condizione che soprattutto in alcuni contesti territoriali sarebbe importante), né demograficamente.
Ci sono degli elementi che vanno quindi sicuramente affrontati, come la questione della lingua: senza la conoscenza della lingua è impossibile avviare un processo di integrazione reale e concreta. C’è poi la questione dei diritti (diritti e doveri sono le due facce della stessa medaglia, se non riconosciamo ai nostri cittadini temporanei degli specifici diritti, semplicemente non avranno “nulla da perdere”, e la sopravvivenza è un imperativo molto forte), e ci sono le scuole. Perché la vera integrazione parte proprio dalla seconda generazione, se riusciamo a creare scuole che permettano ai bambini di conoscere persone differenti da quelle che vivono normalmente nel proprio quartiere.

 Bambini a scuola. Photo CDC via Unsplash
Bambini a scuola. Photo CDC via Unsplash

Obiettivo integrazione

E ancora la questione della cultura, della conoscenza reciproca della storia, dell’identificazione di tratti culturali comuni. O la questione del lavoro, che deve esserci, in primo luogo, e deve essere competitivo. Non è affatto detto che chi sia nato in Italia debba aver diritto a un lavoro “prima” degli altri. Anzi. 
Il lavoro deve servire a far crescere la collettività nel suo complesso, e non solo l’individuo. Poter contare su condizioni economiche speciali, tali da rendere persino nel nostro Paese competitivo sviluppare aziende, può essere un elemento molto importante per chiunque voglia investire e per chiunque voglia lavorare.
E poi di dimensioni ce ne sono tante, ma assicurare a tutti dei diritti, fornire loro la conoscenza della lingua, offrire la possibilità di condividere le proprie storie e di apprendere l’identità territoriale del nostro Paese, fare in modo che il lavoro premi il candidato più adatto per una determinata posizione e garantire alle seconde generazioni di poter confrontarsi con persone provenienti da differenti quartieri rappresentano delle spinte importanti per l’integrazione.
Il resto è materia da convegni post-scontro.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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