L’arte senza l’arte. Il libro di Raffaele Gavarro

Siamo nell’epoca dell’“analogicodigitale”. Lo afferma Raffaele Gavarro nel suo ultimo libro che guarda al panorama dell’arte calandolo nella attualità.

Il titolo dell’ultimo libro di Raffaele Gavarro, L’arte senza l’arte, potrebbe essere capovolto in “senza l’arte, l’arte”. Questo agile saggio parla, infatti, di una perdita seguita da una nuova acquisizione. La perdita è quella della solidità sostanziale dell’opera e l’acquisizione è quella di una nuova realtà che potremmo ancora definire arte. La prima riflessione di Gavarro è che il mondo digitale è essenzialmente costituito da codici numerici, quelle funzioni matematiche chiamate algoritmi che sottraggono contenuto esistenziale alla tecnica perché sempre più è affidato alle macchine l’esercizio delle esistenze. Tale processo ha permesso l’affermazione di quella realtà che l’autore definisce “analogicodigitale”. Nel mettere a punto questa considerazione, Raffaele Gavarro rilegge la relazione tra esistenza e arte misurandone gli effetti sulla libertà di giudizio. Ragiona, infatti, sull’impegno nella ricerca e nella conoscenza critica sottolineando come sia sempre più difficile individuare una intensa significazione nel corpo materiale dell’arte dal momento che l’intensità varierebbe per via dell’adattamento dell’arte ai propri tempi. La contemporaneità, dice ancora l’autore, sarebbe una qualità estetica imprescindibile di questa realtà analogicodigitale poiché si svilupperebbe: “[…] in un quotidiano che si dà come flusso ininterrotto non solo di informazioni, ma di veri e propri eventi, accadimenti che sono al contempo rappresentazioni, immagini, e non meno esperienze di contatto diretto con il, e nel, mondo e che ovviamente danno forma alla vita”. Una volta determinato l’esistente, il reperimento di un elemento che garantisca una qualità esistenziale risulterebbe più facile. La verifica costante dell’esistenza di ciascuno di noi in questo flusso servirebbe, quindi, a individuare fattori di contemporaneità. Usando l’esempio dell’opera Clock (2010) dell’artista americano Christian Marclay, Gavarro sottolinea quanto la tecnologia possa porre sotto assedio la nostra esistenza con mezzi sempre più aggiornati e rileva come la sincronia tra il farsi dell’arte e la percezione della stessa, pratica già nota nell’arte contemporanea, si sia talmente raffinata da porsi oltre il semplice concetto di site specific. Proprio il fattore spazio-temporale, a questo punto, sarebbe alla base della predilezione di molti artisti per una trasmissione istantanea.

RIFIUTI DIGITALI E DINTORNI

L’analisi del processo realizzativo dell’opera, dell’arte nel suo farsi, spinge Gavarro a intrecciare inevitabilmente il valore dell’opera con i mezzi di propagazione come Instagram, un intreccio che sfrutta la partecipazione interattiva del pubblico e che porta a unire azione e commento. Questa unità produrrebbe una quantità di detriti solo in apparenza inutili, solo in apparenza inqualificabili. In realtà queste “spam” sarebbero la parte più consistente dell’opera, una identità analogica che si ribella alla dissolvenza dell’immagine nell’evento, una parte caratterizzata da una materialità indefinita, solamente immaginabile, “super metafisica”. Il rifiuto digitale avrebbe una sostanza che, accumulata nella nostra coscienza, sarebbe capace di influenzare il nostro immaginario e, simultaneamente, di trasformarsi in uno strumento utile a evadere la rigida univocità di senso delle opere d’arte. Per illudere le rigidità di un format, questo materiale trasformerebbe ogni dato percepibile, un cascame che una volta raccolto ri-qualificherebbe proprio la percezione dei dati. Questi elementi sarebbero pronti a transitare nel display espositivo, ossia in quel particolare adattamento della mostra alla piatta immagine di uno schermo conforme sempre più a una modalità “meme”. Gavarro usa questo termine per spiegare il coinvolgimento nell’arte contemporanea delle immagini che arte non sono. Un processo legittimato da una estensione degli studi visuali e inaugurato da un nuovo genere letterario che sfida gli ambiti tradizionali della critica d’arte per occuparsi indifferentemente dell’intera iconosfera. La perdita della specificità dell’arte in una realtà “analogicodigitale” verrebbe compensata dal raggiungimento di questa “modalità meme” reperibile proprio in modelli espositivi che replicano i modelli visivi digitali. Questi display suggerirebbero un adattamento dell’arte a una strategia finalizzata a dar vita a un’arte senza l’arte. Nel merito del titolo del saggio, l’arte senza l’arte esaminata da Raffaele Gavarro non è però sopravvissuta alle “morti hegeliane”, infatti non s’afferma come massimo artificio trionfante sulla natura, bensì si confronta con la tecnologia includendola e utilizzandola per la costruzione di un mito. Tale macchina mitologica è spiegata in questo saggio seguendo una tesi già esposta da Gavarro nel suo Oltre l’estetica (Meltemi, 2007). Una tesi incentrata sulla figura di un artista contemporaneo incurante di una cifra stilistica propria, ma piuttosto spinto a muoversi su piani diversi pur di realizzare un progetto estetico e, con ciò, si poneva oltre l’edificio interpretativo e teorico dell’estetica.

Raffaele Gavarro ‒ L’arte senza l’arte (Maretti, Imola 2020)

Raffaele Gavarro ‒ L’arte senza l’arte (Maretti, Imola 2020)

ARTISTI ED ESTETICA CONTEMPORANEA

In quel saggio, infatti, Gavarro ha usato esempi dell’attività degli artisti per mappare il pensiero estetico contemporaneo. Anche ora preferisce spiegare “l’arte senza l’arte” con i caratteri delle opere contemporanee: l’iperbole finzionale di Damien Hirst Treasures from the Werck of the Unbeliveble o l’antro alchemico di Roberto Cuoghi, l’Imitazione di Cristo che abbiamo visto alla 57esima Biennale di Venezia, ma anche il complessissimo sistema di rimandi de La città delle finestre dell’artista Hito Steyerl e, infine, il microcosmo presentato alla Serpentine Gallery di Londra da Pierre Huyghe.
L’analisi di queste opere serve a scovare una strategia comune finalizzata a creare mitologie basate sull’assorbimento di dati e che puntano alla diffusione in rete. Dato che la forza simbolica del mito ha sempre portato, in un passaggio inevitabile, la narrazione dell’arte fuori dal dominio dell’estetica per entrare in quello dell’etica, Gavarro studia questo passaggio allineandosi al pensiero di Jacques Rancière esposto ne Il disagio dell’estetica per giustificare la sovrapposizione di arte e politica. Anche qui gli esempi ci portano a ragionare su quanto il valore evocativo del gesto, dalla provocazione e la denuncia fino alla dichiarazione d’intenti, siano strumenti coerenti al linguaggio politico dell’arte. Gavarro traccia anche qui una linea che va da Tania Bruguera a Julian Rosefeldt passando per Olafur Eliasson e Alterazioni Video di Incompiuto e, per delineare il campo d’azione e d’insistenza dell’arte, conia il neologismo “realistätsgeist”.  Tradotto suonerebbe come “spirito di realtà” e, in pratica, sarebbe lo stato di compresenza di corpo e spettro, dell’oggetto e della sua immagine, ossia una condizione di interdipendenza tra esistenza fisica e immaginazione.
Le conclusioni di questo libro, breve ma denso, suonano come un appello a cambiare punto di vista su ciò che non riusciamo a comprendere perché ritenuto altro dall’“arte”. Gavarro, in definitiva, sollecita una mutazione di prospettiva necessaria a sostituire un’assenza con una nuova essenza che potremmo nuovamente definire arte.

Marcello Carriero

Raffaele Gavarro ‒ L’arte senza L’arte. Mutamenti della realtà analogicodigitale
Maretti, Imola 2020
Pagg. 128, € 18
ISBN 9788893970082
www.marettieditore.com

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Marcello Carriero

Marcello Carriero

Marcello Carriero (1965) si occupa di critica e storia dell’arte dal 1994. Ha scritto sulla cultura visiva contemporanea sulle riviste Arte e Critica, Arte, Exibart, e ha pubblicato l’unica monografia completa sul futurista Volt (Ed. Settecittà, Viterbo 2007). Attualmente docente…

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