La guerra in Ucraina vista da un artista. Le riflessioni di Paolo Ciregia

Dal fotogiornalismo all’arte il passo è stato breve per Paolo Ciregia, che ha documentato sul campo il conflitto nel Donbass e poi calato la sua ricerca nel linguaggio delle arti visive

Paolo Ciregia (Viareggio, 1987) per alcuni anni ha vissuto e operato come fotoreporter in Ucraina documentando nel 2014 l’inizio del conflitto russo-ucraino nel Donbass. Da quell’esperienza discende gran parte della sua ricerca che alterna fotografia, video e installazione per indagare temi come la geopolitica, i sistemi di potere e su come taluni aspetti delle ideologie novecentesche si stiano riaffacciando nella nostra società.

Vorrei partire parlando della tua esperienza sul campo come fotoreporter in Ucraina dal 2011 al 2015 e di come ti sei allontanato dai canoni di quella specifica grammatica fotografica realizzando la serie Perestrojka (2016).
Il mio percorso nella fotografia inizia intorno ai vent’anni. L’immagine con il tempo è diventata una questione etica che mi ha spinto a voler entrare con molta decisione nel mondo del fotogiornalismo. Paradossalmente, nel momento in cui ci sono riuscito, ho capito che quello che stavo cercando da sempre era altro. Negli ultimi tempi, quando riprendo in mano quelle fotografie, capisco che in realtà il mio desiderio non è mai stato quello di raccontare le cose in una maniera distaccata e oggettiva. Quando ho scoperto l’arte contemporanea ho capito che era lo strumento più adatto per restituire la complessità di ciò che volevo dire. La fotografia è un linguaggio che può essere piegato a messaggi anche molto differenti da quello originale, specie in un mondo come quello dell’editoria dove gli autori sono messi in una condizione di sudditanza. Ho iniziato questo percorso rimaneggiando le fotografie della guerra in Ucraina, intervenendo materialmente sulle immagini, in modo che l’esperienza personale di quel trauma potesse incontrare i fatti che avevo visto. Prima ho rimosso le sagome dei cadaveri dalle foto, come nell’opera Glasnost (2015), sia per allontanare da me la percezione della morte, che per rendere quelle vicende il più universali possibile, costringendo lo spettatore a colmare lo spazio bianco dell’immagine. Ho costruito la serie Perestrojka intervenendo sulle foto con tagli, abrasioni e graffi, fino a forzare il limite della bidimensionalità della fotografia creando opere sempre più installative e ambientali, perché quello che mi interessa è realizzare un’esperienza avvolgente e disturbante nello spettatore, che non sia semplicemente contemplativa.

Sempre legate al periodo che hai trascorso in Ucraina sono le fotografie Shield I e Shield II, dalla serie 125 (2018), che riportano le ‘ferite’ di entrambe le fazioni in guerra. Attraverso un gesto apparentemente semplice sul piano formale fai riflettere su come le questioni geopolitiche vadano lette nella loro complessità, evitando le facili etichette mediatiche dove vi è sempre una parte buona e una cattiva.
Anche questa installazione è legata alla mia esperienza diretta col conflitto russo-ucraino, dove ho seguito tutto lo sviluppo della rivoluzione partendo da Kiev per arrivare nella parte est del Paese, a Doneck e Mariupol’. Nel mio studio ho lavorato su uno scudo antisommossa – davanti recava la scritta Milizia in cirillico, costellata da vari adesivi con i simboli della protesta – che è stato usato in primis dalla polizia contro i manifestanti e poi è stato rubato da quest’ultimi per essere brandito contro le forze dell’ordine. Guardandolo mi sono reso conto che portava nella sua superficie la somma della battaglia perché la descrizione di questa guerra era impressa nell’oggetto attraverso una serie di graffi e incisioni. Queste ‘cicatrici’ erano le memorie di entrambe le parti in conflitto, un caos di segni entro cui si è formata un’immagine che ho scansionato direttamente dallo scudo e poi stampato in grande formato per far entrare lo spettatore nel pathos di quegli avvenimenti. Il numero evocato nel titolo non è casuale, vuole rimandare alle 125 persone che sono morte negli scontri di quei giorni.

Paolo Ciregia, Senza titolo, 2014, inkjet baryta, 110 x 135 cm. Courtesy Ncontemporary Gallery, Milano-Londra

Paolo Ciregia, Senza titolo, 2014, inkjet baryta, 110 x 135 cm. Courtesy Ncontemporary Gallery, Milano-Londra

LA GUERRA IN UCRAINA SECONDO CIREGIA

Come stai vivendo i drammatici fatti di questi giorni legati all’invasione dell’Ucraina voluta dal presidente russo Putin? Qualche giorno fa mi hai detto che senti verso quel Paese dei nodi irrisolti.
La notizia dell’invasione mi ha colto molto di sorpresa, è stato uno shock come credo lo sia stato per tutti. Quando parlo di nodi irrisolti non mi riferisco a fatti personali, ma piuttosto a situazioni che ho cominciato a investigare nel 2014 e che non si sono mai concluse realmente. Sicuramente l’attacco alla capitale ha spiazzato tutti perché la guerra, che prima si combatteva solo nelle zone separatiste, si è estesa su tutto il territorio ucraino. La notizia ha da subito generato un effetto a catena a livello internazionale e così in un batter di ciglio siamo passati da scongiurare una pandemia mondiale a fare altrettanto con una possibile terza guerra mondiale.
Adesso nel calderone c’è un po’ di tutto: da una nuova ondata di odio nei confronti di un popolo che non la pensa come i leader che lo rappresentano a episodi di razzismo verso persone che scappano dalla guerra, leggo di lezioni su Dostoevskij cancellate, padiglioni annullati e chi più ne ha più ne metta.
Condanno la guerra e la violenza sempre e ovunque si manifestino, ma per un attimo vorrei prendere le distanze da tutto l’odio gonfiato dai media per evitare di cadere in semplici squadrismi da stadio. Quello che sta succedendo ai civili è inammissibile qui, oggi in questa guerra, come otto anni fa in Donbass o in Crimea. Tutti cerchiamo e vogliamo la pace ma per ottenerla dobbiamo andare a fondo a tutte le questioni, giocare a carte scoperte e conoscere la storia per poter arrivare alla verità.

Immagino che tu abbia mantenuto dei contatti con alcune delle persone che hai conosciuto negli anni passati in Ucraina. Che situazione ti stanno raccontando?
Ho diversi amici in Ucraina con cui sono in contatto quotidianamente, alcuni abitano a est, altri a ovest, ognuno di loro sta vivendo questo momento a modo proprio: ho un amico pervaso da sentimenti nazionalisti che non lascerà mai Kharkiv, un altro che è scappato da Kiev per rifugiarsi in campagna con la fidanzata. Sono tutti rimasti in Ucraina ma nessuno di loro si è arruolato per il momento.

Senti la necessità di lavorare nuovamente sulle tematiche legate al conflitto ucraino? Anche in risposta a quello che sta accadendo.
Non sento necessariamente il bisogno di lavorare a tematiche legate al conflitto ucraino, bensì continuerò ad affrontare i temi che ho sempre affrontato nei miei lavori: il potere, la propaganda, i totalitarismi e la natura umana in senso più generico.

Paolo Ciregia, EU, 2019, inkjet baryta, 165 x 170 cm. Courtesy Museo MART, Rovereto

Paolo Ciregia, EU, 2019, inkjet baryta, 165 x 170 cm. Courtesy Museo MART, Rovereto

LA STORIA E IL PRESENTE NELLE OPERE DI CIREGIA

Nelle tue opere spesso prendi spunto da una serie di fatti storici che appaiono come un pretesto per evidenziare alcune dinamiche comuni a tutti i sistemi totalitari del Novecento che, a tuo dire, si potrebbero riverberare nel nostro tempo.
Quello del Novecento è un passato ingombrante che evidentemente non abbiamo ancora compreso e digerito, e la mia visione della storia è purtroppo ciclica. Senza dubbio sono stato molto condizionato dalla mia esperienza in guerra e dall’aver assistito all’ennesimo fallimento di una rivoluzione, come quella ucraina, che in breve tempo da rivolta popolare si è trasformata in un sistema in cui l’insicurezza e la paura della maggioranza nutre il potere di una minoranza che ne assume il controllo: è quello che accade in ogni sistema politico, totalitario o democratico che sia.

Nella tua pratica artistica hai anche lavorato ampiamente sulla manipolazione di immagini preesistenti, come nella serie Exeresi, dove l’intervento formale serve a disvelare i meccanismi della propaganda.
Il termine exeresi indica l’operazione chirurgica di asportazione da un tessuto sano di una parte cancerogena, e dà il nome a questa serie in cui agisco su immagini prelevate da varie riviste naziste, fasciste o comuniste come la Pravda.
Ho lavorato sull’iconografia prodotta dalla propaganda bellica che permetteva ai vari regimi di legittimare i sacrifici umani e alimentare il sentimento di adesione dei loro popoli. Attraverso il mio intervento di rielaborazione dell’immagine ne stravolgo il messaggio: particolari inquietanti, una volta isolati e ingranditi, rivelano la loro autentica natura, o immagini d’epoca si ripresentano disturbate da interferenze e rumori digitali come per evocare la curva di un presente che si ripiega nel passato, nella denuncia dell’incombenza, ancora oggi, del controllo dei media sulle nostre vite.

Che rapporto vuoi creare tra la storia del secolo breve e il presente? Le tue opere sono un ammonimento per noi che viviamo in un momento storico caratterizzato dall’insorgere di nuovi nazionalismi?
Credo che nei miei lavori sia sempre presente una forma implicita di ammonimento. Il fatto stesso di basare la mia opera su temi ricorrenti come il conflitto e il controllo propagandistico denota la volontà di convogliare l’attenzione dello spettatore, sempre più disturbato dal rumore della comunicazione mediatica, verso certi temi.

Penso che nella tua ricerca vi sia anche una profonda fede nelle potenzialità politiche dell’arte per poter scardinare e rendere palesi i meccanismi del potere.
Sì. La cosa che mi ha spinto a iniziare a lavorare in questo modo è proprio il fatto di passare dal fotogiornalismo, un sistema in qualche modo controllato, al poter parlare in maniera libera tanto della storia che della contemporaneità. Credo che l’artista goda di una posizione privilegiata, perché alla fine può decidere cosa indagare e, pur operando in un sistema dove anche l’economia ha un grande peso, penso sia più libero rispetto a un mondo mediatico fortemente condizionato dal potere.

Carlo Sala

http://www.paolociregia.eu/

Parte di questa intervista è tratta dal libro “Stati di tensione. Conversazioni su immagine, società e politica”, a cura di Carlo Sala (Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2021), promosso dal Mu.Fo.Co. – Museo di Fotografia Contemporanea.

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Carlo Sala

Carlo Sala

Carlo Sala (Treviso, 1984), critico d'arte, curatore e docente al Master in Photography dell'Università IUAV di Venezia. È membro del comitato curatoriale della Fondazione Francesco Fabbri Onlus per cui si occupa della curatela scientifica del Premio Francesco Fabbri per le…

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